Una bella definizione della realtà virtuale che viviamo con le nuove tecnologie di comunicazione è stata data dal sociologo Zygmunt Bauman: un muro di vetro al cui interno ci rifugiamo per non affrontare le sfide vere che la vita ci pone davanti, vivendole come se fossero repliche.

 

Ne nasce una sorta di zona di conforto in cui possiamo scegliere la nostra identità eventualmente modulandola alla ricercata approvazione degli altri, la comunità a cui aderire; le informazioni e conoscenze da condividere.

 

L’altra faccia è però che alle tante interazioni accumulate sui Social non sempre corrispondono relazioni da coltivare nella quotidianità.  Le emozioni ed i pensieri condivisi nel cyberspazio, destinati ad un interlocutore generico ed indifferenziato, non implicano necessariamente la ricerca di forme autentiche di condivisione.

 

Che i giovani risultino affascinati da questo sistema è forse comprensibile, meno che questo compiacimento si stia allargando ai non giovani, anche in connessione con il particolare momento che viviamo, responsabile di avere indotto un’accelerazione nel ricorso alla comunicazione virtuale tanto nei rapporti interpersonali quanto nel mondo del lavoro, nella fruizione della cultura e nella organizzazione del proprio tempo libero.

 

È innegabile che le nuove tecnologie digitali facilitano la vita è fanno superare le distanze ma forse una conversazione in chat non può sostituire una chiacchierata de viso con un amico ed una visita guidata virtuale il godimento che deriva dalla visione in presenza di un’opera d’arte.

 

Allora dal Covid19 ci viene una lezione: le tecnologie informatiche siano uno strumento, non un metodo di vita.