Da ragazzina scrivere fu un modo per uscire dal mio scomodo corpo e acquistare le ali.
Da adulta  trasformai questo volo in un concreto e appassionato mezzo di superamento delle infelicità diventando  giornalista.
Per quasi 15 anni  frequentai, da freelance, le redazioni de Il Mattino,  L’unità,  L’Espresso e Cosmopolitan.
Poi un giorno,  improvviso, irruppe  l’irrazionale, l’imponderabile, l’inatteso: il dolore.
Nell’agosto del 1992 Cosmopolitan pubblicò il mio ultimo articolo, lo lessi a Campoli, sul monte Taburno, nella struttura della “Fondazione Clinica del Lavoro e della Riabilitazione” dove Alfredo, mio marito, stava cercando di raccattare i pezzi  sparsi della sua vita, lottando con estenuante coraggio contro gli esiti di un ictus.
Fu l’ultima volta che  scrissi un pezzo per un giornale.
Fu la fine del mio lavoro di freelance.

Un Amore di Pan
(Cosmopolitan  Agosto 1992)

La vita sull’Olimpo non è tutta rose e fiori.
Tante divinità strette  in un luogo relativamente angusto, pronte a millantare credito,
inorgoglirsi per un nonnulla, rinfacciarsi errori e  punire mortali  non creano  un’atmosfera idilliaca.
Giove, padre di tutti gli dei, assiso sull’eterno trono, trascorre le giornate a occuparsi degli affari altrui. Sta  lì,  tronfio a rimirare,  scrutare,  spiare i poveri mortali arrabbattarsi  per vivere.
Ma più che ai mortali Giove è interessato (oseremmo dire appassionato) alle mortali.
Pronto a camuffarsi da qualsiasi animale o cosa pur di conquistare una bellezza terrena. Così l’ignara donna, pastorella o contadina che sia, non fa in tempo ad accorgersi  di esser stata punta da un insetto molesto che già si ritrova incinta. Quando  dopo nove mesi nasce l’ennesimo dio o semidio, il mistero viene svelato: la colpa è di Giove trasformatosi in un tafano per carpire un attimo d’amore.
Nei confronti degli umani è meno attento: son solo “affari” e li persegue con professionalità e solerzia. E’ una bella seccatura, però, con tutte le loro fisime, le fobie, l’abitudine di accapigliarsi,  la voglia inestinguibile di combattere, di giudicare, di condannare senza appello.
Alla fine quando non ne può più e le lungaggini burocratiche si fanno sempre più pesanti, Giove stanco e annoiato manda un bel po’ di fulmini e saette, allaga intere regioni, distrugge beni culturali pubblici e privati e rimette tutto a posto.
Ci sono giorni infausti sull’Olimpo e spesso coincidono con le visite di un certo dio Pan.
Nessuno convincerà mai Giunone che quell’essere ripugnante non sia figlio di Giove,
“quel porco!”, e di qualche sgualdrinella campestre.
Quindi non fa che indagare, domandare a destra e a manca. E’ una vera seccatura!
Ma tutti sanno che Pan è il frutto della colpa di tal ninfa Penelope, figlia di Driope,  e di quel mattacchione di Mercurio.
Vi fu un tempo, infatti, in cui Mercurio viveva come bovaro in una “ fattoria” dell’Arcadia. Aveva assunto l’aspetto umano per unirsi alla ninfa Penelope, di cui era pazzamente innamorato. Dalla loro unione nacque un figlio. Un nuovo dio, signore degli armenti , chiamato Pan. Ma quando la madre lo vide: tanto brutto qual era, ne fu così terrorizzata che lo abbandonò. Il padre, avvolto il piccolo in una pelle di lepre, lo condusse con sé sull’Olimpo.
Lì solo Bacco lo trovò simpatico. Trovò buffa quella sua fronte caprina ornata di piccole corna, tenero il pelame che gli ricopriva il corpo e il mento, bizzarre le piccole zampe ingiallite, incantevole il ghigno satanico e assolutamente irresistibili gli zoccoli duri che sostituivano fragili piedi di neonato. Ne fu estasiato.
Giunone, invece, sapendo che tutti i piccoli portati lì erano per lo più figli illeggittimi di suo marito, “quel porco!”, l’odiò immediatamente. E non aveva torto perchè il fanciullo aveva un brutto carattere che sarebbe peggiorato col passar del tempo.
Ora lo vediamo passeggiare per l’Olimpo con quel suo mostruoso corpo bestiale, mentre la sua indole lasciva lo spinge a infastidire le più belle dee.
Un pizzicotto alle tette di Venere, un bacetto viscido sulle guance di Giunone, una “mano morta” sul posteriore di Diana che, vergine -virago, gli rifila una ginocchiata nei coglioni.
Tutte sono molte adirate e appena lo vedono arrivare cercano di defilarsi.
Ma il dio degli armenti non ama il mondo divino, preferisce, come i fauni, fauneggiare per selve ubertose e mistiche valli. Così se ne va per viottoli alberati e colline verdeggianti saltellando e suonando.
Un altro vezzo è infatti la musica. Nonostante in una gara musicale Apollo lo abbia battuto clamorosamente, continua a suonare come se nulla fosse.
E le ninfe ballano con lui.
Lo scherniscono per il suo orribile aspetto, giocano a nascondino, scappano per farsi inseguire.
Si sa , le ninfe sono delle vere cretine!
Le Driadi fuggono nei boschetti, le Amadriadi sgattaiolano sugli alberi, le Melie s’infrattano nei frassini, le Oreali se ne vanno pei monti, le Naiadi si bagnano alle fonti, le Nereidi e le Acheloidi si tuffano nei flutti.
Su tutte loro troneggia, capo storico del movimento, Diana, la vergine-virago, che le catechizza contro il sesso  in favore della castità, per la difesa di una “verginità raggelata”.
Pan  non fa che inseguirle, acquattarsi dietro le selve, spiare mentre, nude, fanno il bagno, tentare di afferrarle. Le ninfette urlano, piangono, chiedono di essere risparmiate…poi arriva Diana, lo prende per le corna,  lo accusa di essere uno stupido maschio  fallocratico  e gli intima di rifletterci su, se non vuole essere ricoperto di merda.
Ma il nostro ci riprova sempre, la sua è una forma ossessiva compulsiva di gallismo olimpico.
Fino al giorno in cui entra in scena una ninfa appena arruolata: Nonacri, per gli amici Siringa
E’ talmente leggiadra, bella, gentile, verginea che quando Pan la vede gli accade una cosa straordinaria, da prima pagina: se ne innamora.
Pan innamorato è una visione inusuale. E lui non sa che diavolo  fare.
Per prima cosa la insegue, tenta approcci volgari, le sussurra frasi oscene, le si mostra in piena nudità, cerca di stringerla a sé e baciarla. La povera Siringa riesce sempre a sfuggirgli.
A fatica la ninfa gentile mena i suoi giorni per i boschi e le fonti, sempre perseguita dal dio.
Si intristisce, la sua pelle perde splendore, imbruttisce.
D’altro canto Pan ha perso completamente la testa. Cerca di suonare, ma è uno strazio ascoltarlo.
Cerca di giocare con le ninfette, cerca di ballare, ma il suo corpo e le sue parole sono come spenti, malati, morenti.
E’ un brutt’affare questo amore di Pan.
Ma una mattina, una di quelle mattine soleggiate, calde, incantate, Pan scorge il suo amore steso su di un prato di mammole viola e pratoline bianche. Presa da Morfeo sorride nel sonno.
Pan non resiste al desiderio di baciarla. Le si avvicina silenzioso, in totale apnea.
Ma lei  si sveglia,  lo vede, urla terrorizzata e scappa.
I suoi piedi calpestano i teneri fiori.
Fugge seguita da Pan, che quasi la raggiunge.
Siringa è allo stremo ma si fa forza, riesce a svicolare, imbocca un viottolo difficile da percorrere per un essere  munito di zoccoli e corna, si lacera le vesti leggere e si graffia le sottili caviglie.
Alla sua vista, lontano, il fiume Ladone. I suoi piccoli piedi sfiorano appena il terreno e i fiori incolpevoli si scansano per facilitarne il passo.
Il fiume si avvicina: è lì davanti a lei. Siringa non ha più via di scampo: non può attraversarlo, non può più nulla. Chiede al fiume  e alle ninfe delle acque di aiutarla.
Pan si avvicina, i suoi zoccoli smuovono piccoli sassi. Il suo sguardo è infuocato, il desiderio ormai scatenato è inarrestabile.
Ed ecco che accade qualcosa.
Improvvisamente la ninfa scompare proiettata in un’altra dimensione, ormai  salva.
Le Naiadi, colte da profonda pietà,  l’hanno trasformata in giunco. Davanti agli occhi di Pan s’estende il più bel giuncheto mai visto. In mezzo a quelle  verdi flessibili piante acquatiche c’è lei, la piccola infelice sfortunata ninfa.

Pan giunge sull’argine del fiume, guarda le acque, grida forte il nome dell’amata, sul suo viso caprino  tristi, copiose lacrime di dolore.
Resta immobile per ore. Resta lì per giorni.
Infine taglia una canna, la svuota, la forgia, la  lega ad un’altra e ne fa uno strumento.
Per ricordare il suo amore perduto lo chiama siringa. Non vuole dimenticare il suo  incommensurabile dolore: s’inebria di esso, se ne abbevera come ad una fonte.
La sofferenza  lo rende sempre più intrattabile. Suona quel suo strumento, il flauto di Pan, e la sua voce  è così straziante da commuovere l’intero universo.
Ancora oggi lo si può incontrare in qualche bar sotto braccio al suo unico amico Bacco, completamente  sbronzo,  canticchiare  tra i singhiozzi  le note di una bellissima  melodia intitolata “Syrinx”.