Globalization is a fact of life. But I believe we have underestimated its fragility

Kofi Annan

 

Scrive Giuseppe Monti, sull’ultimo numero di Caos Management, presentando il libro “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro. Alex Williams e  Nick Srnicek. Feltrinelli”, che “per buona parte del XX secolo è stato il futuro a indirizzare i nostri sogni” mentre oggi “nella paralisi dell’immaginario politico, il futuro viene cancellato”.

Sempre secondo Giuseppe Monti, “questo libro si domanda come siamo arrivati a una tale situazione e come ripartire verso il futuro”, ma questa, secondo gli autori del libro, nel fallimento del neo-liberismo e nella notte della socialdemocrazia, sembra essere una questione politica, anzi di ricostruzione della politica per un mondo migliore, tutta da verificare.

Piuttosto, quello che è accaduto nel corso del ‘900 e le inversioni di tendenza in corso, a livello macro (economia) e micro (organizzazioni) è oramai chiaro, ma occorre ripercorrere questo tempo per comprendere come la crisi generalizzata dei “diritti” abbia coinvolto anche i sistemi di protezione sociale delle democrazie occidentali. D’altronde, questo mio contributo è finalizzato a cogliere l’involuzione dei welfare, sempre a partire dalle determinanti economiche, in quanto il problema delle “risorse” ha due fondamentali affluenti: i modelli di sviluppo economico e la distribuzione sociale della ricchezza prodotta.

Parliamo di due fasi storiche distinte, il fordismo-taylorismo, primi del ‘900 e fino agli anni ‘80 e il post-fordismo, fine ‘900 e primi decenni del XXI secolo, caratterizzate da una inversione epocale sul piano delle istituzioni, dell’economia, dei modelli industriali e delle politiche sociali. Nascita e crescita dei welfare e crisi e declino dello “stato sociale”, sviluppo delle grandi imprese e piena occupazione contrapposte a “precarietà delle classi operaie” e imprese e “riprese senza lavoro”, cittadinanza industriale versus la “marginalità urbana delle economie sviluppate”, “etica del lavoro” che scivola verso un vissuto lavorativo “fonte di continuo stress”. Infatti, sempre nel libro citato e commentato da Giuseppe Monti, si afferma che solo “il tredici per cento delle persone sostiene di ritenere il proprio lavoro interessante”, ma solo male necessario “che serve a pagare le bollette a fine mese”. Certo il problema del significato intrinseco del lavoro ci porterebbe lontano, e non è il caso, basti pensare che per quasi tutto il ‘900 i lavoratori hanno ricevuto ricompense estrinseche, ossia materiali, a fronte del loro contributo salariato, ossia Stato e mercato sono cresciuti insieme, perché i redditi da lavoro erano integrati dai “servizi” e dalle politiche di protezione sociale. Oggi non è più cosi, perché l’impresa si è separata dagli Stati nazionali, senza più responsabilità sociale, in un contesto di “crescita lenta” e competitività globale, sempre alla ricerca di economie di costi e flessibilità operativa alla base della nuova “precarietà delle classi lavoratrici”, per via della “crescita del surplus di forza lavoro globale prodotta da globalizzazione e automazione”.

Insomma, anche l’attualità e l’arte segnalano un disagio metropolitano diffuso nei paesi di vecchia industrializzazione, come il coraggioso, e recente, film di Todd Phillips “Joker”, nel quale si racconta la storia di Arthur Fleck, “che vive con l’anziana madre in un palazzone fatiscente e sbarca il lunario facendo pubblicità per la strada travestito da clown. La sua vita, in realtà, è una tragedia: ignorato, calpestato e bullizzato, allontanato ulteriormente da ogni possibile relazione sociale, un giorno Arthur non ce la fa più e reagisce violentemente, pistola alla mano e mentre la polizia di Gotham City (città virtuale) dà la caccia al clown killer, la popolazione lo elegge a eroe metropolitano, simbolo della rivolta degli oppressi contro l’arroganza dei ricchi”[1]. In effetti, in tutti questi anni nulla è successo per invertire la rotta sulla povertà crescente “e i risultati di questo immobilismo cominciano a sentirsi con le rivolte che si stanno verificando nei luoghi più disparati del pianeta” (dal Cile al Sudan, dall’Algeria ad Haiti, da Hong Kong all’Iraq, dall’Ecuador al Libano)[2]. Possiamo, dunque, concordare con la frase, oramai celebre, del ricchissimo Warren Buffett, che ha affermato che “la lotta di classe esiste da vent’anni e la mia classe l’ha vinta”, asserzione fatta in un contesto critico verso i privilegi della classe di appartenenza, ma che suona oggi più che mai rivelatrice di questa vittoria, o presunta tale, e quindi incendiaria rivelazione[3].

Questa è, naturalmente, solo una parte di verità e le armi usate dalla classe dominante, in questo salto d’epoca, sono state per lo meno tre: le ICT (tecnologie dell’informazione e della comunicazione), la rivoluzione dei trasporti e la robotizzazione dei processi industriali. È pur vero, infatti, che come sempre è accaduto, la tecnologia cancella posti di lavoro ma crea nuove competenze e ruoli organizzativi, mentre la stessa globalizzazione è stata una opportunità di sviluppo per molti paesi, mentre se, a livello sociale, la dimensione collettiva è collassata, è sempre  l’individuo a dover farsi carico della propria crescita, certo in un contesto formativo e di mobilità sociale più dinamico di quello nazionale, attestato, in generale, su privilegi di ceto e tradizionalismi organizzativi (vedi Rapporto Censis, 2017).

Rimane, comunque, la necessità di una sfera pubblica che soddisfi bisogni cui il mercato non può rispondere, perché gli esclusi dalle opportunità e ricchezza vanno recuperati in termini di contributo alla crescita economica e sociale delle collettività inserite nel gioco globale o assistiti da programmi di protezione sociale (come il World Food Programme).

Ma veniamo al nostro problema: qual è lo stato del welfare nella società contemporanea, e che possibilità ci sono, e come, di rigenerarlo, considerando, anche, che l’istituto del welfare ha attraversato differenti fasi storiche: di sperimentazione (1870-1920), con finalità dispensative per risolvere la questione sociale, la fase di consolidamento, dalla grande depressione (crisi del 1929) e seconda guerra mondiale in poi, con politiche economiche e sociali rivolte agli obiettivi di pieno impiego, attraverso i nuovi principi dell’economia keynesiana. Infine la fase di espansione, nei decenni centrali del ‘900, caratterizzata da crescita economica, incremento della spesa sociale ad orientamento universalistico e, di conseguenza, degli stessi deficit e debito pubblico nazionali.

Eppure le domande che dobbiamo porci sono le seguenti: è possibile immaginare che le nuove condizioni della competitività internazionale, nello scenario globale, abbiano indebolito le economie nazionali di vecchia industrializzazione, rispetto ai paesi emergenti? Che la dissoluzione degli Stati nazionali a favore delle nascenti nuove macro aree economiche e monetarie sia una delle ragioni del declino finanziario delle politiche sociali nazionali? Insomma, la crisi dei welfare tradizionali è un problema derivante solo dalla espansione della domanda di assistenza e servizi sociali necessari, per il cambiamento del quadro demografico ed epidemiologico in corso, o pesa, dal lato dell’offerta, il condizionamento delle economie sviluppate in affanno, nel confronto competitivo, con i paesi di nuova industrializzazione che hanno un fardello ridotto di responsabilità sociale e connesse politiche sociali istituzionali?

Invecchiamento della popolazione e incremento delle malattie croniche concorrono, dal lato della domanda, soprattutto nell’area Occidentale, agli squilibri dei bilanci pubblici, debito e deficit annuale, per l’incremento della spesa sociale e sanitaria. Non va, inoltre, trascurato, per il versante dell’offerta, sempre in ambito socio-sanitario, l’incremento dei costi di cura: dall’impatto delle tecnologie ai costi di struttura, dal coordinamento e arricchimento dei servizi alla persona alle (crescenti) spese per il personale. L’analisi del problema va, comunque, condotta a tre livelli, macro, economie nazionali e scenario globale, meso, modelli di welfare state e micro, politiche sociali e sanitarie. In quanto il tema va posto all’incrocio di tre variabili, la dimensione clinico -epidemiologica, l’andamento delle economie nazionali e globali e il ripensamento dei sistemi di welfare (forme di finanziamento, tipologie di intervento e attivazione di strutture complementari ai tradizionali compiti istituzionali).

Analizziamo, dunque, queste tre dimensioni, globalizzazione, domanda (e offerta) di servizi sanitari e sociosanitari e possibilità di un “secondo welfare”.

Allora, la riorganizzazione della forma e delle funzioni economiche primarie dello Stato (protezione sociale, sanità e istruzione) intercetta oggi le problematiche (anche indirette) della globalizzazione economica. Il primo punto riguarda le crescenti pressioni competitive da parte delle economie di recente industrializzazione. Infatti, La globalizzazione e la crescente integrazione delle economie hanno costretto le autorità a dedicare maggiore attenzione a tutti quei fattori che influenzano le scelte di localizzazione delle imprese e dell’occupazione. Tra di essi la fiscalità, lungi dall’essere l’unico o il più rilevante, esercita tuttavia un’influenza non trascurabile e ampiamente riconosciuta (all’interno della stessa UE). D’altronde, l’internazionalizzazione della produzione impedisce agli Stati nazione di agire secondo la logica delle economie nazionali, delle politiche economiche e sociali di stampo keynesiano, storicamente associate alla crescita occupazionale e allo sviluppo del welfare State, nella logica di sistemi economici (relativamente) chiusi. La globalizzazione ha avuto, anche, inevitabili effetti sulla distribuzione del reddito nei paesi avanzati, generando disuguaglianze sociali crescenti, in quanto vi è un progressivo declino del salario relativo dei lavoratori meno qualificati, nei paesi sviluppati. Inoltre l’apertura degli scambi tra paesi con diversa dotazione del fattore lavoro (unskilled o skilled), determina una riduzione del prezzo relativo dei beni manufatti che utilizzano in proporzione il lavoro meno qualificato, mentre i paesi più dotati di lavoro qualificato sono indotti a specializzarsi nella produzione e nell’esportazione di beni manufatti ad alta intensità di tale risorsa (umana nonché tecnologica).

Tutto ciò esercita delle contraddittorie pressioni sui sistemi di welfare, se gli obiettivi primari e storici dei moderni sistemi di protezione sociale sono combattere la povertà e trasferire i rischi del singolo individuo sulla collettività, la crescente apertura internazionale incide sui meccanismi di generazione delle diseguaglianze aumentandole, mentre l’incremento della turbolenza dell’ambiente economico è dovuto alla crescente interdipendenza produttiva e commerciale delle (ex) economie nazionali.

A questo proposito sono significativi i dati relativi alla distribuzione della ricchezza globale. Il Report 2014 dell’istituto di ricerca della Credit Suisse riporta, come tutti gli anni, la Piramide della ricchezza globale con lo 0,7% della popolazione che controlla il 44% della ricchezza del mondo e il 7,9% che ne controlla il 41,3%, il che significa che l’85,3% della ricchezza è controllato dall’8,6% della popolazione mondiale. Mentre il 69,8% della popolazione mondiale, cioè i due terzi, hanno una ricchezza pari al 2,9%. È una piramide che cresce di anno in anno allargandosi alla base e restringendosi al vertice.

Dunque, il bisogno di welfare aumenta in un’epoca di globalizzazione, perché in tutti i paesi il maggior grado di apertura internazionale ha costretto i governi a tagliare la spesa sociale, con gli esiti (sociali) della integrazione economica che da un lato richiedono l’espansione del welfare mentre dall’altro ne impongono, paradossalmente, il ridimensionamento.

 

Veniamo al secondo punto, l’incremento della domanda di assistenza sanitaria, sociale e socio-assistenziale (e alle politiche di offerta).

Si accentua l’invecchiamento della popolazione ovunque in Europa.

L’Italia in particolare ha il primato di Paese con il più alto indice di vecchiaia del mondo: al 1° gennaio 2013 nella popolazione residente si contano 151,4 persone di 65 anni e oltre ogni 100 giovani con meno di 15 anni e si tratta di un “debito demografico” contratto da un paese nei confronti delle generazioni future. Tutto ciò comporta delle riflessioni generali sui sistemi di welfare pensati per una struttura demografica meno dinamica, dal punto di vista dell’invecchiamento, e con andamento più favorevole sul versante della natalità, coerente con gli sviluppi economici nazionali Occidentali del XX secolo ma assolutamente inadeguata all’economia globale e indici demografici ed epidemiologici propri del XXI sec., e in crescita ovunque. Infatti, l’incremento dell’aspettativa di vita ha determinato già da tempo l’aumento delle malattie croniche. In Italia, anno 2012, oltre la metà della popolazione ultra settantacinquenne soffre di patologie croniche gravi. Nella classe di età 65-69 anni e 75 e oltre le donne soffrono di una cronicità grave, rispettivamente, per il 28 e 51 per cento. Mentre gli uomini soffrono di almeno una cronicità grave, nel 36 per cento dei casi, nella classe di età 65-69, e nel 57 per cento tra quelli ultra settantacinquenni. Il sorprendente aumento dell’aspettativa di vita della popolazione (circa un anno in più ogni quattro anni) si incrocia, dunque, con l’aumento della prevalenza delle malattie croniche che si sono diffuse, anche, su scala globale. Tra parentesi, è da sottolineare, che uno dei settori del welfare caratterizzato dal progressivo finanziamento individuale (e familiare) è quello della Long Term Care. Dati OCSE mostrano, in questo senso, lo sviluppo di modelli di finanziamento radicalmente innovativi, come la compartecipazione alla spesa da parte degli utenti per gli elevati costi della Long Term Care. Anche se queste modalità, almeno per la cultura e i livelli di reddito medio nazionali, sembrano non applicabili al contesto Italiano.

Il problema sembra, e questo è il terzo punto, quello di cambiare le forme e le tipologie dei sistemi di welfare, in Italia come in Europa (soprattutto l’area meridionale) sempre in affanno nella competizione economica globale. Provare un “Secondo welfare”, (al cui interno si situano le tipologie del “welfare contrattuale” o “welfare aziendale”) secondo un nuovo percorso, altra finalizzazione e classificazione degli interventi e innovative fonti di finanziamento, nei nuovi contesti dei bisogni sociali da approfondire e controllare, potrebbe essere una soluzione complementare a quella primaria (e storica) di intervento centralistico dello Stato. Si tratta di misure di protezione sociale organizzate dal “basso” che compensano l’arretramento dello Stato, spinto, in tal senso, dai crescenti vincoli di bilancio. Il “welfare” contrattuale mira a realizzare servizi gestiti dalle parti sociali integrando il salario, in una situazione di minore potere contrattuale dei sindacati, e basandosi sulla bilateralità degli interventi (fondi integrativi e recupero della mutualità). Anche il cosiddetto “welfare territoriale” è una soluzione innovativa perché gestito da Enti decentrati. Proprio la legge di riforma dei servizi socio-assistenziali (L.328/2000) e la riforma del titolo V della Costituzione hanno promosso interventi sociali su specifici territori, pur in una cornice regolativa a livello nazionale. Si tratta di modelli di welfare flessibili e localmente differenziati per la diversificazione dei bisogni sociali (e sanitari) con risorse aggiuntive rispetto a quelle pubbliche. Attivando la collaborazione tra pubblico e privato sociale, utilizzata anche come rilancio economico e produttivo dei territori in questione e, dunque, a supporto dello stesso mercato del lavoro.

Questo orientamento complessivo verso un “secondo welfare” riguarda anche i paesi Europei, tramite l’affidamento della gestione della fornitura di servizi da parte di soggetti privati o privati non profit, dal lato del finanziamento e come stimolo ad una domanda individuale pagante. In sostanza una manovra di “privatizzazione” di una quota consistente di servizi di welfare. Ma non solo, il ricorso al territorio, alla società civile, alla responsabilità individuale, richiamano processi di valorizzazione del “capitale sociale” (individui, soggetti collettivi, famiglie) noti oramai da decenni in ambito economico-organizzativo, attivando processi di istituzionalizzazione capaci di dilatare l’offerta di servizi in un’epoca di espansione della relativa domanda e carenza di risorse primarie (pubbliche) da gestire. Certamente più realistica è l’ipotesi della diffusione di un “welfare capacitante”. Ossia uscire dalla logica passiva della redistribuzione monetaria e agire sul mercato del lavoro. I nuovi bisogni sociali diventano (tramite formazione) le nuove abilità e capacità lavorative. È ciò che avviene nei sistemi nordici del welfare Europeo, con ricollocamento e formazione dei lavoratori, senza venir meno il diritto universalistico all’assistenza, in caso di disoccupazione. Insomma il welfare inteso come investimento sociale (e occupazionale) combinato, naturalmente con i diritti universalistici (degli aventi diritto). Il riferimento primario è allo sviluppo dell’economia sociale, che impiega, in Europa il 6,5% della popolazione attiva mentre in Italia l’occupazione delle cooperative sociali vede aumentare il numero degli occupati dell’8% nel periodo 2007-2011, a fronte di una diminuzione dell’occupazione, nello stesso periodo, del 2,3% per le altre forme di impresa. Il ruolo della PA integrato a quello dell’economia sociale, ci porta ad un secondo livello di welfare. L’obiettivo è il passaggio dal welfare state alla welfare Society, in grado di mobilitare un “secondo welfare” sulla base di risorse economiche e sociali che superino i vincoli dei bilanci pubblici, pur demandando allo Stato una centralità regolativa degli interventi e delle coperture sociali, secondo una logica universalistica in tema di livelli essenziali (e minimi) di assistenza.

Le due vie d’uscita dalla crisi del welfare (dei paesi avanzati) sembrano essere, a questo punto, primo: modificare la propria posizione nel ciclo del prodotto e delle tecnologie da parte delle economie nazionali. Spostandosi dai settori a bassa e media intensità tecnologica e lavoro non qualificato ai settori innovativi ad elevata intensità tecnologica e di lavoro qualificato. La seconda strada è quella di aumentare la stessa produttività nel settore del welfare, con l’applicazione delle tecnologie informatiche nelle Pubbliche Amministrazioni e l’impiego di manager professionisti nella conduzione e gestione dell’apparato dei servizi pubblici. Una cosa è certa il futuro stesso dei sistemi di welfare dipenderà sia dalle tendenze demografiche che dai flussi migratori nonché dall’andamento generale delle economie.

Ma, come sappiamo, un processo di lunga durata minaccia la sostenibilità dei sistemi di welfare, l’andamento demografico e l’invecchiamento della popolazione, con i due maggiori programmi di protezione sociale coinvolti, pensioni e sanità, riducendosi, progressivamente, la proporzione di persone in età lavorativa, dai cui salari vengono finanziati questi programmi di assistenza.

In definitiva il modello di welfare in grado di intercettare risorse su diversi piani (economico, sociale, culturale ma anche globale e locale) è quello “generativo”, una sorta di welfare “design” che mette insieme (con sussidiarietà circolare): gli enti pubblici (con le amministrazioni locali), le imprese sia profit che non profit, le persone e la società civile. Una costellazione di enti e soggetti (associazioni di categoria, sindacati, terzo settore, piattaforme collaborative) corrispondenti alla logica del welfare net, dove partecipazione, fiducia e valori condivisi siano alla base di una costruzione a grossa valenza culturale (oltre che organizzativa).

Mi rendo conto che questo articolo è solo una parziale risposta alla proposta tematica di Giuseppe Monti, sull’ultimo numero di Caos Management, presentando il libro “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro. Alex Williams e  Nick Srnicek. Feltrinelli”, svolto solo sul piano della sostenibilità dell’istituto del welfare, pilastro novecentesco della nostra avventura economica, che ha preso nel XXI secolo un’altra strada, deviando “il capitalismo del welfare” verso “il capitalismo della borsa”, secondo la tesi espressa nel libro di Ronald P. Dore[4], che si interroga sui due modelli di capitalismo: motivazioni economiche e valore del denaro o strutture sociali, equità, collegialità e relazioni personali?

D’altronde il tema è diffusamente affrontato nel mio saggio “le determinanti economiche del welfare”, cui rimando per approfondimenti e nuovi stimoli anche disciplinari per la poliedricità dell’argomento affrontato[5].

Chiudo con una nota cinematografica cosi come all’inizio dell’articolo, anch’essa centrata sulle diseguaglianze sociali, citando il film del regista coreano Bong joon-ho, “Parasite”, per la cui trama rinvio alla visione del film, sottolineando come il regista affermi che “in un mondo in cui le risorse si concentrano nelle mani di pochi fortunati la convivenza tra le classi sociali si riveli un ideale particolarmente difficile da raggiungere” e che “le relazioni umane fondate sulle nozioni di coesistenza e di simbiosi si disintegrano e ogni classe sociale diviene parassita per le altre”.

È significativo come il cinema riesca a intercettare quella “verità”, che secondo Edgar Morin è frutto di un cinema documentaristico ma espresso attraverso i contenuti della vita soggettiva (ossia romanzesca), mentre l’establishment politico e istituzionale si rifiuta di vederla per gli interessi di ceto e di mercato rappresentati.

 

 

 

[1] https://www.internazionale.it/bloc-notes/francesco-boille/2019/11/06/joker-rivolta?fbclid=IwAR1snIUSKkivwnzS1DO2tjB91_W7U3yF4ZTnx462KYE-4S_kW_eaJvG4spc

[2] http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/11/11/news/rivolte-mondo-1.340629?preview=true

[3] https://corrierefiorentino.corriere.it/firenze/notizie/vivitoscana/19_ottobre_04/film-settimana-joker-58086bf2-e683-11e9-8a17-7c3ad5ed551e.shtml?refresh_ce-cp

[4] Dore Ronald P. “Capitalismo della borsa o capitalismo del welfare?, Il Mulino, 2001.

[5] [5] L’articolo è tratto da un mio saggio “Le determinanti economiche del welfare”, ne I Quaderni del Master n. 3 LEA LIVEAS, DISEGUAGLIANZE; WELFARE SOSTENIBILE (a cura di G. Ranisio, B. Fiore e A. D’Antonio ), vedi https://www.adestdellequatore.com/shop/lea-liveas-diseguaglianze-welfare-sostenibile/