Prendere il treno Acela sulla linea Amtrak New York-Boston è sempre fonte di ammirata sorpresa.

Penn Station è un groviglio di coincidenze ma si sviluppa su un numero relativamente minimo di binari e sotto terra. Si è chiamati a “scendere” al binario a non più di 5 minuti dalla partenza. Si è aspettato in una sala d’attesa infinita e silenziosa a pochi metri dalle scale mobili che portano ai binari. Una voce pacata di tanto in tanto annuncia il treno in partenza. Io che non mi fido e soffro della sindrome del viaggiatore italiano – sempre in attesa dell’imprevisto o del ritardo – ricontrollo sullo schermo il numero del binario: 11W. Ovvero binario 11 lato West.

Il panico immancabilmente mi assale quando di fronte alla coda infinita all’ingresso della scala mobile: solo 4 minuti alla partenza. Devo faticare per non soccombere all’impulso di tagliare la fila e sgomitare per raggiungere l’agognato vagone. Resisto, ma l’occhio avvezzo alla lotta per il posto, cerca una falla nella catena umana, una pausa nel passo, un pertugio. Inspiegabilmente, biglietto alla mano si procede in un’amalgama fluida e composta in cui nessuno si sfiora. Il treno si compone di 5 carrozze di cui una Business, una First, una Ristorante è una “Quiet”. Mi dirigo nella Quiet in coda al treno. È quieta sul serio: non si telefona e non si parla. Persino il controllore sussurra. Alle 10:03, in perfetto orario, il treno parte. Sono trascorsi non più di trenta secondi da che ho preso posto. Mi preoccupo che qualcuno sia rimasto a terra. E invece nessuno è stato abbandonato. Le statistiche parlano chiaro: quei 4 minuti sono più che sufficienti. E se qualcuno fosse in ritardo verrebbe bloccato alle scale mobili. Non c’è alcuna possibilità di fallimento in un arrembaggio dell’ultimo secondo.

Una volta a bordo, il controllo dei biglietti si svolge al suon di bip del lettore di QR che il controllore dirige sul biglietto – elettronico- stampato o ancora sul telefono. Una volta controllato il passeggero, il personale di bordo affigge  un minuscolo biglietto blu sul retro del sedile: fungerà da lasciapassare per le prossime fermate. Ad ogni fermata un controllo. Mi rilasso e mi connetto alla internet di bordo. Infilo la spina del carica batteria nella presa che invitante mi guarda dal lato del sedile; reclino lo schienale certa di non disturbare il mio vicino di spalle  perché più di un metro ci separa. Tiro giù il tavolino che riempio di carte, animata da doverose intenzioni di portarmi avanti con il lavoro.

 

 

Ma il silenzio è tale che non mi riesco a concentrare.

Il pensiero continua ad andare alla meravigliosa sensazione di un treno che non vibra, un sedile che non è sfondato e un’aria condizionata che non congela. Da viaggiatore italiano avvezzo a ritardi, cambi di binario non annunciati, treni maleodoranti e passeggeri invadenti, non mi capacito. Manca qualcosa: il disagio. Il passeggero stoico che è in me, incredulo, finalmente si rassegna all’evidenza. Ma sono certa che al prossimo viaggio non mancherò di nuovo di sorprendermi. Impossibile abituarsi alla perfezione.