Numero 40 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Capitalismo Finanziario
Intervento Conferenza UPTER Roma 02/04/2009

 

di Carmine Tabarro

 

ttQuesto intervento trova la sua genesi dall’esperienza degli ultimi trent’anni della mia vita sia come professionista bancario, analista dei mercati finanziari, che come progettista e volontario di progetti di economia civile con il commercio equo e solidale.
In questi diversi ruoli ho visto crescere e svilupparsi, il capitalismo di terza generazione detto finanziario (CF).
In Europa il CF si è andato ad affermare in tutta la sua potenza, quando a partire dal 1984, la maggior parte dei paesi europei ha iniziato a seguire gli Usa sulla via della deregulation finanziaria. Presentato come la panacea di tutti i mali dell’umanità, il CF si è rivelato devastante sotto il profilo culturale, economico, morale e sociale.

L’ideologia del CF si basa sul dogma veicolato dal pensiero unico della one best way che afferma la logica  liberal-individualistica del mercato portatrice di benessere per tutti.
Nonostante la grande crisi del 1929 la storia non ha insegnato nulla e il secolo scorso è stato vittima di diverse devastanti ideologie, spacciate come scientifiche che hanno dato vita al sonno della ragione e della ragionevolezza.
Difatti l’economista John M. Keynes, già nel 1926 affermava che “quando l’accumulazione del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò è possibile che le cose vadano male”, in altre parole aveva colto e denunciato profeticamente, che  l’ideologia neoliberista, fondato sul capitalismo finanziario è strutturalmente fragile ed esposto a continue crisi.
Ma ha criticare questa ideologia, non c’era solo Keynes, ma anche Hyman Minsky, John Hicks, James Tobin, tutti studiosi nelle cui opere erano già, profeticamente descritti gran parte delle conseguenze che stiamo vivendo.
Tutti questi autori hanno dovuto sopportare dure critiche dal mainstream economico, compresi anche non pochi premi Nobel.     
Ma l’ideologia, nulla ha potuto dinanzi alla violenza della crisi, iniziata nell’estate 2007 a partire dagli Usa e poi diffusasi attraverso la globalizzazione dei mercati al mondo intero tra la fine del 2008 e questi primi mesi del 2009.
Una prima affermazione che dobbiamo fare è che questa volta ci troviamo dinanzi a una crisi che non è né congiunturale né regionale, questa crisi è sistemica.
In altre parole è il sistema ideologico e pratico del CF che genera crisi.
L’attuale disastro è solo il punto di arrivo, inevitabile, di un processo che da oltre trent’anni ha modificato alla radice il modo di essere e di funzionare del mondo bancario e finanziario, distruggendo del tutto le basi  dell’ordine sociale liberale che è la caratteristica fondamentale del modello di civiltà occidentale.
Alla base di questa ideologia c’è una pseudo-scientificità,  di cui si sono fatti ciechi sacerdoti, molti accademici, finora dominanti, una debole classe politica,  operatori di mercato, agenzie di controllo, ecc.
E’ un’ideologia che ha il suo fondamento antropologico sull’homo oeconomicus – ovvero sulla riduzione economicistica dell’umano.
Attraverso teoremi raffinati e indagini econometriche, questa ideologia, giunge alla conclusione che i mercati, anche quelli finanziari, sono assetti istituzionali in grado di autoregolarsi e ciò nel duplice senso di assetti capaci di darsi da sé le regole per il proprio funzionamento ed inoltre di farle rispettare, negandosi in maniera ascientifica i rischi di tali postulati.
Chi come noi, quotidianamente viveva e vive professionalmente sul campo l’assurdità teorica e pratica di questa ideologia era cosciente che prima o poi il castello di finanza virtuale sarebbe crollato.

Diverse sono le cause che hanno determinato questa crisi.

  • 1)  La causa fondamentale è stata la trasformazione delle banche, della finanza e delle imprese in un casinò o in una slote machine.
    1a)In questa logica l’elemento devastante è stato svolto dai mutui subprime (MSP).


I MSP hanno il loro artefice in Alan Greenspan responsabile della Banca Centrale Usa.
Questi è stato il fautore della teoria economica che fonda i consumi sui debiti e sulle piramidi finanziarie dei derivati.
Dopo aver istigato milioni di famiglie americane che con i loro redditi non avrebbero mai potuto acquistare una casa ad indebitarsi con la trappola dei bassi tassi di interessi, calati fino all’1% li ha poi aumentati al 5,25 facendo esplodere il castello di ricchezza virtuale.
 
La cecità scientifica di questa teoria è dimostrata anche dal fatto che lo sviluppo della proprietà immobiliare delle famiglie statunitensi ha avuto una regolare crescita: negli anni quaranta del secolo passato era del 44% per giungere a circa il 66% negli anni sessanta.
In questo periodo i valori immobiliari non hanno subito particolari scossoni ne al rialzo ne al ribasso.
Questo anche grazie al grande ruolo svolto da Fannie Mae che fino al 1969, era un’agenzia governativa, ed aveva come missione:
a)acquistare dalle banche commerciali e dagli altri gestori di risparmi le obbligazioni per consentire loro un flusso costante nella erogazione dei mutui
-dettare gli standard di riferimento.
Questa sana e redditizia gestione è andata a modificarsi alla fine degli anni ’70.
Difatti con l’avvento dell’ideologia neoliberista gli speculatori di Wall Street, hanno visto nel mare ricco di pesce di Fannie Mae, un luogo  dove gettare le loro reti.
Nel tentativo di emulare Fannie, questi attraverso società veicolo hanno impacchettano mutui convertibili in obbligazioni, creando prodotti d’ingegneria finanziaria sofisticata di difficile comprensione anche per gli specialisti, prodotti sempre più convenienti perché sempre più rischiosi.
La governance politica americana, affascinata dalla pietra filosofale dell’ideologia neoliberista, ha modellato la sana gestione di Fannie Mae su quella degli speculatori, alimentando la spirale degli abusi.
Perché parliamo di abusi.
Una sana gestione delle banche impone delle regole contabili che impone registrare in bilancio i prestiti concessi come passività.
Questa sana gestione ha un rovescio della medaglia; le banche in breve termine raggiungono la soglia del capitale minimo che l’autorità di vigilanza impone alle banche di tenere disponibile per assicurare la copertura dei prelievi.
Questa sana gestione era vista dall’ideologia neoliberista come un vincolo ai profitti.
Per aggirarla, gli ingegneri finanziari, veri guardiani della rivoluzione del terzo capitalismo, hanno trasformato le passività delle banche in attività, conferendo ai debiti dei clienti la qualità di titoli di credito e in quanto tali vendendoli  sul mercato finanziario.
Questa invenzione tecnica va sotto il nome di cartolarizzazione.
La tipologia più comune di tali titoli sono le ben note CDO
(Collateralized Debt Obligations), introdotte per prime negli USA nel 1977 (e in Italia nel 1999 con la legge 130).
Dinanzi a questa invenzione copernicana, la governance politica americana accecata nella ragione dall’ideologia non solo non è intervenuta per garantire il rispetto degli standard, ma quel che è peggio ha lasciato alle agenzie private di rating il compito di decidere loro il grado di sicurezza dei nuovi strumenti finanziari.
Attraverso la globalizzazione dei mercati e il peso politico ed economico degli USA, “cultura” delle cartolarizzazioni si è diffusa a livello mondiale; quindi i mutui subprime americani vengono venduti in America Latina, in Asia piuttosto che in Europa.
Come detto gli unici controlli sono lasciati ad imprese private, riconosciute dal governo, come Moody’s e Standard and Poor, ma non sottoposte ad alcuna regolamentazione; queste attribuiscono punteggi di affidabilità ai vari prestiti obbligazionari per tutelare – così si dice – la fede pubblica dei sottoscrittori.
La pazzia sta nel fatto che il controllore è pagato dal controllato è nell’epopea della creazione virtuale della ricchezza quale interesse c’è nell’indagare con serietà?
Solo oggi politici e studiosi ci dicono che senza il conflitto d’interesse delle agenzie di rating con le banche e in genere con la finanza il fenomeno sub-prime non si sarebbe potuto manifestare con la violenza che stiamo conoscendo. 

  • 2)  L’eccesso di leverage.
    Il volume delle transazioni speculative poste in essere nel corso dell’ultimo quarto del secolo passato,  è stato realizzato quasi interamente con denaro preso a prestito.
    Un rapporto considerato normale di leverage per un hedge fund o per un fondo di private equity è dell’ordine di 30 a 1 – quanto a dire 30 dollari di debito contro 1 dollaro di capitale reale.
    Addirittura cinque anni fa, la Morgan Stanley fu una delle cinque grosse banche di affari americane che ottenne dalla SEC (la nostra Consob), la duplice autorizzazione ad indebitarsi fino ad un rapporto di 40 a 1 rispetto al proprio capitale e a sostituire con l’autoregolamentazione i controlli esterni.
    La fragilità e la precarietà del capitalismo finanziario, quindi è la conseguenza di un modello di sviluppo che ha creato una quantità esagerata di denaro virtuale che esiste solo nei server e nei computer delle banche e degli speculatore finanziari.
    Secondo i dati del “The Economist” raccolti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, la somma giornaliera (pre-crisi) di denaro circolante “virtuale” era di $ 2.200.000.000.000.
    Il dato fondamentale è che solo il 5% proviene dall’economia reale cioè quella produttiva, il resto è solo economia virtuale.
    La quantità di denaro creato dal nulla grazie agli strumenti finanziari ammonta a 15 volte il Pil mondiale.
    Il capitalismo finanziario globalizzato, ha trasformato molte banche, finanza e imprese in soggetti speculatori, la cui missione è far profitti (“senza se e senza ma”); l'attività svolta è priva di qualsiasi valore intrinseco, la Responsabilità Sociale d’Impresa, tanto sbandierata, solo un puro esercizio di marketing strategico, adoperato al solo fine di far arricchire gli azionisti e i manager e dare fumo negli occhi all’opinione pubblica.
    L’economia postmoderna invece ha bisogno di banche, finanziarie ed imprese responsabili e sostenibili.
    L'economista Yunus, Nobel per la pace, fondatore della Grameen Bank ricorda sempre che nell'economia di mercato l'accesso al credito è un diritto fondamentale dell'uomo, poiché se questo diritto non è soddisfatto le persone non riescono a realizzare i propri progetti e a liberarsi dalle catene della povertà.
    E’ vero che le banche sono imprese con vincoli di efficienza e di economicità, ma hanno anche un ruolo di responsabilità e devono salvaguardare gli interessi di molti soggetti e di intere nazioni.
    I fallimenti delle banche del 2008, ci stanno insegnando è che l’impresa bancaria è un'istituzione con un grande valore sociale e con una grande responsabilità:  non può essere abbandonata alla finanza creativa e al rischioso gioco del profitto irresponsabile.
    Benedetto XVI, nell’ultimo messaggio per la Giornata della Pace, denuncia tra le altre cose, che “anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune”. Per il Papa “la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate” realizzando “un efficace quadro giuridico per l'economia”.

  • 3)  La terza causa del crollo va ricerca nella rivoluzione culturale del CF.
    Rivoluzione che ha comportato conseguenze nefaste sull’economia reale, sociale, culturale, morale, ambientale del mondo intero.
    Il primo riguarda  il mutamento radicale nel rapporto tra finanza e produzione di beni e servizi che si è venuto a consolidare nel corso dell’ultimo trentennio.
    La seconda ha dato vita ad uno stravolgimento del modo di concepire il nesso tra reddito da lavoro e reddito da attività speculativa. Il capitalismo finanziario, con cieco furore ideologico,  ha fatto credere, ai lavoratori, alle famiglie, alla società,  che la scelta migliore era quella di puntare le proprie fiche sulla speculazione e non sui salari.
    Non solo, un altro “articolo di fede” afferma: che dalla speculazione si possono ottenere con progressione matematica, il reddito necessario per conseguire livelli crescenti di consumo, quindi benessere (altra falsità ideologica). 
    Anzi, nella misura in cui si riducono i salariali si favorisce la redditività delle imprese quotate in borsa, ergo le famiglie compensano il minor reddito da lavoro con aumenti dei redditi di borsa.
    Tutto questo ha generato una mutazione genetica tra la figura del lavoratore e la figura del consumatore. Difatti,  per generare valore azionario occorre che le imprese si ristrutturino con operazioni quali  licenziamenti, delocalizzazioni, l’outsourcing,  fusioni, acquisizioni.
    Secondo il CF queste scelte comportano la riduzione del salario, ma riduce anche i prezzi dei beni di consumo, quindi l’uomo postmoderno è frutto di una sintesi ideologica che è rappresentata dalla figura  dell’investitore-speculatore.
    Non dobbiamo allora sorprenderci se nell’arco dell’ultimo quarto di secolo, per un verso, è aumentata, fino a raggiungere livelli mai visti in precedenza, la volatilità dei rapporti di lavoro (la cosiddetta precarietà, che ben poco ha a che vedere con la flessibilità) e per l’altro verso è andata aumentando, in tutti i paesi dell’Occidente avanzato, la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi. Come ci informa il Rapporto OECD dell’ottobre 2008 (Growing unequal? Income distribution and poverty in OECD countries), la distanza tra ricchi e poveri è aumentata sensibilmente nel periodo indicato. (L’Italia è seconda fra i paesi sviluppati, dopo gli Stati Uniti, in questa non invidiabile graduatoria).
    E’ facilmente intuibile che i frutti di questi dati siano in relazione:
    a)All’uso smodato di contratti precari;
    b)ai redditi di lavoro, manuale o intellettuale che sia, si privilegia  remunerazioni legate, come  avviene nel caso delle stocks options per i dirigenti, agli andamenti borsistici.
    Anche in questo caso Keynes nel noto saggio del saggio del 1926, La fine del laissez-faire, aveva individuato con la lucidità e profezia, che la causa dei “maggiori mali economici del nostro tempo ‘nelle’ grandi sperequazioni di ricchezza che si determinano quando particolari individui, godendo di posizioni o abilità particolari, riescono a trarre vantaggio dall’incertezza e dall’ignoranza ‘e quando’ per gli stessi motivi, le grandi imprese diventano spesso una lotteria” che fa venir meno le “ragionevoli aspettative imprenditoriali”.

  • 4)  L’attuale crisi è anche e soprattutto una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni,  gli stili di vita, le persone, l’ambiente.
    4a)Da alcune generazioni siamo stati indottrinati ad indebitarci (negli Stati Uniti ma non solo) per consumare in maniera patologica,  ben oltre le capacità di reddito da lavoro.
    Anche in questo caso dopando la realtà.
    Difatti, indebitarsi per il consumismo è un atto ad alto rischio, poiché mentre l’indebitamento per un investimento è sano e naturale, fondato sull’ipotesi che se l’investimento è buono il valore aggiunto remunererà anche l’interesse bancario, indebitarsi per consumismo ha la stessa valenza di crede che seminando denaro spera di vederlo un domani crescere moltiplicato sugli alberi.
    Con questo non vogliamo riproporre il pauperismo e neppure si  vuol negare che entro limiti sostenibili, il debito delle famiglie possa essere virtuoso per l'economia e per il bene comune.
    Ma è ancora più vero che la banca che presta troppo e alle persone sbagliate non è meno incivile di quella che presta troppo poco alle persone giuste.
    4b) Paradisi fiscali
    La definizione di paradiso fiscale è tutt'altro che agevole.
    Sono sicuramente paradisi fiscali i paesi con una tassazione nulla o puramente nominale, in cui risulta conveniente stabilire la sede di un'impresa (per esempio, una società offshore) che molto spesso non svolge alcuna attività economica sostanziale, a cui attribuire, attraverso diversi meccanismi elusivi, i profitti di altre società, così da evitarne la tassazione nei paesi dove effettivamente sono generati.
    In quest’ultimo caso non si tratta solo di eliminare una concorrenza fiscale che toglie agli stati sovrani le risorse necessarie ad affrontare i costi sociali della crisi e, più in generale, a sostenere i propri sistemi di welfare (va ricordato che economisti autorevoli come Mario Monti hanno da tempo sollevato il problema impegnandosi per l’obiettivo dell’armonizzazione fiscale in tempi non sospetti) . Altro danno meno visibile ma forse più grave dei paradisi fiscali al sistema economico internazionale è quello di offrire spazi di opacità che consentono, attraverso legami reali ma invisibili tra partecipate, di aggirare regole contabili e regole di antitrust ledendo i principi fondamentali dell’economia di mercato.

In conclusione di questo intervento possiamo dire che dovremo abituarci presto alle crisi come questa e forse ancora più devastanti se il Cf non viene riformato.
Da quanto detto è facilmente che questo impianto ideologico produce crisi, quella che stiamo (come le altre degli ultimi decenni)  attraversando è la regola e non l’eccezione del capitalismo finanziario, l’attuale è peggiore in quanto è aggravata dalla globalizzazione avanzata che tanti proseliti aveva fatto nelle banche, nella finanza e nell’impresa,  amplificandone le conseguenze delle crisi.
Le conseguenze del capitalismo finanziario, come dicevano hanno creato molti paradossi nel mondo globale - disuguaglianze territoriali e individuali, crescita senza occupazione, aumento del reddito pro capite ma non della qualità della vita, deficit sociali e ambientali. 
Per invertire questo trend c’è bisogno di una profonda riflessione sul capitalismo, che non sia solo di tipo economico e finanziario, ma anche politico e culturale.
L’attuale assetto è ancora frutto degli accordi di Bretton Woods nel dopoguerra.
Keynes, che era anche tra i promotori di quegli accordi, era convinto che data la nuova natura del capitalismo occorresse un nuovo “patto sociale”, nuove regole e nuove istituzioni (economico-politico) per gestire questa nuova realtà.
Questa cultura di un nuovo “patto sociale” è stato lungamente delegittimata dal diversi accademici, tra questo il maggiore senz’altro è stato il premio nobel Milton Friedman.  
Il risultato è che le uniche organizzazioni nate da Bretton Woods, quali il FMI e la Banca Mondiale, hanno compiti parziali e spesso hanno in parte tradito la missione di quel nuovo patto.
Alla fine degli anni novanta del secolo passato, qualcosa si è mosso nella società civile globale, facendo maturare la convinzione che il capitalismo richiedesse una diversa e più attenta governance. La Tobin tax, e il dibattito attorno ad essa, ha svolto una funzione di catalizzatore di un processo sociale che con il G8 di Genova del luglio 2001 raggiunse il suo massimo.
Purtroppo l'11 settembre, ha deviato la coscienza civile globale dai problemi della nuova architettura del capitalismo finanziario, per indirizzarla sui temi della sicurezza e del terrorismo. L’attuale crisi sistemica, dimostra quanto errata è stata questa "distrazione".
Un ruolo sicuramente importante nella riscrittura dell’architettura del capitalismo lo può svolgere la cultura dell’economia civile.
L’economia civile crede e sperimenta da circa sei secoli che proprio dentro l'attività economica, il mercato e il contratto, ci sia posto anche per una diversa configurazione di quell'insieme di attività che va sotto il nome di Organizzazioni della società civile.
Crediamo che la via maestra dello sviluppo, veda accanto alle forme tipiche dello stato e del mercato, - istituzioni di welfare civile e di forme nuove di impresa capaci di far diventare il mercato un luogo di incontri civili e civilizzanti e persino di felicità pubblica.
Questa concetto ha una visione antropologica dell’uomo come essere aperto alle relazioni e fa dunque spazio al principio della reciprocità.
Il principio di reciprocità ha diversi elementi; tra loro vi sono la gratuità e le aspettative
di imitazione dell’atto di gratuità. La missione della reciprocità è creare fraternità che è molto di più della solidarietà.
La reciprocità cerca, da un lato, il consolidamento dei rapporti sociali; cioè vuole creare una fiducia generalizzata senza la quale non solo i mercati ma neanche la stessa società potrebbe esistere; dall’altro, la libertà in senso positivo, cioè la possibilità per ciascun persona di realizzare il proprio progetto di vita e dunque la possibilità di essere  felici. La reciprocità, quindi, è il principio che traduce in atto lo spirito di fraternità.
Con le parole di Dahrendorf possiamo dire: “La democrazia e l’economia di mercato non bastano. La libertà ha bisogno di un terzo pilastro per essere salvaguardata: la società civile.”

 

Carmine Tabarro