IL LAVORO DI MINIERA DI DONNE E BAMBINE A MONTEVECCHIO, OGGI NELLA PROVINCIA SUD SARDEGNA

Nei numeri 115 e 116 della rivista avevamo pubblicato due articoli frutto della collaborazione tra Iride Peis e Graziella Falaguasta sul duro lavoro perduto delle miniere: Qui, attraverso la testimonianza di Iride Peis, riprendiamo un aspetto particolare della storia di una delle importanti miniere di quell’area mineraria, Montevecchio, nel comune di Guspini: quello delle donne che hanno lottato per i loro diritti.

 


Il lavoro di miniera di donne e bambine: cenni storici
L’industria mineraria in Sardegna ha inizio verso la metà dell’ottocento ed è l’evento più importante e più significativo che segna in maniera decisiva il futuro dell’isola. L’ingegner Giuliano Marzocchi, in una relazione dal titolo” Diario di miniera del Regno di Sardegna” riporta queste testuali parole “ … Aveva inizio un’avventura industriale lungimirante e brillante, che sarebbe diventata una fra le maggiori realtà italiane nel campo minerario e metallurgico, con risvolti operativi scientifici e tecnici a livello internazionale”.
Aggiungo che questa “avventura” è stata possibile, grazie anche a donne e bambini che hanno partecipato a pieno titolo alla sua costruzione. La miniera di Montevecchio, ubicata nei comuni di Guspini e di Arbus, in una zona di straordinaria bellezza, porta incisa a caratteri di fuoco la data del 28 aprile del 1848, giorno in cui il Re Carlo Alberto firmò la concessione mineraria al giovane e intraprendente sardo Giovanni Antonio Sanna. L’industria mineraria nacque proprio per la volontà, l’audacia e l’ingegno dell’imprenditore sassarese che lottò e operò perché Montevecchio, con la sua ricca galena, desse lavoro ai tanti sardi che stentavano a trovarlo, aprendo una gloriosa pagina di storia. E l’industria s’impossessò dei luoghi e ne fece cattedrali di lavoro. Scardinò le antiche abitudini di ribellione de “su connottu” (1), sconvolse il ritmo naturale del mondo agro-pastorale introducendo nuovi saperi, nuove conoscenze, nuovo linguaggio, nuovo tempo.
La miniera, “sa mena”, diventò un grembo materno per accogliere e nutrire. Gli uomini lasciarono i campi avari, i pascoli, i lavori occasionali e poco redditizi e, attratti da una paga sicura, si riversarono in quelle valli deserte dove solo capre, cervi e cinghiali vivevano indisturbati, per coltivare le vene di blenda e galena che correvano sotterranee lungo le sue viscere. Il nuovo mestiere li rese liberi dai capricci della natura, potevano lavorare senza preoccuparsi delle annate magre, dei raccolti distrutti, della moria degli animali e sfamare la famiglia tutti i giorni dell’anno senza più temere la fame. Per la prima volta, centinaia di uomini, dai paesi limitrofi e da paesi lontani presero la via per recarsi in miniera: Montevecchio era la meta. L’ evoluzione fu rapida e in tempi brevissimi il territorio prese altra forma e altro uso. Gli uomini divennero minatori, “minadoris”, un termine nuovo seguito da tanti altri che segnarono le vite di ciascuno.

 

Le donne fanno il loro ingresso in miniera
Ma anche le donne fecero l’ingresso in miniera, e pure i bambini e le bambine. La miniera era avida di manodopera attiva, giovane, sottomessa, ubbidiente come quella di chi la voce ce l’ha solo per salutare rispettosamente chi comanda. Le donne entrarono in miniera per sostituire gli uomini alla cernita perché erano anti economici: lenti, poco attenti, disordinati, superficiali nel separare lo sterile dal ricco e soprattutto, costavano molto. Le donne invece che avevano dimestichezza nel pulire i cereali e i legumi dalle impurità, erano svelte, attente, diligenti e riponevano ordine nel luogo di lavoro. Fin da tenera età erano state abituate ad accudire alle faccende domestiche, raccogliere e conservare i prodotti della campagna senza sprecare nulla. Si potevano vedere nei cortili delle case, sedute per terra col setaccio o su un piano a separare il raccolto buono dalle impurità. Occhi allenati e mani veloci, avvistavano ciò che doveva essere scartato mentre i chicchi smezzati venivano messi da parte per gli animali da cortile e quelli sani versati nei sacchi. Un lavoro con tempi da rispettare perché altre incombenze erano pronte: andare al fiume a lavare i panni, fare il pane, accendere il fuoco, preparare la cena per il rientro del marito, accudire i figli…
Le donne nei piazzali della miniera avrebbero svolto lo stesso lavoro, così aveva detto l’ingegner Nicolay, che le aveva adocchiate e apprezzato il risultato. Premette con i suoi collaboratori che avevano delle riserve sulla presenza femminile in quel mondo di maschi, perché avessero accesso libero, avrebbe dato regole severe da osservare. Sapeva, l’ingegnere, che correva dei rischi ma la posta era alta e ne valeva la pena. La cernita venne quindi affidata quasi esclusivamente alle donne con il vantaggio che il prodotto sarebbe aumentato e la spesa della manodopera dimezzata. Le cernitrici avevano imparato presto a distinguere la galena pura dal materiale sterile garantendo un prodotto ricco in tempi brevi e con meno spesa, perché la loro paga era metà di quella degli uomini. Un ottimo investimento! Il direttore della miniera di Buggerru accolse con soddisfazione l’evento.  “Benvenute in miniera! Belle o brutte, purchè efficienti! Assumete tutte le ragazze sane e robuste, mandatele nei piazzali dei cantieri. Contribuiranno alla prosperità della miniera…” E i piazzali di tutte le miniere sparse nell’Iglesiente-Guspinese-Arburese, nel Sarrabus Gerrei, nel Nuorese e ovunque ci fosse una miniera, si riempirono di donne. Anche le bambine, al seguito di mamme, zie e conoscenti, trovarono lavoro: trasportare minerale, dalla bocca del pozzo o delle gallerie al piazzale, frantumare blocchi con pesanti martelli, buttare lo sterile nelle discariche … Lavoro senza sosta, duro, faticoso sotto la pioggia o raffiche di vento con la polvere che penetrava negli occhi e sotto i miseri vestiti, o al sole cocente di luglio e agosto con il sudore appiccicato alla pelle. Un breve intervallo, “s’ora ‘sa barrilocca”, per mangiare un pezzo di pane gelosamente conservato nella tasca del grembiule. Donne, vedove di minatori morti nelle viscere della terra, giovani madri, giovinette, bambine.

 

Il lavoro minorile
Nella miniera di Montevecchio nel 1869 il lavoro minorile era ben rappresentato. Lo scrive in una sua relazione l’ingegner Giorgio Asproni, direttore della miniera “Trecento e più ragazzi dall’età di otto ai dodici anni … malnutriti, peggio vestiti, esposti a tutte le intemperie delle stagioni”.  Un mondo di bambini in una bolgia infernale dove c’erano doveri e i diritti non esistevano perché la fame teneva il primato. Lavoravano per un tozzo di pane, alcuni neanche pagati perché aiutavano la madre, tacevano per non irritare il caporale, per non venir redarguiti, piangevano dallo sfinimento, diventavano adulti senza aver conosciuto l’infanzia. Bambini che “viaggiavano” a piedi nudi da Guspini a Montevecchio, nove chilometri di sentieri impervi, ogni mattina alle cinque per essere in piazzale al suono del corno per l’appello e dopo otto, nove ore di lavoro ritorno a casa o in baracca a rosicchiare pane duro per cena e poi a dormire su un pagliericcio di fortuna. Pidocchi e cimici come compagni per le lunghe notti di luna di luna piena e stelle cadenti o con temporali, fulmini e tuoni. In quei piazzali c’è tutta la fatica e il dolore delle donne, c’è la disparità di trattamento economico, le umiliazioni, i soprusi, ma anche la ribellione, la presa di coscienza di sé e delle proprie capacità. In quei piazzali nasce, cresce, si rafforza la solidarietà, la mediazione fra pubblico e privato, il confronto, la condivisione. Un luogo non più di solo lavoro ma fucina di umanità al femminile che trova spazio e si afferma equilibrando le disparità: embrioni destinati a crescere e a realizzarsi. Un cammino lungo quello della donna, irto di difficoltà, di solitudine e di pazienza ma proficuo per il bene dell’Umanità. Le cernitrici di Montevecchio e di tutte le miniere sarde sono state le pioniere di una trasformazione culturale, sociale e politica a favore del progresso e dell’emancipazione.

 

La disparità di trattamento, un tema ancora attuale
Le donne, da sempre, hanno lavorato e prodotto per il reddito comune ma non è stato, ancora oggi, quantificato e riconosciuto in termini di capacità, tempo, denaro. Una storia lunga, travagliata, sofferta. In Sardegna, l’industria mineraria porta radicali cambiamenti e non si tornerà più indietro perché le donne iniziano un cammino che le renderà sempre più consapevoli del loro valore, delle loro capacità di gestire il lavoro, di essere partecipi del progresso. Nella metà dell’ottocento è difficile parlare di consapevolezza ma, si può dire che le donne assunte con una qualifica, una paga regolare, un orario, si affrancano liberandosi da un peso che gravava su di loro perché non facenti parte di un sistema produttivo. Nella miniera di Montevecchio, come in tutte le altre miniere, le donne e le bambine sono elemento prezioso e ricercato perché il loro costo è irrisorio confronto a quello dei maschi. Nel 1906 la remunerazione di una cernitrice andava da un minimo di lire 0,40 al massimo di 1,80, quello di una crivellante da 0,90 a1,80 lire contro quella del minatore, un minimo di lire1,60 a un massimo di 3,50. Un caporale da 2 a 6 lire, un muratore di galleria da 2 a 4 lire.

 

La tutela e i servizi per donne e bambine
La tutela delle donne e delle bambine che affollavano le miniere sarde non era contemplato in quei lontani anni di metà ottocento. C’erano molti doveri e pochi diritti, anzi diritti non ce n’erano proprio. Non esisteva una legge mineraria che ne tutelasse la salute, l’incolumità, la giustizia economica. Per decenni il lavoro è andato avanti in maniera molto approssimativa e noncurante, le assunzioni avvenivano sul momento e il rapporto di lavoro si chiudeva non appena lo riteneva opportuno il caporale di turno. Gli orari li stabiliva la quantità della produzione, il salario oscillava a seconda della produttività, e veniva decurtato per uno sgarbo, una ribellione, una sosta, una malattia, un parto, gli infortuni erano spesso nascosti per paura di essere tacciate di noncuranza e di distrazione. Manodopera ce n’era in abbondanza!
Un progetto di legge del 1870, proponeva di “proibire l’impiego di donne e fanciulli nei lavori sotterranei, di rendere obbligatorio un giorno di riposo alla settimana, di limitare a 6 ore il lavoro ai bambini di ambo i sessi …..”. Anche altre ne seguirono ma non furono mai discusse dalla Camera e si continuò a lavorare senza leggi. Nove anni dopo, il Presidente del Consiglio Cairoli preparò un disegno di legge sul lavoro femminile e promosse una inchiesta, senza però esito positivo. Nel 1880 ci fu una nuova proposta perché le donne di qualunque età non venissero impiegate nei lavori sotterranei e le due settimane successive al parto dovevano essere esonerate dal lavoro” Nel 1886 si stabilì il divieto di utilizzare minori di 9 anni e limitava a 8 ore l’orario di lavoro per i minori di 12 anni.

 

Le donne sostituite dalle macchine: un successo tecnologico
All’epoca quasi tutte le altre nazioni europee avevano una legge che tutelava il lavoro femminile, quella italiana prevedeva numerose possibilità di eccezioni e le violazioni erano frequenti. All’inizio del ‘900 una nuova legge si affacciò all’orizzonte per correggere quelle esistenti ma le variazioni erano modeste e irrilevanti.
La questione femminile fu dibattuta dai politici socialisti. Nel 1907 la legge, confluita poi nel Testo Unico tutela le donne dopo la gravidanza, nel caso l’avessero chiesta. Nel 1910, finalmente, la legge, obbliga l’assicurazione per le lavoratrici e un sussidio di 30 lire alle puerpere. Una vittoria che vedeva riconosciuto il diritto alla maternità. La legge del 6 aprile del 1922 fissava l’astensione obbligatoria per le gestanti nell’ultimo mese di gravidanza. Nel 1934 la legge era decisamente a favore delle lavoratrici madri e stabiliva anche la conservazione del posto.
In miniera le donne hanno cessato il loro lavoro di cernita con l’avvento delle macchine. A Montevecchio negli anni ’40 del secolo scorso si è chiusa una pagina di storia al femminile che merita di essere valorizzata per l’importanza che hanno rivestito nel mondo minerario contribuendo al progresso al pari degli uomini e all’emancipazione femminile.

RIQUADRO
Con questa accorata poesia esprimo l’augurio che le donne non debbano più patire torti e ingiustizie e trovino, nell’altra metà del cielo, equilibrio e armonia.
Iride Peis
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Cernitrici
Non dimenticateci …
Anche noi abbiamo fatto la storia.
Il nostro contributo di fatica e di sofferenza
di sacrificio e di coraggio,
di solidarietà e di amore,
ha dato al duro lavoro di miniera
un volto di dignità e umanità
che solo noi donne
sappiamo portare ovunque.

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Note
 (1) La rivolta de Su Connottu fu un episodio di ribellione verificatosi a Nuoro nel XIX secolo. L’episodio trae origine a seguito di una serie di provvedimenti legislativi emanati dal 1820 al 1858.