“La lettura è il viaggio di chi non può prendere un treno.”

Francis de Croisset

 

 

Accetto volentieri l’invito di Barbara a scrivere, per questa torrida estate, qualcosa di “leggero”, che possa conciliarsi con le vacanze: un “invito a leggere”. È per me una piccola sfida scrivere con leggerezza, qualcosa di semplice che non sia banale, ma ci proverò. A questo proposito ho subito intercettato sulla rete una interessante disquisizione sulla “semplicità” di Giancarlo Livraghi, del maggio 2009, pubblicato da Il Filo di Arianna, con il titolo: Il fascino della semplicità (e i tradimenti del semplicismo)[1].

 

Sempre seguendo il citato autore, “cogliere la semplicità che si nasconde dentro un’apparente complicazione”, non è la cosa più facile del mondo ma sicuramente la più efficace per il lettore. Certo bisogna essere in grado di distinguere tra “semplice”, “complicato” e “complesso”, riconoscendo che molto spesso anche nella scienza (e non solo nell’arte o nelle discipline umanistiche) le soluzioni semplici risolvono problemi apparentemente complicati. È nota, infatti, la citazione di Albert Einstein secondo cui “se non lo sai spiegare semplicemente, non l’hai capito abbastanza bene”. A volte la semplicità è un merito, si pensi alle scienze organizzative quando delimitano il campo e i criteri delle “decisioni” oppure quando i problemi diretti al vertice vengono filtrati secondo “il principio di eccezione”, per facilitare le strategie aziendali. Altre volte la complicazione è una perversione, perché complicare è facile, difficile semplificare (vedi la burocrazia). La semplicità è legata all’arte, alla creatività, ma il “semplicismo” è una pericolosa trappola che non deve essere confusa con la “semplicità”.

 

Sicuramente vi siete chiesti: cosa c’entra la semplicità o la complicazione (e perfino la complessità) con l’elogio della lettura? Ma pensate, avete mai letto con piacere un libro complicato? E penso neppure un libro stupido. La complessità poi lasciamola ai libri di studio, o ai saggi, quanto mai necessari. Ma il libro ci attrae per il titolo, per la citazione che lo precede, per la sintesi della quarta di copertina, per l’immagine che lo rappresenta in copertina. Mai viste cose così semplici (ma simbolicamente efficaci). C’è poi il contenuto del libro, che ci deve far viaggiare con la fantasia, scorrevole, avvincente, un’altra storia rispetto a noi stessi, un mondo nel quale diluirsi, perdersi, per poi ritrovarsi con un’esperienza in più, per il reale, una diversa opzione della realtà.

 

Il libro, e parlo di letteratura vera, non può essere “evasione”, moda, tendenza, ma deve affascinare per la sua “storia” o intercettare la “verità” tramite l’arte, che a volte è distillata, pura, metafora dell’esistente e, perché no, della nostra esistenza.

 

Si potrebbe riflettere poi sul perché si legge poco (e male) e che tipo di società sarebbero le nostre se si leggesse poco ma bene.

 

Ma è tutto il nostro sistema produttivo, riproduttivo e del consumo (anche dei libri) che si basa sull’assenza di “verità” e come conciliarlo con la scrittura o qualsiasi altra espressione artistica?

 

Gli adulti sono, nella stragrande maggioranza, colonizzati dal mondo del lavoro (nonostante le imprese ripropongano il loro linguaggio produttivistico come “impresa narrata” (storytelling); mentre i giovani (anche i giovanissimi) sono intrappolati dal game tecnologico, la comunicazione istantanea, effimera, spesso priva di senso e prospettiva, del “qui ed ora”. Una buona regola sarebbe abituarli alla lettura, non impegnata, ma seria, quella che lascia tracce (scorie direi) non digitali.

 

E che dire delle librerie sempre più virtuali, monopolizzate dai colossi editoriali della “distribuzione” che inchiodano alla standardizzazione della produzione letteraria, al primato dei soliti autori, di scritture ripetute in salse diverse e di libri “programmati” (nonché già venduti). Tutto questo rinforza anche ideologicamente il sistema culturale del quale siamo un ingranaggio a volte inconsapevole. Ecco perché amo le piccole case editrici, artigianali, dirette da “creativi” alla ricerca di autori e scritture “fuori dal coro”.

 

Sono spesso accusato amorevolmente (da mia moglie) di non avere il linguaggio “intermedio”, quello delle cene, degli aperitivi, dei salotti. Dico la verità lo trovo insopportabile ma non per spocchiosità, è solo bisogno di ossigeno mentale. Infatti mi capita spesso, con lei e alcuni amici intimi, di parlare volentieri delle mie letture preferite, per esempio Il Castello e Il Processo di Kafka[2], anche se magari, pur apprezzati, non sono condivisi emotivamente. Per esempio un mio grande amico legge solo saggi, è un errore perché l’arte e la creatività è una chiave di lettura di molti dei problemi che affliggono le moderne società post-industriali. Ho riletto da poco Finzioni di Borges e attualmente sto rileggendo alcuni endecasillabi di L’altro, lo stesso (1964) del grande poeta argentino. Ma anche Le città invisibili di Italo Calvino (le forme multiple delle città), Volo di notte di Antoine de Saint-Exupéry (gli albori dell’aviazione attraverso l’America latina) o Nel paese delle ultime cose di Paul Auster (le tappe di un viaggio infernale con i suoi moderni dannati), del quale ho letto, negli ultimi anni quasi tutto con grande piacere e introducendomi serenamente al sonno notturno. Si, perché ci sono libri che svegliano e libri che conciliano la fine del giorno, delle attività, preparando quelle del giorno successivo e sono quelli che amo di più. Il libro di lettura come ricompensa, la semplicità come “dono”, la leggerezza come risorsa. Anche se ci sono grandi scrittori come Luis Seplveda, recentemente scomparso, che ci invitano a “dar voce a chi non ha voce”, a resistere e rimanere “svegli”, sognando un mondo migliore.

Queste letture mi hanno aiutato, nel tempo, a capire meglio la realtà in cui vivo e sono; anche ad uscirne e confrontarmi con un mondo sconosciuto e attivato (nel senso di enactment[3]) dallo scrittore e dal suo libro; a rientrarci, magari, con nuove consapevolezze, perché la vita e le letture sono sempre multiple, infinite, inesauribili, ancora “specchio di qualcos’altro”. Per dirla con Borges l’io è l’altro e ognuno di noi, a sua volta, è il sogno di qualcun altro considerando che la stessa letteratura è la forma perfetta del tempo, che si dilata, si disgrega, e del resto“tra i giorni e le notti, che differenza c’è?”.  .[4]

 



[1] gandalf.it/arianna/semplic.htm

[2] Vedi il mio articolo La burocrazia da Weber a Kafka, il Caos Management n. 127

[3] Secondo Karl Weick studioso della cultura organizzativa “ambiente attivato”, processo cognitivo che crea letteralmente un “contesto”. Vedi A. D’Antonio, “Le regole dell’organizzazione”,  ad est dell’equatore.2017.