Io non la conoscevo. Mi è apparsa nelle vesti e nel volto  di Judy Dench nel film tratto dalla sua vita. Io non la conoscevo, il suo nome non mi diceva nulla : Iris Murdoch, nata a Dublino il 15 luglio del 1919, morta a Oxford l’8 febbraio del 1999. 

Non la conoscevo ma l’ho subito considerata una mia sorella. Spirito libero, intelletto e sensualità. 

Insegnante di  filosofia. Potente scrittrice di  romanzi. 

Fino a che la malattia devasta la sua magnifica mente. L’Alzheimer la uccide a 80 anni, dopo cinque anni di dimenticanze e dolore.

Scoprire di non saper più compitare una parola, sentire che i pensieri si dileguano, capire che non c’è più quel piccolo gesto quotidiano compiuto con l’istinto.

Non riuscire più a scrivere.

Per una scrittrice scrivere è tutto, scrivere è la vita. Scrivere è un atto compulsivo, una sorta di ossessione, è respirare, fare l’amore, camminare.

Ogni parola cercata e trovata lì nel catalogo della memoria è un miracolo. La felicità nel suono di una frase, l’armonia di un aggettivo che apre finestre verso il sole.

La musica in ogni sillaba che segna la carta, piccoli uccelli posati sui fili del telefono.

E il pensiero  si apre,  si dipana, si distende. L’idea  prende vita, si illumina e si fa scrittura.

Niente altro che simboli: lettere, consonanti, vocali.

Che cosa avviene  quando la conoscenza inizia a perdersi, quando tutta l’esistenza si restringe in un unico momento, quello della paura..

Quante volte Iris l’ avrà sentita  prima che tutto divenisse una sola  lunga piatta  giornata senza fine.

 

 

PAURA

In ricordo di Iris. 

 

No, del buio non ho paura. Non mi ha mai fatto paura l’oscurità. Le stanze si rincorrono l’una nell’altra e la luce, quando c’è, è fioca, come velata dagli ultimi spasimi della guerra. Ed io cammino in quelle stanze dando un saluto a chi lascio a vegliare nella notte. Mi infilo nel lettone, alto, arrampicandomi. Poche volte mia madre deve ricorrere all’uomo nero e al suo sacco. 

Io sono buona. 

E’ quel bambino a farmi veramente paura. Viene nel giardino senza rumore. Ride. Tira fuori dal pantalone il sesso e piscia contro di me. E’ orribile. Gioca sempre col suo membro. Ride e piscia. 

Di lui gli adulti sorridono. E’ scemo ma non fa male. “ Ha fatto la pipì in aria verso di me” dico e gli altri cominciano a prendermi in giro ricordandomi che quel demente viene chiamato “ Peppe ‘o

scustumato”. Sì, come il bambolotto di celluloide tanto piccolo che una mano lo contiene. Si riempie d’acqua dalla testa e la caccia dal piccolo pene, bene in vista al centro del corpo orribile. E’ un’oscenità senza senso. Col suo viso di bambola malata. Peppe è così: un giocattolo malato che sa solo pisciare e ridere con la bocca di gengive. Un mugolio straziante e un gorgogliare nervoso.

La notte non è nemica. Qualche volta faccio brutti sogni, ma è come se sapessi che sono immagini irreali. E ci sono i sogni belli! Poi Peppe comincia ad apparirmi in sogno. E la notte anche si incupisce. D’inverno il vento fa tremare la casa. Il freddo si sente attraverso le coperte. Qualcuno tossisce. Mi sveglio e mi par di vedere quel bambino nella stanza. E anche il buio mi diventa ostile.

La scuola  al mattino  nel vecchio edificio comunale mi scuote i nervi. Ho lasciato la casa e avverto una strana tensione. Come se non potessi più tornarvi. Come se qualcosa mi costringesse a restare in quel luogo, lontana dalle persone care che mi hanno appena salutata e che non vedrò più. Piango. Le lacrime colano lungo le guance senza che io voglia e mi vergogno dinanzi le mie compagne. La maestra mi parla, mi consola, ma io piango più di prima. Devono chiamare mia madre perché mi venga a prendere immediatamente. Il mio primo giorno di scuola è un fallimento. Non voglio tornarci. Lo dico ma mi rispondono che è stato così per tutti. “ Ti piacerà, vedrai”. No! Io so che l’odierò. Ma torno ad andarci. Quel senso di perdita, di distacco continua ogni giorno. Lo conservo dentro. Non voglio che sappiano. 

Il prete di religione ci schiaffeggia. Ci tira le trecce. Ci umilia. Ha un viso malvagio, in cui gli occhi si accendono di piacere quando ci fa male. Prete ti odio. Non potrò più odiare così in vita mia. Nessuno.

Il viso di quella bambina dolce, dalle lunghe trecce, venuta da un paesino nascosto nella campagna, che tu fai piangere ogni giorno. Senza remissione, senza dolore, senza amore.  E quel pianto silenzioso, di sole lacrime negli occhi chiari. Il senso di una colpa che lei non conosce, e che tu le fai apparire sul volto sgraziato dalla sofferenza. Ti odio ancora di più del bambino col pene nella mano, che lo agita e lo maneggia. Ti odierò sempre. Ma ho paura di te. Molta. Una paura senza limiti e per questo inalterabile. Dove vado?  Come mi difendo dal dolore? Puoi colpire quando vuoi e non per una causa accertata. Tu colpisci per pura gioia. La tua testa nera, con i capelli cortissimi e duri. Entri nei miei sogni soffocandoli. Le mie notti si popolano di sguardi, mani, teste, occhi, pugni, e piscio di bambino.

Ma alla fine sono a casa. Alla fine anche tu sei sconfitto.

Odioso mentitore di Cristo. Il venerdì, quando tu fai lezione, io non vengo a scuola. Giorno dopo giorno, un venerdì dopo l’altro, io resto a casa. Imparo a fuggire. Imparo ad essere codarda. Imparo il senso dell’odio e della vendetta. Da te, prete, ho imparato ciò che di peggio resta in me.

No la solitudine non mi fa paura. La sento amica come una buona cosa, senza attimi di tensione o di rabbia. E’ la gente a spaventarmi. I volti della gente. Gli occhi della gente. Le loro mani. I loro sessi. C’è qualcosa nella gente che fa male. C’ è qualcosa che cerca di ferirti. Di addolorarti. La gelosia e la sofferenza della gelosia ho imparato da loro. Quel senso sottile di rivalsa, di gioco feroce, di animosità perenne.

Mio nonno mi sgrida per colpa del mio cuginetto minore. Ed è come se stessi perdendo qualcosa. Come se nel mio cuore un piccolo spazio si raggelasse. In quel momento la sofferenza si imprime a fuoco sulla carne. Più tardi le lacrime hanno dilavato quel punto dolente ma io ho perduto qualcosa. Il mio cuore in quel punto  si è inaridito. E l’amore  per mio nonno diviene freddo, guardingo. In attesa di colpire a sua volta. Un amore andato a male. La gente non riesce ad alimentare l’amore con cibo genuino, lo avvelena fino ad inacidirlo del tutto. Da sola,  invece, puoi  lasciarti andare a pensare, a fantasticare, a sognare. No, della solitudine non ho paura.

Neanche del mare. Ma che sia calmo. Le onde insolenti che sbattono e mi travolgono non mi piacciono. Vado sotto, il respiro manca, viene meno, annaspo in cerca di aria.  Eccola! Un’altra onda mi sommerge. Sono sulla riva. Tocco la sabbia con le ginocchia. La rena mi va negli occhi, nella bocca. Voglio respirare. Devo respirare. Ma un’onda dopo l’altra mi toglie la possibilità di rialzarmi. E quell’intervallo tra l’una e l’altra, quell’atroce breve intervallo che non dà il tempo di salvarmi, ma alimenta una piccola speranza di salvezza. Questo mare agitato ha lo stesso carattere disumano dell’uomo adirato. Che sommerge tutto con la sua rabbia, che dice cose odiose. Che fa sanguinare. Io so che questo non è il mare. E’ solo ciò che resta di lui nei giorni bui.

Quando si placa, si placa anche il mio corpo.

Questo corpo infermo, quest’anima inferma, questa testa …

La malattia mi fa paura. Vive dentro di te, si acquatta, si cela. Silenziosa e sicura. Inizia a lavorare sulla mente, che è fragile! Le sussurra mille frasi sinistre, accattivanti; le parla del passato in termini così soavi che non puoi più vivere nel presente, le racconta storie di altri malesseri, di malanni così atroci che solo la morte può placare. Cominci a sentire strani animali che divorano con denti le tue carni, che bevono il tuo sangue. Scarafaggi bruni, lucidi come carrozzerie di automobili nuove, trafficano con i tuoi nervi. Processionarie rosse e pelose, belle a vedersi, attraversano vene e arterie con un moto lento e continuo. Sul cuore è posato un ragno che gli tesse intorno la sua magnifica tela.

Del dolore ho paura. Non quello che producono tali insetti nella mia carne, non quello che io devo sopportare. No! E’ il dolore degli altri, che trafigge  la notte. Che tiene il tempo in un silenzio sospeso. Il dolore che dà sangue, che fa intristire lo sguardo. Che fa dissipare le speranze. Il dolore che fa male. Che trasforma la notte in pianto. Che dà odore ai muri. Che fa stridere i denti. Che procura conati di vomito nero. Che squarcia di urla la notte. Che copre il buio……. no, del buio non ho paura non mi ha mai fatto paura l’oscurità le stanze si rincorrono l’una nell’altra e la luce quando c’è è fioca come velata dagli ultimi spasimi della guerra ed io cammino in quelle stanze dando un saluto a chi lascio vegliare nella notte mi infilo nel lettone…….

 

“Morire, diceva mio marito,  è non sapere più chi sei, é non riconoscerti più , é non avere più memoria di te stesso.”