Nell’abitacolo del 128 non c’era più molta folla. Stava raggiungendo il capolinea, era quasi sera e faceva caldo per essere solo l’inizio di Giugno.

Con un braccio sospeso  in alto per tenermi in equilibrio, la borsa a tracolla seguivo con il corpo le curve della strada, affrontate a velocità spedita. 

Mi  ero distratta solo un attimo dai pensieri  inquietanti degli ultimi giorni quando uno sguardo si incollò  su di me. Ne percepii il calore, come un alito caldo. Non mi voltai, nemmeno mossi un muscolo. Attesi  che l’autobus arrivasse alla fermata d’obbligo e un attimo prima che le porte si richiudessero mi precipitai fuori all’aperto. 

Gli occhi di chi mi stava scrutando continuarono il viaggio. io me ne tornai a casa, rinunciando al pezzo di vita verso cui mi stavo dirigendo.

Questa scena accadeva ogni volta che venivo intercettata, da quel mattino di giugno ero certa di essere spiata, seguita, ricercata.

In quei giorni davanti il cancello di casa stanziavano come gabbiani su cumuli di immondizia due compagni della sezione Primo maggio, la sezione del Partito Comunista Italiano dove eravamo iscritti.

I compagni ci difendevano da possibili agguati. Ritorsioni, vendette.

Mentre io cercavo di rincollare i pezzi  stracciati del mio futuro, Alfredo veniva interrogato dalla Digos quasi ogni giorno, ogniqualvolta nuovi eventi venivano  alla luce.

Alfredo, uomo metodico, attento a ciò che gli accadeva aveva dato un resoconto  dell’avvenimento talmente  preciso da venir considerato in tutti i sensi uno dei migliori testimoni mai esistiti.

Ci eravamo riparati dal nostro amico fraterno, assessore al’edilizia del Comune di Napoli, Uberto nella  sua bellissima “magione” di Baia, in seguito al dissesto della nostra casa  dovuto al terremoto.

Con noi c’era Ulisse, pastore tedesco- napoletano di un anno.

Giorni di ricostruzione, tempo di pioggia di danaro per ricostruire Napoli : fatale attrazione da parte della Nuova Camorra Organizzata di Cutolo.

C’era in ballo una vera cascata di banconote fruscianti da coprire una grossa fetta del mercato della droga.

E di fronte a tutto questo un assessore comunista, rigoroso e fanatico che aveva vietato alle imprese edili prestanome di presentarsi  nella sua stanza per assicurarsi concessioni e appalti.

L’assessore era un osso duro, comunista votato da comunisti sapeva bene che la mafia avrebbe fatto di tutto per  accaparrarsi i soldi della ricostruzione  (sembra che questo continui ancora oggi senza che nessuno la fermi).

Ci ritrovammo così a condividere il post terremoto a Baia, un antico sito archeologico. 

 

 

Uberto tornava da Napoli la sera, noi partivamo al mattino su di un motorino per andare al lavoro alla Rai di  Fuorigrotta.  Stavo preparando un programma che avevo intitolato “Chi ha paura degli anni ’50” ma quel sabato avevamo altri appuntamenti molto più importanti.  Pioveva e decidemmo di  accettare di partire in macchina con il nostro ospite e l’autista del comune che era venuto a prenderlo con un alfa sud.

Era da giorni che arrivavano strane telefonate e coppiette stanziavano in vecchie auto  nei pressi della casa sul colle di Baia. La magione era collegata  alla strada da un viottolo angusto, tagliato nel  cuore della campagna. Non ci passava che una macchina alla volta. 

All’inizio della discesa l’alfa sud fu bloccata da una 500 ferma, immaginammo fosse in panne e l’autista si affacciò al finestrino per chiedere notizie. Ne uscirono tre uomini a  volto scoperto che, impugnando pistole col silenziatore, si  avvicinarono alle portiere della nostra auto  dicendo “Siamo le brigate rosse, non muovetevi”. Entrarono, legarono le mani ad Alfredo con del fil di ferro, spinsero me al disotto del sedile posteriore. Davanti sedeva Uberto e  l’autista,  uomo dei Nap, dietro ben cinque persone, noi tre e i due brigatisti che ci chiudevano ai lati come due ferma carte. Vedevo solo le scarpe di chi mi stava sopra, delle polacchine beige da” intellettuale rivoluzionario”. 

Cominciò così la nostra discesa agli inferi. 

La prima reazione a cose del genere non è la paura, c’è la sensazione che “E’ finita”, ma c’è anche 

una strana perversa curiosità. Guardare dall’alto se stessi e non riconoscersi. E’ come quando nel cadere il cervello mette in atto tutte le sue capacità di logica matematica per difendersi dall’impatto, e il corpo si comporta di conseguenza. 

Da claustrofobica patentata pensai con terrore  ad un possibile lungo sequestro in un luogo buio e 

angusto.

Il brigatista seduto dietro Uberto maneggiava una pistola con la quale colpiva continuamente sulla testa il nostro amico  ritenendo le sue risposte sbagliate.  La questione verteva sulle case fatte sgomberare nel centro storico e l’accusa che di quelle case si volesse fare una speculazione edilizia per ricchi, a scapito del proletariato.

Il viaggio (sapemmo dopo che era durato quasi un’ora pur coprendo un breve tragitto) sotto una pioggia battente ci portò alla periferia di Napoli. Scoprimmo che i brigatisti erano sconcertati  

nell’accorgersi che le cose si susseguivano in modo diverso da  quello precedentemente concordato.

Quando  incontrammo una gazzella dei carabinieri ci fu un “Cazzo, non dovevano esserci”.

Il capo brigatista  irritato ordinò di fermare e far finta di avere un guasto al motore.

“Questa volta in uno scontro a fuoco ci fanno fuori tutti” pensai.  

 

Invece molto misteriosamente le forze dell’ordine,  allertate  circa un possibile rilascio da parte delle BR dell’assessore regionale Ciro Cirillo, sequestrato a Maggio, che sarebbe dovuto avvenire in quello stesso giorno, pensarono bene di andarsene  senza fermare nessuno.

Così tutto andò bene: non fummo falcidiati dalle armi di Stato. 

Arrivammo in uno strano luogo semideserto, si vedevano dei palazzoni a breve distanza. L’auto si fermò.

Eravamo al capo linea, qualcuno aveva  dimenticato di portare il  manifesto con il pentacolo  da apporre davanti alla vittima  per immortalarlo prima dell’esecuzione. Mancava anche la macchina fotografica.

Se ne fece senza.

Uberto venne tirato  fuori, e,   mentre si allontanavano verso il muro del palazzo, noi venimmo  spinti fuori dall’abitacolo e fatti stendere l’uno sull’altro nella terra fradicia di pioggia.

L’idea  che uno di loro estraesse  un  mitra dalla borsa e ci sparasse addosso così come eravamo, Alfredo in cima, era del tutto verosimile.

Stesa sul corpo del dipendente comunale atterrito sentii  il primo colpo  di pistola, un colpo   seguito immediatamente da un secondo ….poi  un lungo silenzio….e infine,  dopo secondi simili a ore,   un terzo che coprì il grigio del  cielo e scoppiò come un grido nella testa “Lo ha ucciso”.

Ma il terrorista venuto dal nord, con il suo accento romagnolo e le sue scarpe da intellettuale “di sinistra”, correndo verso la macchina ci ordinò   “Andate  da lui immediatamente sennò muore dissanguato”.

E  l’alfa sud partì.  

Lo trovammo sanguinante, gambizzato ma vivo. Ci raccontò forte del suo  senso dell’ironia e il suo enorme coraggio che l’ultimo  colpo doveva essere speciale: un proiettile ad espansione che avrebbe spappolato la gamba  ma che sparato troppo da vicino aveva solo perforato l ‘arto. 

“Aveva detto,  Uberto, con questo non camminerai più” e il nostro amico sorrise.

Arrivò al Policlinico su di una volante  della polizia da noi chiamata, il capo poggiato sulle mie gambe.

E lo stridio lancinante della  sirena. 

Trascorse molti giorni in ospedale,  fu travolto da minacce,  dubbi,  riabilitazioni motorie. 

Fu  sostituito da un nuovo assessore al Comune, che si affrettò ad aprire la porta ai prestanomi di Cutolo.

Alla criminalità organizzata che fu libera di depredare  la città, di  stuprare Napoli  divenendo velocemente la   “Camorra” che oggi tutti conoscono.

 

Annotazioni

Una mattina la Digos ci convocò nella stanza  d’ospedale di Uberto per farci ascoltare il comunicato delle Br che annunciava l’esecuzione di Roberto Peci, fratello del “traditore” Patrizio.

La voce era quella di Giovanni Senzani, lo stesso accento romagnolo, la stessa cadenza, lo stesso suono da noi sentito per quasi un’ora quel mattino di giugno. Il nostro sequestratore era Senzani, nato a Forlì, criminologo e terrorista.

Le BR rinunciarono ad uccidere Uberto, in quanto avrebbero avuto contro tutta l’opinione pubblica che non avrebbe capito  e accettato la morte di un altro comunista dopo quella del sindacalista Guido Rossa.

Cutolo, recluso nella prigione di Ascoli Piceno, fu raggiunto da una delegazione di politici della DC, giunti fin lì per convincerlo a trattare con i brigatisti il rilascio dell’assessore regionale Ciro Cirillo sequestrato a Maggio, in cambio di un cospicuo riscatto.  La cosa fu concordata e decisa ma Cutolo  volle che le BR eseguissero per suo conto un ulteriore compito: eliminare il fastidiosissimo assessore che impediva alla N.C.O. di godere dei soldi della ricostruzione.

Le Brigate Rosse eseguirono.

 

 

“Il caso Cirillo. La trattativa Stato -BR- Camorra. Fermate quel giudice”  autore il magistrato  Carlo Alemi Tullio Pironti editore.