Numero 35 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Stili di direzione
Da Concetti fondamentali di gestione d’impresa
Manuale pratico per le PMI di Giuseppe Monti

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di Giuseppe Monti

 

Sotto questa variabile vengono inquadrati gli atteggiamenti ed i comportamenti nell’esercizio della autorità (rapporti verticali). Il comportamento di un capo responsabile nei confronti dei subordinati può in generale essere orientato verso le persone, attento cioè al presidio delle dinamiche sociali e alle transazioni comunicative che si sviluppano all’interno del gruppo del quale è capo; oppure, all’opposto, può essere orientato alla “produzione”, ossia ai compiti, alle mansioni oggettive ed al raggiungimento dei concreti obiettivi. Questo secondo orientamento, coerente con un modello organizzativo di tipo meccanicistico, è maggiormente finalizzato all’efficienza del processo di produzione economica.

In entrambi i casi, affinché lo stile sia efficace, esso deve essere compatibile sia con l’ambiente complessivo e la cultura vigente in azienda, sia con le proprie attitudini e la propria personalità.

Molte sono le variabili in gioco sulle quali costruire uno stile di direzione; il rapporto capo-subordinato è sostanzialmente fondato sul potere e quindi sull’influenza che del potere è la manifestazione attiva.  L’influenza è  l’esercizio di una “pressione” in un rapporto interpersonale volta ad orientare il comportamento delle persone.
ttL’influenza nei rapporti verticali si basa essenzialmente sulla legittimazione del capo, sia per il ruolo organizzativo svolto che comprende la possibilità di attivare meccanismi di premio/punizione, sia per le sue doti personali di abilità, competenza professionale e leadership. I due modelli estremi di stile di direzione sono sinteticamente l’esercizio dell’autorità pura da un lato ed il ricorso alla partecipazione attiva dei subordinati dall’altro.

 

Il ricorso all’esercizio dell’autorità può articolarsi in diverse modalità, tutte accomunate dal medesimo atteggiamento da parte dei subordinati: l’accettazione e l’esecuzione di quanto previsto dal ruolo o richiesto dai superiori. L’esercizio dell’autorità nei rapporti con i subordinati può essere anche improntata all’autoritarismo, laddove il capo ricorra frequentemente agli strumenti e meccanismi di punizione.

Altra modalità di esercizio della autorità è quella nota col nome di paternalismo. Questa modalità, che nelle forme più spinte ed esasperate diviene sopraffazione e ricatto psicologico-morale, fa generalmente leva sull’instaurazione di rapporti sociali paralleli a quelli propri dell’ambiente lavorativo; le transazioni conseguenti hanno come secondo fine quello di ottenere uno stato di quiescenza e di devozione che investe e coinvolge la personalità, i sentimenti e la psicologia del subordinato ben oltre il limite che la natura di “scambio economico” del rapporto di lavoro vorrebbe.

All’estremo opposto rispetto all’esercizio dell’autorità, si trova lo stile partecipativo la cui caratteristica principale è l’esercizio della persuasione. Il rapporto anche in questo caso è basato sull’influenza, ma la legittimazione del capo, anziché da norme organizzative che ne delineano i poteri e l’autorità, viene a fondarsi sulla autorevolezza per meriti oggettivamente riconoscibili dai subordinati. Secondo questa impostazione, la superiorità gerarchica e la capacità di influenza, si basano o su competenze professionali di più elevato livello, oppure su una leadership maturata per spiccate competenze manageriali.

Le forme intermedie ai due estremi passano attraverso modalità di coinvolgimento-delega nel processo decisionale che concede ai subordinati spazi crescenti di discrezionalità.

Nei modelli autoritari-puri il capo informa i subordinati delle decisioni prese ed al più accetta che venga espressa la loro opinione. Nella forma partecipativa i subordinati partecipano, appunto, in veste consultiva o anche elaborativa al processo di decisione, fino al limite di poter operare in un ambito di delega all’interno di limitazioni note e predefinite.

L’impiego di uno stile basato sull’autorità o al contrario sulla partecipazione è una scelta fondamentale nel momento progettativo del sistema organizzativo. E’ opinione dominante che in un ambiente dove i rapporti sono basati sulla partecipazione, il livello di soddisfazione degli individui sia superiore.

In fase di progettazione organizzativa bisogna tenere conto che questi due modelli sono diametralmente opposti sul piano del rapporto costi/risultati. Il primo (ricorso all’autorità) rappresenta la forma più efficientista di gestione dei processi di decisione, economizza i costi organizzativi permettendo un’ampiezza del controllo superiore. Questa scelta, modelli organizzativi meccanicistici, risulta adatta a quelle imprese caratterizzate da processi standardizzati, con un livello basso di variabilità dell’ambiente circostante e dove l’aspetto più rilevante è appunto l’efficienza del processo di produzione economica.

Il ricorso ad uno stile di direzione partecipativa è invece una scelta organizzativa di tipo efficacista, gli ambienti di applicazione sono i contesti dove la complessità delle scelte e  “l’alta conseguenza dell’errore” sono tali  da privilegiare la qualità finale della scelta a scapito dell’economicità del processo. Ciò è tanto più necessario quanto più il know-how professionale è custodito ai livelli più bassi e quanto più i subordinati  sono chiamati a farsi carico di una gestione non ripetitiva delle risorse.

Per concludere possiamo dire che, pur non esistendo regole precise, quanto, più un sistema ha una struttura organizzativa di base poco articolata o definita con meccanismi operativi essenziali, tanto più i processi sociali, gli atteggiamenti ed i comportamenti messi in atto dallo stile di direzione giocano una parte di rilievo nel conseguimento delle finalità e dell’efficacia del sistema. La graduazione dello stile di direzione fra gli estremi presentati è inoltre da valutare in relazione alla “zona di accettazione” degli individui e quindi della cultura e della dimensione sociale in cui si opera.

Conflitti organizzativi
Volendo tentare una definizione del termine conflitto organizzativo si può dire che, in generale, è l’interferenza intenzionale di una persona  o di un gruppo  nel raggiungimento di determinati obiettivi da parte di altri individui o gruppi.  Pertanto se gli obiettivi delle due controparti sono incompatibili fra loro, il successo dell’uno comporta l’insuccesso dell’altro. Il conflitto  non va confuso con la competizione, dove ciascuna  delle due parti  mira al successo senza per questo contrastare, entrando in conflitto, l’altra parte in gioco. Nella competizione ciascuno fa del proprio meglio senza per questo ostacolare gli altri.

Nel caso degli ambienti organizzativi, le interdipendenze presenti all’interno delle aziende le rendono più frequentemente teatro di conflitti che non di competizioni. I conflitti si manifestano all’interno dei rapporti di potere:  semplificando possiamo dire che il potere è la capacità di ottenere che le cose vengano fatte nel modo desiderato.  Pertanto l’interferenza rappresentata dal conflitto può sussistere solo come esercizio del potere. L’autorità può essere vista come fonte di potere e, di conseguenza, di possibile conflitto.

E’ abbastanza facile individuare quali sono le aree dell’organizzazione dove è probabile si manifesti un conflitto o dove esso si trovi allo stato “potenziale”. Più difficile è prevederne l’insorgere effettivo,  cioè sapere  quando e come il conflitto si accenderà. Il conflitto opera in modo dinamico attraverso stadi successivi e la causa scatenante può spesso essere di lievissima entità.  Si possono distinguere due tipi di origini, le origini organizzative e gli stati di conflittualità pregressa.

La natura dei conflitti, invece, è da ricercarsi sia nello scontro fra personalità diverse, sia nella ricerca dinamica di assetti di potere all’interno dei livelli e delle funzioni in cui si articola la struttura. Più in generale, si può affermare che alla base dei conflitti organizzativi esistono talvolta condizioni oggettive di  differente mentalità, cultura,  approccio al processo decisionale dovute alla suddivisione di responsabilità.

Abbiamo avuto modo di dire che  la scomposizione degli obiettivi generali in sotto-obiettivi funzionali fra enti che operano in condizioni di interdipendenza e sequenzalità del flusso, rappresenta il presupposto per una eventuale  conflittualità nei rapporti organizzativi orizzontali.

Per fare un esempio, un obiettivo di fatturato e di redditività delle vendite chiama in causa le funzioni Acquisti (per il costo delle materie approvvigionate), Produzione (per la corretta ed efficiente gestione dei fattori tecnico-produttivi), Marketing (per la definizione del prodotto, la scelta dei canali e la fissazione del prezzo), Commerciale (per le vendite  e la penetrazione operativa sui clienti, Amministrazione (per la politica dei pagamenti-incassi).  Ogni responsabile di funzione può vedersi assegnare verticalmente gli obiettivi di funzione,  ma è evidente che in condizioni di difficoltà o di imprevisti esterni la suddivisione dell’onere e del contributo risolutivo viene affidata alle capacità di trattativa e di relazione dei singoli responsabili.

Le basi e le chiavi di lettura per la comprensione e la soluzione dei conflitti possono  essere ricercate in una serie ricorrente di fattori. Situazioni di potenziale conflitto possono manifestarsi ad esempio:

  • nel dualismo esistente fra responsabili anziani, psicologicamente più pronti al mantenimento dello status quo, e responsabili giovani, più istintivamente favorevoli all’innovazione ed al cambiamento;
  • fra organi di linea ed organi di staff per l’interpretazione del ruolo e la volontà di influenzare scelte ed attivare cambiamenti;
  • fra responsabili di unita interne all’ambiente ( Produzione)  ed unità di confine con l’esterno (Commerciale,  Acquisti), portate ad operare e conservare stabilità i primi, propensi ad orientarsi in funzione delle condizioni esterne i secondi.

Il giudizio generalmente negativo che viene attribuito ai conflitti  è  dovuto alla natura storicamente distruttiva da essi manifestata. Da un punto di vista etico, il conflitto è il modo attraverso cui si attuano i cambiamenti e con cui i  gruppi di   minoranza manifestano la propria avversione e opposizione verso la maggioranza e lo status quo.

Positivamente percepiti, i conflitti sono  presupposti per evidenziare  i problemi e sollecitarne la soluzione attraverso un processo di cambiamento. Negativamente intesi, i conflitti sono fonte di  inefficienza per mancanza di cooperazione nel processo di produzione economica e vanno soffocati i  quanto fonte di ostilità e di instabilità interna.

 

Giuseppe Monti, CMC (Certified Management Consultant): Esperienza consolidata (+ di 40 anni) in Formazione Manageriale, Marketing Internazionale, Internalizzazione, Business Plan, Marketing Strategico, Organizzazione, pianificazione ed implementazione di Balanced Scorecard, di BCP  Business Continuity Management,  di ISO 9001, 14001 e SA8000, Lean Organization per aziende Piccole, Medie e Grandi.  Direttore di Caos Management.