C’erano voluti 18 anni perché Slovenia e Croazia capissero che, incapaci di risolverla da soli, la delimitazione frontaliera fra i due paesi dovevano affidarla ad un arbitrato internazionale. Beh sì, il confine c’e’, ma non è del tutto ineccepibile. E racconto i perché. 

Al momento dell’indipendenza, il 25 giugno 1991, entrambi i paesi approvarono una legge costituzionale che sanciva come confini di stato quelli amministrativi che esistevano nella mappatura della federazione jugoslava, ma scoprirono più tardi che per una cinquantina dei 670 chilometri quant’è’ lunga la frontiera, il tracciato non era chiaro, o meglio, condiviso. I territori a ridosso erano rivendicati così dall’una come dall’altra parte. 

Nel vivere comune in Jugoslavia nessuno ci aveva pensato a sincronizzare evidenze catastali e amministrative e c’erano così paesini o frazioni che curavano i propri interessi su un versante, ma erano iscritti al libro fondiario sull’altro. E per riparare alla cosa, le due diplomazie avrebbero negoziato per anni, scontrandosi però sempre sui criteri da seguire: tracciare il confine secondo il catasto oppure secondo la prassi amministrativa? Ognuna, ovviamente, con un occhio di ferma attenzione sui guadagni di territorio, meno su cosa ne pensassero i residenti. 

Comunque il problema più grosso si riscontrava in mare.

La frontiera a terra, anche in questo caso, coperta nel suo ultimo tratto da doppia giurisdizione, ma questione di qualche centinaio di metri più a nord o più a sud, sfociava in ogni caso nel Golfo di Pirano che in Jugoslavia era amministrato per intero, fino all’altezza di Punta Salvore, in territorio croato, dal comune di Pirano, in Slovenia, vedi per le concessioni di pesca, vedi per la tutela dell’ambiente, vedi per la navigazione da diporto, vedi per i controlli di polizia. In più le acque territoriali “jugoslave” erano comuni e comune l’approccio al mare internazionale.

Così dal 1947 in poi. Una situazione che la Slovenia voleva conservare pur consapevole che i nuovi assetti statuali pretendevano un chiarimento delle sovranità territoriali, ovvero delle frontiere anche in mare. 

Sfociando il confine terrestre a metà del golfo, la Croazia ha voluto da subito la delimitazione nella medesima chiave anche del bacino il che avrebbe tolto alla Slovenia metà della giurisdizione esercitata per 44 anni e precluso il suo accesso diretto alle acque internazionali. 

E un linguaggio comune non si è mai trovato, nel mentre incominciavano gli screzi e gli incidenti fra pescatori croati e sloveni, fra le due polizie marittime, fra polizia frontaliera croata e residenti sloveni sul versante croato conteso e c’e’ mancato poco, più volte, che ci scappasse il morto. Della retorica nazional-patriottica fra politici, media e gente comune neanche parlarne. La qualità e la dinamica delle relazioni bilaterali anche sul fronte economico, ovviamente in flessione.

Nel 2001, quasi in risposta ad un appello, con tanto di suggerimenti, lanciato nel 1995 da Isola dai sindaci dell’Istria slovena e croata, me compreso, a favore di una soluzione di compromesso, i premier sloveno Drnovšek e croato Račan firmavano un accordo che chiudeva il contenzioso sia a terra che in mare. 

 

 

Il Golfo di Pirano veniva diviso a 3/4 per la Slovenia e 1/4 per la Croazia, con un corridoio di acque internazionali fino a quelle territoriali slovene. 

Sembrava fatta! Sì, sembrava, ma il nazionalismo croato capitanato dall’HDZ (Hrvatska demokratska zajednica – Comunità democratica croata), il partito del fu presidente Tudjman, il più forte a destra, ci mise lo zampino impedendo che l’intesa passasse al Sabor, il parlamento croato.

Grossa delusione in Slovenia e pure all’estero sempre attento a ogni pulsazione politica nei Balcani un tantino più forte e quindi pericolosa. Si erano da poco spente le guerre post Jugoslavia.

Amen. Accordo di compromesso fallito e si riprendeva a negoziare, ma era tanto per fare, visto che ne l’una ne l’altra parte potevano cedere ulteriormente.

La Slovenia comunque, già candidata all’Unione europea, contava che il suo ingresso a pieno titolo nella comunità e parimenti nell’Alleanza atlantica le avrebbe dato più forza negoziale, ovvero costretto Zagabria ad un ammorbidimento. 

Fra i pochi a non crederci, ma a temere invece nuovi e più pericolosi rigurgiti nazionalisti da parte croata e quindi un ulteriore inasprimento nei rapporti, come difatti avvenne, mi azzardai qualche anno dopo, (La Slovenia era da poco entrata nell’UE e nella NATO e io sedevo alla Camera di stato di Lubiana) a proporre al governo di voltar pagina e avviare con quello croato una trattativa nuova, sul come, dove e con quali modalità coinvolgere nella vertenza una terza parte che poi decidesse in merito. Proponevo due vie: O la Corte di giustizia dell’Aia o un meno tecnico e più flessibile arbitrato internazionale capace di cucire una soluzione con un occhio anche alle particolari circostanze storiche, sociali e culturali dei territori da delimitare.

Le prime risposte furono di diniego e affronto: “Una proposta inaudita, contraria agli interessi nazionali, al limite del tradimento! Nella nuova posizione porremo la Croazia in ginocchio e avremo il confine che vogliamo!” Fui quasi scomunicato, anche dal mio stesso presidente di partito e successivamente premier nonché attuale presidente della repubblica, Borut Pahor. “Lascia perdere, Aurelio, vedrai che Zagabria mollerà. Questione di settimane o massimo qualche mese!”….

Correva l’anno 2004.

Questione di qualche mese? Di anni e di rapporti sempre più avvelenati. I nostri nazionalisti, con alla testa anche politici di spicco, a marciare con bandiere slovene e gonfaloni un tantino nazi, fino al valico di frontiera di Sicciole e scontrarsi con entrambi le polizie, slovena e croata, i pescatori di Umago e Salvore, che mai prima pescavano nel golfo, armati per altro di imbarcazioni più massicce, a incrociare i nostri e strapparne le reti, e all’arrivo delle telecamere slovene, a mostrare agli obiettivi gli attributi più intimi e lanciare ingiurie, le polizie marittime a cacciar via, quella slovena i pescatori croati, quella croata i colleghi sloveni e a guardarsi sempre più in cagnesco. 

Qualche rissa con tanto di accuse e controaccuse sulle responsabilità di come andavano le cose anche nei luoghi di villeggiatura in Istria, Quarnero e Dalmazia, fra turisti sloveni e abitanti locali.

Il tempo passa, le ferite al buon vicinato e alla collaborazione si tengono in qualche modo, fra un cerotto e l’altro, sotto osservazione, e si arriva così alla fase conclusiva delle trattative per l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, processo che mi trovo a seguire a Bruxelles come europarlamentare fra i Socialdemocratici. Ero subentrato al mio presidente di partito, Pahor, dopo che le elezioni in casa gli avevano affidato la guida del governo. Nell’autunno 2008, visto che la Croazia sul confine non da segni di cedimento, egli da Lubiana comunica il suo NO al proseguimento del negoziato. Una posizione in forte odore di ricatto che personalmente non posso condividere, tanto meno avvertendone le conseguenze, e che, unico dei sette europarlamentari sloveni, osteggio pubblicamente. Con me tutto il gruppo socialista e quasi tutti anche gli altri partiti, cui non è chiaro perché la Slovenia insista a temere una mediazione o un arbitrato. Contro, i colleghi sloveni, ovviamente il mio governo, il mio parlamento nazionale, l’opinione pubblica di casa. E mi ritrovo solo, emarginato, anche all’interno del mio partito a Lubiana per cui, dopo trentasei anni di militanza, restituisco la tessera e me ne vado. 

Un suicidio politico in piena consapevolezza. Ma avevo visto bene. Zagabria s’infuria a tal punto da chiudere ogni comunicazione fra il premier croato Ivo Sanader e il nostro Pahor, la retorica nazionalista soprattutto in Croazia raggiunge l’apice: “Neanche un centimetro di terra o mare croato a chi ce li vuole prendere! Ci batteremo fino in fondo! Costi quello che costi!” 

Si muovono le preoccupate diplomazie europee e americana e costringono Sanader, il falco più grosso, al ritiro. Gli subentra Jadranka Kosor, sua vice, che con un agire meno battagliero e più gentile riaggancia il dialogo con Pahor ed entrambi vengono messi da Bruxelles e Washington di fronte all’unica opzione ancora percorribile: l’arbitrato. Non gli possono dire di no. Questa volta neanche la Slovenia. 

Il commissario europeo per l’allargamento Olli Rehn formula una prima bozza di accordo in questo senso che la Croazia respinge perché, a suo dire, troppo vicina alla causa slovena, ne fa un’altra che a sua volta non trova i favori della Slovenia e poi ci rinuncia, ma la ricerca di un consenso su questa strada è oramai in corso e dopo mesi in negoziati intensi, finalmente, la Kosor e Pahor ci appongono la firma. Il 31 luglio scorso, si son celebrati i 6 anni di quel momento allora considerato storico.

Sarà nominato un tribunale arbitrale di cinque membri, di cui tre stranieri e due nostrani, sloveno e croato. Ogni paese preparerà un proprio memorandum con le tesi e le ragioni da sostenere, vi saranno i sopralluoghi, i dibattimenti in aula e l’audizione delle contro-argomentazioni, ognuno avrà le sue squadre di difesa – avvocati cercati in giro per il mondo fra i più qualificati (e ben pagati!) – e entro il 2015 si cercherà di addivenire al responso, a quello che sarà il tracciato definitivo e dettagliato, per così dire, al millimetro, della frontiera in terra e in mare e che entrambi i contendenti saranno tenuti a rispettare. Niente diritto di appello.

Da noi ancora un referendum che la destra, contraria all’accordo, pretende e ottiene, ma perde. Il 55% contro il 45% dei votanti si dichiara favorevole all’intesa. Qui da noi, nel Capodistriano, dove la tensione sul mare è più sentita, i SI vincono col 70%!

All’indomani del voto un rapido rasserenamento sui rapporti fra i due paesi in tutti i comparti. Si riparla di buon vicinato, amicizia e partenariato. Finalmente la via alla soluzione del contenzioso più antipatico e pesante è spalancata. 

Niente più incidenti in mare o lungo la frontiera a terra, di nuovo tutti grandi amici. 

In questo recuperato clima di fiducia, Slovenia e Croazia partoriscono assieme il Processo Brdo,

dal luogo vicino a Kranj, in Slovenia, sede del primo vertice, processo che si prefigge di rilanciare, sotto gli auspici dell’UE e dell’ONU, le relazioni fra i paesi dell’ex Jugoslavia, quale presupposto di una nuova politica di pace, sicurezza, convivenza, cooperazione e stabilità nell’area. Per altro la formula dell’arbitrato viene indicata da esempio per la soluzione delle altre vertenze frontaliere che la Croazia ha ancora aperte coi vicini: con la Bosnia ed Erzegovina e il Montenegro in Adriatico, nonché con la Serbia sul Danubio in Vojvodina. 

Ma il diavolo, come si conviene sempre anche nelle favole più belle, torna a metterci la coda. Anzi, ce la mettono questa volta due dei protagonisti dell’arbitrato di parte slovena: il giudice Jernej Sekolec e l’agente governativa incaricata di seguire il processo, Simona Drenik, che, da allocchi, si fanno intercettare, dai servizi segreti chi dice croati, chi americani, durante una conversazione telefonica privata sui meriti dell’arbitrato. Il giudice le comunica che i giochi son praticamente fatti, che in mare la Slovenia avrà quasi tutto di quanto richiesto, e cioè gran parte del golfo e l’accesso diretto alle acque internazionali, che e’ inutile pretendere di più, l’interlocutrice gli spiega che sarebbe il caso di insistere ancora su alcuni tratti a terra, soprattutto lungo il fiume Mura, nell’estremo nord-est. Comunicazione che nel rispetto della segretezza del processo e del ruolo di superpartes del giudice, non doveva avvenire. Di lì a due giorni, Sekolec e la Drenik, rei confessi, rassegnano le dimissioni. Ma a nulla serve. Le acque non si chetano.

La Croazia già grida allo scandalo e dichiara l’arbitrato contaminato e non più credibile. Che anche il loro giudice Budislav Vukas, abbia avuto modo di fare lobby per il suo paese e passare al governo informazioni confidenziali, avendo l’ufficio all’Aia nella sede dell’ambasciata croata, non lo commenta. Fino a quel momento nessuno l’ha colto con le mani nel sacco. A questo proposito va detto che fin dalla stesura dell’articolo che prevedeva la nomina di un giudice per contendente, si sapeva che ognuno, per quanto formalmente neutrale e imparziale, avrebbe tifato per la propria parte e che la sentenza sarebbe stata presa, in un modo o nell’altro, con 4 voti contro 1.

Forse era meglio sancire da subito un tribunale arbitrale di 5 membri tutti stranieri. Ma oramai la frittata era fatta e così – dicevano – l’aveva disposta la prassi giuridica internazionale.

Comunque, Zagabria, dichiara l’arbitrato morto, chiama a raccolta tutte le forze politiche e con voto unanime il Sabor incarica il governo di recedere dall’accordo, richiamandosi all’articolo 60 della convenzione di Vienna. 

Nel frattempo il governo sloveno nomina a sorpresa, rinunciando alla chiave etnica,  il francese Ronny Abraham, presidente della Corte di giustizia dell’Aia, a proprio arbitro. Un segnale importante. Se ci crede lui all’arbitrato, che è uno dei nomi più insigni fra le toghe mondiali, chi può più credere alla tesi croata che il processo sia contaminato?! E poi i moniti dall’Aia e da Bruxelles che all’arbitrato non vi sono reali alternative e che quindi sarà portato a compimento, con la Croazia o senza. Tutto inutile. Zagabria resta sulle sue e anzi rincara la dose con nuovi slogan bellicosi, patriottici e nazionalisti contro la Slovenia, contro l’UE, contro tutti. Una retorica che in un paese membro dell’Unione europea non si credeva fosse possibile. ”A uno Sloveno posso anche dare il mio sangue, la mia terra mai! – dichiara Damir Kajin, della Dieta democratica istriana, che era stato con me fra i firmatari nel 95 del citato appello di Isola. “Che l’UE si occupi di altre cose, della vertenza su Gibilterra se vuole, ma noi ci lasci stare!”- gli fa eco l’accademico Davorin Rudolf. 

“Bruxelles non è parte in causa!”- incalzano la ministro degli esteri Vesna Pusić e altri rappresentanti del governo, dimenticando che sull’accordo c’e’ per altro la firma dello svedese Fredrik Reinfeldt, all’epoca presidente di turno del Consiglio europeo. Addirittura la conferenza episcopale croata e il deputato al seggio specifico italiano, Furio Radin, tuonano contro l’arbitrato.

Il concerto è totale. Non uno che dica: “Pensiamoci un attimo.” Il premier croato Milanovič stacca il telefono e il collega sloveno Cerar cerca inutilmente di sentirlo. Zagabria è blindata e il tutto si conclude in soli sette giorni. La decisione è presa ed è irrevocabile!

I sospetti che fosse stata progettata molto, ma molto prima che i due allocchi sloveni si facessero beccare, trovano conferma nella dichiarazione dell’arbitro croato Vukas che nell’annunciare le proprie dimissioni accusa i colleghi lasciati all’Aia di aver voluto “togliere alla Croazia parte delle acque territoriali” cui ovviamente lui si sarebbe fermamente opposto.

Risulta chiaro da subito che Zagabria conosceva da tempo l’inclinazione del tribunale arbitrale e visto che mai ha potuto digerire, fin dal compromesso Drnovšek-Račan, una delimitazione del golfo di Pirano che non sia esattamente a metà e il riconoscimento alla Slovenia del diritto all’accesso diretto all’Adriatico internazionale, ha aspettato solo il momento opportuno. La stolta conversazione telefonica fra Sekolec e la Drenik è venuta a puntino!

“Allora, accordo per noi nullo, se il tribunale arbitrale non dovesse sciogliersi e insistesse a promulgare la sentenza, sappia da subito che noi non ci sentiremo in obbligo di riconoscerla” Così il premier Milanovič nel rispondere all’Aia, a Bruxelles e a Lubiana. Poi, riattaccato il telefono, cerca lui Cerar e si dichiara disposto a venire anche a Lubiana per coinvolgerlo nella ricerca di nuove formule di soluzione della questione confine. Ma Cerar non ci casca. Gli risponde garbatamente che l’incontro si farà, ma solo dopo che il tribunale arbitrale dell’Aia avrà annunciato le proprie intenzioni. 

Che tutto si fermasse qua? Macché! A sorpresa, a sgambettare Lubiana il giudice Abraham che a una sola settimana dalla nomina si chiama fuori. “Credevo che, accettando l’incarico, Zagabria ci avrebbe ripensato, ma visto che non l’ha fatto, ci rinuncio”. Brutto e irresponsabile colpo basso. Se già ragionava sulla possibilità di dimettersi, allora non doveva acconsentire alla nomina! Un segnale che rischia di scoraggiare molti altri potenziali arbitri e poteva farlo anche con i tre sopravvissuti all’Aia che però paiono resistere. Attendono solo che il tribunale sia nuovamente a ranghi completi, ovvero che si trovino i sostituti di Vukas e Abraham. La Slovenia ha deciso di affidare la scelta del “proprio” allo stesso presidente Gilbert Guillaume, riconfermandogli piena e incondizionata fiducia. E sarà lui a nominare, dopo il congedo di Zagabria, anche quello “croato”. Le due nomine sono attese da un giorno all’altro e poi il processo – annunciano dall’Aia – andrà avanti. Soddisfatte della comunicazione anche le capitali europee che si rammaricano dalla decisione croata  e invitano Zagabria a ripensarci.

Nell’attesa, rispondendo a Milanovič, il presidente del consiglio sloveno riconferma nell’accordo di arbitrato l’unico strumento giuridico valido per risolvere la vertenza! E il premier croato s’incazza: “Quel che è troppo è troppo!”

Intervengono poi, a mitigare i toni e riparlare di “amicizia” fra i due popoli e paesi che neanche questa defaillance può scalfire, – risuona e come, dovere d’ufficio – i presidenti delle due repubbliche Pahor e Kolinda Grabar Kitarovič, al Forum strategico internazionale di Bled di fine agosto-inizio settembre, nel pieno dell’emergenza profughi nei Balcani. Ma anche qui la signora Kitarovič non manca di redarguire l’Europa: “E’ una questione solo fra noi e la Slovenia. L’EU e le altre capitali europee ne restino fuori!”

E sì, le elezioni di autunno in Croazia si avvicinano e chi non dimostra sufficiente patriottismo e determinazione rischia di finir male, per cui largo all’isterismo collettivo, anche se manifestato col sorriso come la Kitarovič, numero uno dell’HDZ, sa fare.

Nei luoghi di vacanza in Istria e Dalmazia, mentre la vicenda si consumava, gli Sloveni si dichiaravano contenti di com’erano trattati e a nessuno andava di pensarci su’. Quando sei al sole, in spiaggia, fra le onde e a ballare la sera, o davanti a un buon piatto di cozze alla busara o di pesce fresco, inutile e crudele farlo. Le ferie son sacrosante e le fisime politiche vanno lasciate a casa, per quando ritorni al lavoro e alla routine quotidiana. 

Ma i 20 anni passati non possono non aver fatto scuola e di fiducia in Slovenia nei confronti della Croazia, dopo il suo secondo NO ad un accordo che avrebbe dovuto chiudere consenzientemente il groppo frontaliero, non ve n’e’ neanche per un brindisi al buon senso.  Checché ne dicano Pahor e la Kitarovič.  

E non solo il confine a mettere a dura prova le relazioni bilaterali. Da una buona settimana anche lo tsunami di migranti dal Medio Oriente in guerra, che dalla Turchia alla Grecia ha investito i Balcani, Croazia e Slovenia comprese, e che continua a portare ondate di siriani, iracheni, afgani e altri disgraziati, intenzionati a raggiungere la Germania e l’Europa del nord, sta creando non poco attrito fra Lubiana e Zagabria. Altroché amichevole la retorica fra i due premier circa le responsabilità del caos che si accumula ai valichi. 

Comunque, nella speranza, che è ovviamente sempre l’ultima a morire, Bruxelles e le altre capitali europee concordino quanto prima una politica comune e condivisa su come affrontare quest’emergenza, la più grave nella storia dell’Unione, aspettiamo l’Aia.

Quanto decideranno, piaccia o non piaccia all’uno o all’altro, o a nessuno dei due contendenti, sarà il tracciato del confine sloveno-croato a riconoscimento se non proprio internazionale, per lo meno europeo. 

Ma quanto anacronismo e quante stupidità e banalità in tutto ciò rispetto ai veri e drammatici problemi che ci stanno investendo e che stanno mettendo a dura prova, non tanto i problemi in se, quanto il porsi nei loro confronti da parte dei singoli paesi membri, la stessa sopravvivenza dell’Unione europea.

 

ULTIMA ORA…. VENERDI’ 25 SETTEMBRE 2015

I due arbitri mancanti sono stati nominati stamattina: il norvegese Rolf Fife a sostituire Abraham, ovvero Sekolec, e lo svizzero Nicolas Michel a subentrare a Vukas.