e, visto che il titolo è riferito alle ultime vicende parlamentari, aggiungo “per fortuna”.

Chiarita la posizione politica ragioniamoci un po’.

Il problema dell’inadeguatezza del Migliore (Mario Draghi) è un problema assai dibattuto nella letteratura manageriale: un problema culturale.

Draghi, come si definito lui stesso nell’ultima seduta a cui ha partecipato alla Camera dei Deputati, è un “banchiere centrale”.

Primo problema culturale: il concetto di leadership

Nei suoi ultimi anni, prima come Governatore della Banca d’Italia, poi come presidente della Banca centrale europea è stato un autocrate, un uomo al vertice dell’organizzazione in cui lavorava, con un potere interno assoluto, dove i suoi desiderata erano automaticamente degli ordini a cui si poteva solo obbedire.

I sottoposti dipendevano nella loro funzione e nel loro benessere da un solo potere assoluto, se non obbedivano adeguatamente le conseguenze, la punizione, sarebbe stata rapida, diretta e concreta.

Questa è la sua cultura organizzativa.

Lui decide, lui ordina e non si discute, si obbedisce.

In molte organizzazioni questo potere assoluto è stato addolcito, di certo non nel settore bancario.

Ma in politica, il campo dove opera un Presidente del Consiglio, un autocrate richiede una governance basata sull’autocrazia.

Il problema è che in Italia siamo in una democrazia, neanche presidenziale, ma parlamentare. Ed è la democrazia parlamentare che definisce le regole del gioco che si basano sulla tutela delle minoranze e la legittima ricchezza della diversità delle opinioni.

Questo è il motivo per cui tutti i governi cosiddetti “tecnici” durano poco e lasciano problemi gravi irrisolti.

La democrazia non può fare a meno delle scelte politiche, che in soldoni vuol dire accontentare qualcuno e scontentare gli altri, e il cosiddetto “governo di tutti”, finisce, inevitabilmente con l’essere “il governo di nessuno”.

Le caratteristiche di un Presidente del Consiglio sono la visione strategica da condire con tanta pazienza, grande capacità di ascolto e di mediazione e una estrema dote di sintesi.

La cultura “antropologica” di Mario Draghi prevede comandi e obbedienza. L’assertività è funzionale al raggiungimento di obiettivi che non sono negoziabili.

 

Secondo problema culturale: il controllo del proprio ego

Mario Draghi ha dimostrato di non avere imparato l’arte della creazione del consenso, né di controllo dell’hýbris.

Il termine originariamente significava “violenza”, “tracotanza” e si riferiva ad un comportamento particolarmente biasimevole perché lesivo dell’onore altrui.

Il concetto di hýbris è alla base del sistema di valori proprio del mondo greco arcaico. L’hýbris è un accecamento mentale che impedisce all’uomo di riconoscere i propri limiti e di commisurare le proprie forze: chi ha ambizioni troppo elevate e osa oltrepassare il confine posto dagli dei pecca di hýbris e incorre in quella che viene chiamata “invidia degli dei” (fthònos theòn).

Ai giorni nostri con hýbris si identifica un esagerato orgoglio personale. E di questo stiamo parlando quando ripercorriamo la caduta di questo governo. Una vola tanto, è proprio raro, condivido l’opinione di B. (Berlusconi) pubblicata su Repubblica. Sull’ex numero uno della Banca centrale dice: “Ha colto la palla al balzo per andarsene”.

In realtà la spiegazione sembra più complessa. Draghi si è presentato al Senato dando fiato al suo hýbris e dettando condizioni assolute. O il Parlamento approverà quello che io porterò in aula o non si ristabilisce il clima di fiducia su cui è nato il mio governo.

Ma l’“io sono io e voi non siete un cazzo” di memoria grillesca (non quello attuale, ma quell’Onofrio vissuto nel Settecento) non è la cosa migliore da dire quando si cercano i voti di una fiducia, e rende esplicito l’obiettivo del Migliore. O mi lasciate solo al comando (autocrazia, appunto) o me ne vado per lesa maestà. E nonostante l’aver incassato due fiducia consecutive (democrazia) se ne è andato.

Più che un uomo inviato dalla Provvidenza (santo subito) sembra di trovarsi di fronte a una divinità.

I giornaloni, il sistema economico mediatico, cercano, e si daranno da fare per tutta la campagna elettorale, di attribuire ai 5stelle la colpa della fine del governo “in un momento così cruciale per il paese” (sperando, non si sa per quali vaticini, che a maggio del 2023 sarà finita la guerra in Ucraina, la povertà di 12 milioni di italiani e la pandemia) negando l’innegabile, ovvero che grazie a Giggetto a’poltrona (Di Maio) il Movimento 5stelle poteva uscire dal governo senza farlo cadere mentre il “presente, non votante”, della Lega e di Forza Italia hanno messo Draghi con le spalle al muro.

 

 

Terzo problema culturale: la visione strategica

Rimane in sospeso l’enigmatico dubbio se Draghi è uno stratega raffinatissimo o un pessimo stratega.

Perché è incontrovertibile che la causa primordiale di questa crisi è stata la scissione di “Insieme per il futuro (di Luigi”, copyright di Di Battista).

Sapendo che Draghi ha commesso uno sgarbo istituzionale gravissimo (un Primo ministro “tecnico” che telefona a Grillo per chiedergli di rimuovere Conte, intervenendo politicamente sulle dinamiche interne di una forza della sua maggioranza) ci sono pochi dubbi che Giggetto a’poltrona, che non è certo un coraggioso, sia stato teleguidato nella sua scissione (forse sarebbe più aggiornato parlare di “dipartita”).

L’uscita dal Movimento di una sessantina di parlamentari, motivata dalla volontà di dare solidità e continuità al governo Draghi ha, in realtà ottenuto 2 chiari e innegabili risultati.

1. ha modificato gli equilibri interni al Movimento 5stelle tra chi voleva continuare l’esperienza di governo e chi voleva scappare dal governo Draghi, a favore di questi ultimi;

2.ha dato la libertà a Conte di uscire dal governo senza avere la responsabilità di far cadere il governo.

Un “combinato disposto” perfetto se in Draghi prevaleva la volontà di darsela a gambe, o gravemente infelice se invece voleva realmente rinforzare la stabilità del governo.

 

Quarto problema culturale
Nel bagaglio culturale del banchiere Draghi c’è la visione neoliberista dell’economia fatta di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, del disconoscimento del ruolo dello Stato nella gestione e produzione di beni e servizi, dell’abbattimento del
welfare e del taglio della spesa pubblica orientata solo alla creazione di infrastrutture.

Draghi parte bene, laureandosi con Federico Caffè nel 1970, anche se nella sua tesi boccia il cosiddetto Piano Werner, cioè il primo piano concepito in Europa per avere una moneta unica. Ma il nostro futuro banchiere dimostra subito una buona capacità nel cambiare idea, accodandosi a quella dominante.

Il professore Federico Caffè è stato uno dei più grandi economisti del secondo dopoguerra in Italia dove ha diffuso le teorie keynesiane.

Draghi ne diventa assistente. Caffè, nel 1971, gli fa ottenere una borsa di studio al Massachusetts Institute of Tecnology (Mit) dove insegna il premio Nobel Franco Modigliani.

Il keynesismo instillato da Caffè, piano piano sbiadisce. In quegli anni in America diventa vangelo la corrente di pensiero che va sotto il nome di “sintesi neoclassica”: Draghi vi aderirà per tutta la sua vita.

Cosa sostiene la teoria neoclassica?

Vediamo i principali punti

  1. il sistema economico è un processo direzionale che va della produzione al consumo (per Keynes è l’opposto);

  2. la distribuzione del reddito non è una questione politica e sociale ma meramente economica. Non c’è alcun surplus da ridistribuire visto che i diversi redditi che il processo economico assegna alle varie classi sociali non sono altro che la retribuzione del contributo che quel particolare ruolo dà al processo produttivo;

  3. si passa da una concezione oggettiva del valore e del prezzo a una valutazione soggettiva. Il valore di scambio di un bene non è più in funzione del suo costo di produzione ma del valore che gli attribuisce il consumatore;

  4. a rendere perfetta la determinazione dei prezzi ci pensa il mercato, attraverso l’incontro della domanda e l’offerta. Il mercato è una entità assolutamente razionale e provvede anche razionalmente a distribuire i redditi tra le varie classi sociali in base al contributo dato al processo produttivo.

  5. siccome il mercato è guidato dalla produzione si avrà la piena occupazione.

Tutte cose che non hanno funzionato.

Come l’uso spropositato della politica monetaria, e, privo della certezza dell’approccio neo liberista, è evidente il suo disagio verso misure di stampo keynesiano – come il bonus 110% – che in realtà hanno prodotto grandi benefici sulla ripresa economica (il 70% dell’aumento del Pil nel 2021) e sulle dinamiche del lavoro (oltre 600mila occupati).

Non lo capisce culturalmente, lo deve subire e lo aggredisce in modo strisciante, facendo bloccare la cessione dei crediti dal sistema bancario e cambiando di continuo le norme (11 cambiamenti in 17 mesi) per affossare la misura.

Così come la fede nel mercato regolatore razionale nella distribuzione dei redditi tra le varie classi sociali in base al contributo dato al processo produttivo gli rende “incomprensibile” appoggiare una misura come il salario minimo (che, appunto, non rispetta la regolazione del mercato).

E siccome “io sono io…”

L’economia non è una scienza matematica, ma prima sociale, poi filosofica e solo infine matematica.

Ogni misura favorisce alcuni ceti sociali e ne penalizza altri: occorre mediare e a questo serve la politica.

Ed è difficile perseguire una impostazione culturale economica fatta di concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi e nel disconoscimento del ruolo dello Stato nella gestione e produzione di qualsiasi bene e servizio quando le due principali forze politiche della propria maggioranza sono orientare a garantire il benessere della popolazione più debole (5 stelle) e delle piccole imprese (i ceti produttivi della Lega). Anzi avrebbero dovuto essere almeno tre queste forze, ma prima che il Pd concepisca qualcosa di sinistra sembra che molta acqua debba ancora passare sotto i ponti.