Le parole pronunciate da Papa Francesco durante la messa del 12 aprile scorso sul massacro degli Armeni, che il Pontefice ha definito come “il primo genocidio del 20.mo secolo”, ha suscitato un vespaio ad Ankara. Il governo turco ha considerato quelle parole un’offesa e richiamato per consultazioni l’ambasciatore presso la Santa Sede. Il voto del Parlamento Europeo del 15 aprile, che lodava la dichiarazione del Papa e premeva sulla Turchia perché riconoscesse il massacro come genocidio, ha fatto infuriare ulteriormente il presidente Erdogan che aveva deciso di anticipare le celebrazioni dell’anniversario della vittoria di Gallipoli del 1915, quando le truppe ottomane si opposero al tentativo della spedizione navale franco-britannica di forzare il blocco dei Dardanelli, quasi per contrapporle alla commemorazione tenuta a Yerevan, il 24 aprile, con la partecipazione delle delegazioni di numerosi paesi europei, della deportazione da Costantinopoli di molti intellettuali e notabili armeni, evento che segnò l’inizio del massacro.

 

 

La reazione del presidente e del Governo di Ankara sta a significare che la Turchia si rifiuta ancora di fare i conti con la sua storia e con le norme del diritto internazionale. Già il 24 maggio 1915 le potenze alleate nella prima guerra mondiale condannarono i massacri degli armeni e ne fecero responsabile il Governo ottomano. Nel Trattato di pace firmato a Sèvres nel 1920 la Turchia si obbligò a consegnare alle potenze alleate i “responsabili dei massacri commessi durante lo stato di guerra”, perché fossero processati nei tribunali istituiti dalle stesse potenze o nel tribunale appositamente creato dalla Società delle Nazioni. Ma il Trattato di Sèvres non entrò mai in vigore e il Trattato di Losanna del 1923, che lo sostituì, non incorporò le suddette disposizioni. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 la commissione del genocidio implica l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo etnico, razziale o religioso, perpetrata con l’uccisione dei membri, la sottoposizione a gravi sofferenze fisiche o psichiche e a condizioni di vita disumane, il trasferimento forzato in altri territori. La definizione di genocidio contenuta nella Convenzione si adatta perfettamente al piano di “pulizia etnica” attuato dai Giovani Turchi nei confronti della minoranza armena con la connivenza e la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in forza dell’alleanza tra Germania e Impero ottomano e con la collaborazione iniziale di gruppi di religione musulmana, come curdi e iranici. Circa un milione e mezzo di persone furono sterminate dalla fame, dalla malattia e dallo sfinimento nelle deportazioni dall’Anatolia alla aride pianure della Siria, quando non eliminate fisicamente. L’obiettivo dei Giovani Turchi, eredi del morente Impero ottomano e ispirati da Kemal Ataturk, era fare della Turchia uno stato nazionale sul modello occidentale, depurato di tutte le minoranze estranee (come gli Armeni cristiani al pari di Greci e Assiri) e unito nell’ideale della “Grande Turchia” al mondo turcofono dell’Asia centrale (il Turkestan appunto).

 

Numerosi Stati hanno riconosciuto il genocidio armeno con pubbliche deliberazioni dei Governi o con voto dei Parlamenti (fra i secondi l’Italia). La Francia è andata più in là, dichiarando reato la negazione del massacro. Il presidente americano Obama ha preferito finora parlare di “grande crimine”. Cedendo alle pressioni turche, il Governo svizzero ha negato l’installazione di un’opera artistica che doveva ricordare il centenario. La Turchia ha sempre rigettato come un’offesa l’accusa di genocidio. La tesi di Ankara è che la decisione di deportare gli Armeni sia stata presa non già in base a un piano di sterminio metodico, ma perché i movimenti rivoluzionari armeni si erano alleati con la Russia nella prima guerra mondiale, e che comunque le persone morte di fame e di malattia durante il tragitto al deserto siriano siano state molto meno, non più di 500.000. Nella stessa Turchia tuttavia la pregiudiziale della responsabilità storica del genocidio è stata negli ultimi tempi scalfita da segnali di disponibilità verso la comunità armena. Un anno fa, lo stesso presidente Erdogan, allora primo ministro, porse per la prima volta le condoglianze alle vittime dell’eccidio, inquadrandole tuttavia nel “dolore condiviso” di “milioni di persone di tutte le religioni ed etnie che hanno perso la vita nella prima guerra mondiale” e avanzato la proposta di una commissione storica, composta di studiosi turchi, armeni e di paesi terzi, per ricostruire i fatti, che però non ha avuto seguito sembrando essa un espediente per evitare la condanna della comunità internazionale. Per contro, i leader della comunità curda in Turchia hanno formalmente espresso le scuse per il ruolo avuto dalla loro gente nel massacro degli armeni. Su un piano più concreto, il governo di Ankara ha lasciato cadere la denuncia contro il celebre scrittore Orhan Pamuk, che in una intervista ad un giornale svizzero si era espresso senza mezzi termini sul massacro. E, infine, tre grandi partiti politici, tra cui quello stesso del presidente, hanno messo in campo candidati armeni per le elezioni politiche del mese prossimo.

 

Il Parlamento europeo, pur riconoscendo con la risoluzione del 1987 il genocidio degli Armeni, ha offerto al miope nazionalismo turco una via di uscita che il primo ministro, ed ora presidente, Erdogan non ha saputo né voluto tentare, sottolineando allora che la Turchia attuale non può essere ritenuta responsabile delle atrocità subite dagli  armeni sotto l’impero ottomano e che pretese risarcitorie nei suoi confronti non possono derivare dal riconoscimento del genocidio come fatto storico. La soluzione alternativa della disputa armena dovrebbe essere quindi essere perseguita in base alle dimensioni politiche e diplomatiche che ormai prevalgono sul fatto storico: sul piano esterno, attraverso la normalizzazione delle relazioni con l’Armenia, sul piano interno, attraverso l’integrazione nel tessuto nazionale della comunità armena in Turchia, come il governo di Ankara sta facendo con la ben più consistente comunità curda.

 

Alla normalizzazione delle relazioni tra Armenia e Turchia ha posto freno finora l’irrisolta questione del Nagorno-Karabakh, una enclave territoriale nell’Azerbaijan con popolazione prevalentemente di origina armena e per questo oggetto di contesa tra Armenia, sostenuta dalla Russia,  e Azerbaijan sostenuto dalla Turchia. Nel 1993, l’intervento armato dell’Armenia nell’enclave spinse Ankara a chiudere la frontiera con Yerevan. I protocolli del 2008-2009, che avrebbero permesso la riapertura delle frontiere fra Turchia e Armenia, non sono mai stati stati ratificati, perché i Turchi hanno posto come condizione la soluzione del conflitto endemico sulla disputata enclave. La normalizzazione turco armena, oltre a risolvere sul piano politico, se non su quello morale, l’esecrata questione del genocidio, aprirebbe la via anche alla soluzione della questione del Nagorno-Karabakh e si porrebbe quindi come fattore di stabilità nella regione caucasica. Dalla normalizzazione entrambi i paesi trarrebbero grandi vantaggi. L’Armenia, oltre ai benefici derivanti dalla ripresa degli scambi economici e commerciali, sarebbe sottratta all’isolamento politico in cui l’improvvida avventura del Nagorno-Karabakh e il dubbio appoggio russo l’hanno gettata. La popolazione armena considererebbe poi una benedizione di poter tornare ad accedere direttamente alla sacra montagna dell’Ararat e alla antica capitale spirituale di Anni, ora in territorio turco. Dall’altro lato, il ruolo politico ed economico della Turchia si accrescerebbe in modo significativo e il paese riacquisterebbe in pieno le credenziali di bastione della NATO e di paese membro dell’Unione Europea (sempre che quest’ultima prospettiva interessi ancora l’autocrate Erdogan).

 

Nota conclusiva

Il presidente della Commissione Esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini, che guidava la delegazione italiana alla commemorazione nella capitale armena dell’anniversario centenario del genocidio degli armeni, ha dichiarato che “la memoria della tragedia armena e delle responsabilità turco-ottomane non può paralizzarci nel passato. Ma serva anche di sprone per il dialogo tra Europa e Ankara” e aggiunto che “conoscere il passato serve a non ripetere gli errori di ieri, ma non per questo vanno alzati steccati contro i turchi di oggi. La Turchia resta un partner fondamentale della NATO e può aiutare la battaglia contro il fanatismo islamico. Vanno comprese le inquietudini turche nei nostri confronti per continuare il cammino assieme”.

L’Italia, che è un importante partner commerciale di Ankara, ha sempre mantenuto eccellenti rapporti con la dirigenza turca ed ha sempre sostenuto la candidatura della Turchia nella Unione Europea, può e deve svolgere un’azione più decisiva per spingere alla normalizzazione con l’Armenia in una delle poche aree che le sono rimaste per attuare una autonoma politica estera, e non limitarsi a prudenti dichiarazioni nel timore di ritorsioni turche.