La Libia è scomparsa dalle prime pagine della stampa occidentale e fa capolino solo con le notizie degli scontri sanguinosi tra le fazioni che si contendono il territorio in assenza di una qualsiasi autorità di governo. Fino a quando l’Occidente potrà continuare ad ignorare questo disastro?

Due coalizioni armate si combattono fra loro: da una parte, l’alleanza, insignita del titolo di “Operazione Dignità”, fra il generale Khalifa Haftar, rientrato in patria dall’esilio decretato da Gheddafi, membri ed unità dell’esercito staccatisi dal regime del Colonnello durante la rivoluzione del 2011 e le milizie di Zintan che controllano parti della città di Tripoli; dall’altra, le milizie islamiche estremiste dell’Ansar al-Sharia, le milizie di Misurata e le fazioni vicine alla Fratellanza Musulmana, tutte rappresentate nella “Operazione Alba”. Nella crisi libica si sono subito inseriti i contrasti fra le potenze regionali: Arabia Saudita, Emirati Arabi e Egitto sostengono la coalizione dei moderati che fanno capo al generale Haftar, mentre Qatar e Turchia appoggiano i Fratelli Musulmani e le forze ad essi associate.

Sul piano della formalità istituzionale si contendono un potere evanescente la Camera dei Rappresentanti eletta nelle elezioni del 25 giugno 2014, cui ha partecipato appena il decimo della popolazione, e il riconfermato governo di al-Thani, l’una e l’altro confinati nella lontana Tobruk sotto la protezione dell’Operazione Dignità, dopo che  le forze dell’Operazione Alba hanno preso il controllo di Tripoli, e il Congresso Nazionale Generale insediato all’indomani della caduta di Gheddafi, richiamato in servizio dalla coalizione di “Alba”. La Libia ha ora due governi in competizione e due coalizioni di forze contrastanti, in Tripolitania e in Cirenaica, che hanno effettivamente diviso il paese in due regioni separate. L’economia ha retto finora  bene o male grazie alle esportazioni di petrolio che sono ora la metà di quelle che si realizzavano nel 2013, quando esisteva un solo governo, ed alle riserve accumulate in passato, che i due governi in atto si spartiscono e che consentono di sostenere le importazioni in un paese che acquista tutto dall’estero, pagare i salari agli impiegati pubblici e concedere sussidi alle rispettive popolazioni.

Stati Uniti e Europa hanno in pratica abbandonato la Libia al suo destino. Gli Stati Uniti che nel 2011 erano intervenuti con massicci bombardamenti su Tripoli per abbattere il regime di Gheddafi, con l’aiuto di Inghilterra e Francia e quello indiretto dell’Italia, hanno deciso a luglio di evacuare dopo che le milizie islamiche avevano messo l’ambasciata americana sotto il tiro incrociato di missili e mortai, le stesse che nel settembre del 2011 avevano preso d’assalto il consolato a Bengasi e ucciso l’ambasciatore Stevens. Il loro esempio è stato seguito dalle ambasciate occidentali e dagli operatori dell’Onu. Solo l’ambasciata italiana è rimasta aperta per tutelare, per quanto è possibile, gli interessi nei settori della produzione di petrolio e gas (l’Italia importa dalla Libia il 15% circa del fabbisogno di combustibili fossili), delle grandi infrastrutture e delle partecipazioni azionarie. Di fronte al caos in cui il paese è piombato anch’essa ha chiuso i battenti e sta provvedendo al rimpatrio dei connazionali.

I governi europei, oscillando fra timore e coraggio, hanno sostenuto a parole la mediazione dell’Onu. Per l’Italia lo hanno fatto il premier Renzi, a settembre  nel suo primo intervento all’assemblea generale delle Nazioni Unite, e il ministro degli Esteri Mogherini poco prima di assumere l’incarico di Alto Rappresentante della politica estera europea, accompagnando a Tripoli il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. La mediazione delle Nazioni Unite, condotta dallo spagnolo Leon senza finora apprezzabili risultati, si è posta tre obiettivi: difendere e rafforzare la legittimità delle elezioni e la continuità del processo di transizione democratica, includere  in questo processo tutte le forze politiche, lottare contro il terrorismo e i rischi di saldatura nella regione. Il limite della missione è nella scelta del principio legittimista – obbligatorio del resto per le Nazioni Unite – che rende difficile portare al tavolo dei negoziati le forze di opposizione che nettamente prevalgono sulle istituzioni legittimate dal voto popolare che si spartiscono un governo precario a Tobruk e a Tripoli. Per superare questo limite si è profilata l’iniziativa parallela dell’Algeria di un negoziato meno formale cui parteciperebbero forze militari e istituzioni politiche, che peraltro non si è ancora concretamente materializzata.

La crisi è precipitata nelle ultime settimane con l’attacco kamikaze del 27 gennaio all’Hotel Corinthia di Tripoli, sede delle delegazioni estere presso il governo locale, rivendicato dagli jihadisti libici e la successiva occupazione da parte delle milizie fedeli al Califfato islamico, già presenti a Derna, della città di Sirte, a 450 km da Tripoli, importante centro portuale sul Golfo omonimo in cui si trova la maggior parte dei giacimenti petroliferi off-shore del paese. Il 4 febbraio i miliziani di un gruppo jihadista affiliato al Califfato hanno attaccato il campo petrolifero della Total a Mabruk, a sud di Sirte, facendo morti e conducendo seco il personale di guardia. L’intento degli estremisti islamici è quello di impossessarsi del tesoro di un paese che sotto Gheddafi produceva 1,6 milioni di barili al giorno, tre mesi fa era sopra il mezzo milione ed è ora precipitato a 363.000. L’Isis si è così saldamente installato  anche in Libia, incuneandosi tra il governo di Tripoli in mano agli islamisti e quello di Tobruk in Cirenaica dipendente dalle schiere del generale Haftar e rappresentando una seria minaccia sia per la stabilità della sponda sud del Mediterraneo che per la sicurezza della sponda nord.

Il governo italiano, che deve far fronte al massiccio arrivo di profughi dalle coste libiche, si è fatto avanti per chiedere un più deciso intervento della comunità internazionale per contenere il disastro. Al summit dei Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea, che si è tenuto a Bruxelles il 12 febbraio, il premier Renzi ha ribadito quanto annunciato in precedenza sulla disponibilità dell’Italia a guidare una forza internazionale per il mantenimento della pace (peace-keeping force) non appena le condizioni sul terreno lo consentiranno. Il ministro degli Esteri Gentiloni è andato più in là del primo ministro dichiarando che l’Italia sarebbe pronta a guidare una missione militare qualora la mediazione dell’Onu dovesse fallire (il ministro si è poi corretto affermando che parlava di lotta al terrorismo, non già di un intervento militare sul campo. In realtà, secondo gli osservatori internazionali, anche un’operazione di peace-keeping appare di difficile realizzazione nelle circostanze attuali, dato che le basi di una intesa fra le fazioni contrastanti sono molto fragili e in ogni caso l’operazione dovrebbe essere approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove incontrerebbe quasi certamente il veto di Russia e Cina. Ciò che invece si potrebbe e si dovrebbe pretendere dalla comunità internazionale è di rafforzare la mediazione dell’Onu, affidandone eventualmente la guida all’Italia, come al paese più direttamente interessato, con l’aggiunta di misure alternative come quelle già adottate in analoghe situazioni di crisi internazionale (sanzioni, blocco navale, interruzione degli acquisti energetici) che, seppure di difficile attuazione, faciliterebbero la formazione di un fronte comune delle forze moderate contro l’estremismo e il terrorismo jidahista.