Numero 75 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Calcio e razzismo
“La cosiddetta razza bianca è in realtà rosa-grigio”.
Edward Morgan Forster, Passaggio in India, 1924

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di Simone Ippoliti

 

Un luogo per sfogarsi. Un’arena dove a volte tutto sembra possibile senza nessun freno. Così a volte lo stadio di un campo da calcio viene visto da tutti coloro che nella vita non riescono a trovare una giusta serenità. Un rapporto difficile con la società che li circonda, uno scoglio tra l’essere e il desiderare.

Il razzismo nel calcio non è una novità. Purtroppo, la frase “Possibile che nel 2013 ci siano ancora episodi di questo genere?”, è nell’ordinario linguistico. Ma c’è un vero e proprio collegamento tra i “Buu” razzisti e l’intolleranza del singolo soggetto? A volte si, ma altrettante è solo e stupidamente la voglia di far parte della voce del coro. Sentirsi integrati in un gruppo disprezzante che però apre le porte all’emarginato.

Nel calcio episodi di razzismo non sono più l’eccezione. Eppure, nel corso degli anni svariati sono gli accaduti che hanno sollecitato un bisogno di giustizia. Il 25 novembre del 2005 il calciatore ivoriano del Messina Marco Andrè Zoro, fermò il gioco e prese il pallone con le mani perché bersagliato dai “cori” razzisti del pubblico interista. Il giocatore minacciò di abbandonare il campo. Fece un grande gesto, ma a mio avviso commise un solo errore. Quello di lasciarsi convincere a rimanere “ignorando” gli insulti che provenivano dalle tribune.

 

 

Dal video, si nota che il giocatore dell’Inter Adriano strattona Zoro e sembra dirgli: “Ehi guardami, anche io sono di colore…”. Tutto ciò accadeva in serie A, provocando un effetto mediatico non indifferente.
VIDEO    http://www.youtube.com/watch?v=uHvDNj_VijA

Zoro, ferito nell’animo continuò a giocare quella partita. Un'ammenda di 25mila euro con diffida: è questa la sanzione che fu presa nei confronti dell'Inter dal giudice sportivo per punire i cori e gli striscioni razzisti rivolti dai sostenitori nerazzurri al giocatore.

Episodio simile accadde ad uno dei più grandi terzini della storia del calcio. Nel 2011 Roberto Carlos, si vide lanciare una banana nel corso di una partita. Lui non ci pensò su due volte, si tolse la fascia da capitano e con uno sguardo intriso di delusione e disgusto, tra gli abbracci dei compagni di squadra, decise di abbandonare il rettangolo di gioco.

“Spero che il tifoso che mi ha lanciato quella banana, non rimetta più piede in uno stadio”, così Roberto Carlos dichiarò a fine partita, ma a distanza di tempo, il calciatore brasiliano si rese disponibile ad incontrare e perdonare quel tifoso del Krylia Sovetov. Gesto che rende ancor più onore a Roberto Carlos.

Il paradosso. Gli esempi di ululati razzisti e gli insulti di stampo razziale nel nostro campionato sono rivolti ai giocatori di colore. Ma ciò che rende ancor più ridicolo e insensato questo manifestarsi, è che gli stessi tifosi insultano solo i giocatori dell’altra squadra. Fatemi capire bene, se devi essere razzista, fallo bene no?

Del resto, il tutto si riallaccia al discorso iniziale. Il desiderio è quello di far parte di un gruppo, di una coalizione che apre le sue porte al soggetto emarginato che nella società non riesce ad integrarsi, ad imporsi. Non penso che ci siano aggettivi adatti per definire un comportamento del genere. So solo che in Italia questi episodi devono finire. Che non sia più concessa questa libertà che il soggetto vigliacco trova nel branco.

La serie A è sotto gli occhi di tutti, dovrebbe servire da esempio, ma purtroppo, proprio in questi giorni (26 gennaio 2013) due ragazzi africani dello Sporting Pontecorvo sono stati bersaglio di slogan razzisti durante una partita con il S. Elia nel campionato juniores. Uno dei due, Mounassir si è tolto la maglia e se ne è andato. Gesti già visti? In parte, questo perché tutta la squadra, solidale con il compagno, ha seguito il giovane giocatore marocchino dirigendosi negli spogliatoi.

 

 

Il ministro per l'Integrazione, Andrea Riccardi ha commentato così l’accaduto: "Voglio portare attraverso la vicinanza mia e del governo italiano a questo ragazzo, ai genitori e a tutta la squadra di calcio per gli inaccettabili slogan razzisti. La circostanza è ancora più grave perché è accaduta a ridosso delle celebrazioni del Giorno della Memoria: è il segnale di quanto ancora bisogna fare per promuovere, specie tra i giovani, una cultura di dialogo, di convivenza e di rifiuto del razzismo, della xenofobia e dell'antisemitismo".

Dichiarazioni che non fanno una piega per così dire, ma sinceramente colpiscono di più quelle rilasciate dal ragazzo, coinvolto in questa vicenda. Così ha commentato in un’intervista Mounassir Tahir: “Mi urlavano di tutto: sporco negro, negro di merda, insulti a mia madre e alla mia famiglia. Ho retto finché ho potuto, poi non ce l’ho fatta più, forse smetterò di giocare".
 
C’è poco da aggiungere a queste frasi. Lo sport ne esce sconfitto e probabilmente ne usciamo sconfitti un po’ tutti quanti. Non si può far finta di non “sentire”, di tirare avanti verso una direzione anulare che ci riporta al punto di partenza.
Del resto, si dice miseramente che lo sport, in questo caso il calcio, sia sotto molti punti di vista lo specchio della nostra società. Meglio emarginarsi allora, dalla “parte” giusta però.

 

 

Simone Ippoliti: giornalista laureato in Scienze Politiche. Una lunga esperienza nel mondo della comunicazione radiofonica nelle vesti di conduttore e inviato in emittenti sportive. Collaboratore anche per giornali e riviste di carta stampata. Apparizioni televisive in canali locali e gestore di un blog personale: http://oculusweb.tumblr.com/
Inoltre, coautore di un canale youtube con video/interviste effettuate e montate personalmente:http://www.youtube.com/user/simoradio100?feature=mhee