Leggo solo ora” Petrolio”. Ho sempre pensato fosse una potente arma contro la mediocrità del Potere.

Sento con asprezza il fascino del ” non finito”. Tutte le omissioni fatte di croci, i possibili ripensamenti in parentesi quadre, i dubbi chiusi in quelle tonde. Prendo le mosse da tutti questi ancestrali segnali.

E’ il tempo giusto per partire. Per andare via. Attraverso oceani pescosi di memorie, di perse idee, di onirici abbracci.

Parto per mare con lentezza solare. Chi disse “La velocità della luce non è misura di spazio ma di tempo”.

La mia barca è di carta turchese piegata nell’arte dell’origami, vi sono segnati continenti e isole che vorticano libere nel mio pensiero. Non turista del bello: questo è un viaggio di ritorno a casa, alla mia dimora, a tutte le ombre delle mie solitudini.

Sento, allontanandomi da terra, la voce di bambina vittima dell’indifferenza, della dimenticanza, dell’insolvenza.

Il luogo che lascio, inoltrandomi in una vasta landa, lieve come ricordi muti di Alzheimer, stretti negli occhi vuoti della malattia, è un paese senza più borghi di ardesia e tufo, né campi di grano e di papaveri, né alberi di querce e di carrubi. Questo paese non è il mio paese.

“Quell’odore di erba tagliata che ci addolcisce il cuore è l’odore acre della paura: è il prato che viene aggredito dalla falce.” Ora sappiamo che gli alberi e le piante soffrono, ce lo racconta con grazia il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso. Di nuovo la poesia fa l’occhiolino alla scienza.

Ho visto alberi affettati, ramo dopo ramo e ho sentito il loro dolore sulla mia carne. Non sono una botanica e quel fico secolare non sapeva nulla di me, eppure eravamo insieme nel corpo delle ferite.

Lacerati e persi nella stessa misura.

Amo le piante, così rigogliose e tenaci. Mi piace la loro vita tutta nascosta in misteriosi gesti, in regole non scritte, in simbolici segnali. Sono molto più vecchie di noi e conoscono segreti a noi ignoti.

Qui, in questo strano luogo di cemento e plastica, gli alberi sono solo u n ” fastidio”, molesti ricettacoli di animali, foglie secche e inutili “cime tempestose”. A nessuno importa che facciano da polmone alla Terra. “L’ossigeno è una cosa che sta dentro le bombole”.

Veleggio con la mia barchetta turchese verso mari noti. Ecco Capri, scendo sul porticciolo del “Lido delle Sirene” dove Titina e Costanzo Vuotto sorridenti mi accolgono. C’è un marinaio bello come un greco di Pitecusa che mi guarda ammirato. E’ quel colore bronzeo dovuto al sole estivo e il” biondo platino” dei capelli a trasformarmi in una “wikinga in Italia”, dentro quel guscio di noce azzurra.

Costanzo e Alfredo “cacciano” ricci di mare di color viola irti di spine. Titina versa vino ghiaccio in calici di cristallo sopra un enorme Zodiac che non è nostro. Il colore delle gonadi dei ricci è intenso e pieno di salsedine. E c’è un sole che dà senso alla vita. Il caldo è la sola cosa che conta. Non l’enfasi di climatizzatori appesi ai balconi delle città.

I merli si scambiano canti lontano nei boschi e nei giardini, chiacchierano come vecchie comari con voci d’incanto. E’ tempo di lasciare l’isola cobalto: ci sono strade universali dentro istmi e canali. Sono sola ormai: i miei compagni sono stati tutti mutati in pecore : insieme volevamo un mondo migliore, forte, gentile, rigoroso.

Nel caos che ho abbandonato ancora striscioni ricadono flosci da un lato della strada. Nessuno ci fa caso, gli occhi attratti solo dal piccolo schermo manipolatore. Occhi che guardano senza vedere.

Sguardi di cataratta, specchi rotti dell’anima.

Occhi blu di Alfredo, quei suoi occhi di ebreo convertito secoli addietro. Erano gli occhi eleganti di nobili pensieri; lo vedo guidarmi verso “Li Galli”, l’arcipelago delle Sirene, sotto Isca, l’isolotto di Eduardo, un po’ distante dall’isola a forma di delfino di Nureyev.

Cerco di rifugiarmi in un altrove inventato, dove solo la solitudine, la scelta di essere sola paghi il prezzo della propria libertà. Fuggo da un mondo in cui tutto viene certificato, “codificato”, ingabbiato in un “cul- de- sac” pieno di incomprensibili acronimi.

Attraverso l’azzurro della mia esile barca, il celeste puro degli occhi di Alfredo, la visione profetica di Pasolini, la “casta” voce di Maria Callas intravedo le vie impervie, ancora vergini, della conoscenza.

Lascio Scilla e Cariddi, doppio le Bocche di Capri aggredita da voci lontane di gabbiani in forma di Sirene.

Non “magano” più i viandanti ; Ulisse le ha smascherate: semplici uccelli marini sulle rupi della Baia di Ieranto.

Un caicco ci porta da Creta verso Gavdos, siamo con una signora e due galline. Delfini saltano giocano cantano intorno a noi. E’ una gioia guardarli…immagino che i 1500 delfini massacrati nelle isole Faroe, arcipelago danese, accoltellati a morte, accatastati sulla sabbia rossa del loro sangue, vengano a volteggiare accanto al nostro caicco in un loro personale viaggio di ritorno nell’oceano.

Quando navigo le vele sballottano, fileggiano nel vento, sono vele latine, bome, rande di mezzana, tagliavento e parrocchetti.

Sono al centro dell’Idrosfera. E’ il crepuscolo: il viaggio è alla fine. Lo spinnaker ha travolto il tempo e lo spazio in una corsa che ha smosso le nuvole che si sono scontrate vorticando verso un insolito nulla.

L’ oceano Astrale, il Sud della Terra. E’ ora di ammainare la vela. C’è bonaccia, calma a mare: mi lascio andare, stendo i muscoli. Tutto rallenta, come sopito.

In quel mare d’olio, in quel cielo di latte, nell’opale dell’aria sbuffa un acre odore di fumo: gli alberi secolari delle foreste pluviali bruciano. Intorno l’atmosfera si fa spessa, la vegetazione arsa non ha più voce. L’aria è irrespirabile, ferma, senza respiro né battito: pietrificata.

Come un bradipo la barca naviga lentissima e in lontananza, come amiche ritrovate, si intravedono isole di ghiaccio. Migliaia di bianche ed enormi montagne staccatesi dai loro antichi ghiacciai.

Un arcipelago semimovente…bellissimo. Non c’è più tempo.

Come Gordon Pym, vengo attratta da un vortice ribollente, con la mia imbarcazione turchese precipito in quel gorgo. Nella lucente profondità di un Rovelliano Buco Bianco, da cui, finalmente libera, riemergo con un Sapere Nuovo.