Chi mi conosce sa che il viaggio rappresenta per me un’occasione per conoscere non solo i luoghi, ma anche per approfondire le relazioni con le persone e le realtà vive. E’ quello che è successo anche durante l’estate appena trascorsa.

L’estate 2023 ha segnato per me nuovi ritorni in luoghi che ben conosco e frequento da molti anni, come la Borgogna, le Marche, la Sardegna. In questo breve reportage, che è anche una sorta di diario personale, mi soffermerò su alcune delle scoperte nelle due regioni italiane, Marche e Sardegna. Alle Marche sono stata “introdotta” dalla mia amica Maria Teresa, insegnante di inglese ora in pensione, viaggiatrice curiosa e instancabile, sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Ho passato in quella regione anche lunghi periodi in ogni stagione dell’anno per almeno 40 anni e in passato hanno rappresentato un sogno di trasferimento collettivo di un gruppo di 6-8 amici particolarmente affascinati dai ritmi di quei luoghi. Maria Teresa è nata in Offida, antico borgo tra le valli del Tesino e del Tronto (in provincia di Ascoli Piceno) racchiuso nelle mura del XV secolo, noto per l’arte del merletto a tombolo (alla quale è dedicato il monumento alle merlettaie all’ingresso della città), ma si era trasferita poco meno che ventenne prima a Venezia, per motivi di studio e poi a Milano, per amore e per lavoro.

Maria Teresa non era ancora mai stata in Sardegna (la regione da me “scoperta” solo da sei anni, ma che mi ha sedotta e incantata, fino all’”adozione” onoraria da parte di un gruppo di amici) e da qualche tempo ci proponevamo di fare un viaggio insieme in questa regione, progetto che si è concretizzato all’inizio di quest’anno. Per questo buon motivo, dunque, sono ritornata nelle Marche ad agosto, per raggiungerla e partire insieme verso la Sardegna.

Un salto nelle Marche”, mutuando il pay off social 2023

Nell’agosto 2016 Maria Teresa e io avevamo vissuto insieme l’esperienza del terribile terremoto, quello definito dall’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) come “sequenza sismica del 2016-2017 Amatrice-Norcia-Visso”, con epicentri tra i Monti Sibillini, l’alta Valle del Tronto, i Monti della Laga e i Monti dell’Alto Aterno. Ed è qui, nell’entroterra di San benedetto, che vivono gli amici agricoltori che portano avanti attività iniziate dai loro nonni. La bellezza e il piacere del ritrovamento, delle chiacchiere per aggiornarci sugli avvenimenti più recenti, si sposano, in genere, con la voglia di approfittare dei giorni da passare insieme per fare nuove scoperte sul territorio.

Quest’anno, grazie a un’informazione trovata su Instagram (non a caso!), siamo andati a cercare nelle campagne della provincia di Fermo, esattamente a Ponzano di Fermo, un luogo particolarmente mozzafiato, dove il giovane violinista Valentino Alessandrini si era esibito nel mese di giugno, la Madonna delle Cataste. Si tratta di un piccolo tempio circolare a otto arcate che sorge sulla riva del fiume Ete e che, come si racconta, risale agli anni ’20 quando alcuni contadini della zona hanno deciso di costruirlo a seguito di alcune presunte apparizioni della Madonna. Il tempio inizialmente, aveva anche un tetto che, a causa di un incendio, è andato perduto e nel corso del tempo era stato ricoperto dalla vegetazione e dimenticato. Negli ultimi anni, invece, la struttura è stata ripulita dall’amministrazione comunale ed è tornata a splendere e devo ammettere che la sua vista è davvero emozionante.

Questa scoperta mi ha riportata ad alcune considerazioni che avevo scritto in articoli precedenti sul tema della cosiddetta Italia minore: nei “viaggi autentici” degli ultimi decenni (realizzati sia grazie ad amici particolarmente attenti ai piccoli borghi sia a organizzazioni di turismo esperienziale) la ricerca costante di luoghi particolari, di piccoli musei, di espressioni artistiche della natura e dell’uomo, è diventata una vera costante.

Dalle Marche a Olbia attraverso l’appennino e il mare Tirreno

Maria Teresa e io una volta lasciate le Marche per raggiungere la Sardegna, quando siamo sbarcate a Olbia non abbiamo fatto altro che metterci in contatto con gli amici sardi che ci attendevano e che da ottimi conoscitori delle realtà territoriali della loro regione e particolarmente partecipi alla vita di comunità ci hanno aiutato a dedicarci a una serie di visite (per me alcune nuove) a strutture che possono senz’altro rientrare nella categoria dei “piccoli musei”, o meglio, delle “piccole perle”.

Visto il tempo a nostra disposizione – 15 giorni – si è trattato di un piccolo assaggio di un patrimonio ancora troppo poco conosciuto dai tanti “turisti” che ogni anno frequentano i 1.849 chilometri di costa di quella magica regione (seguita dalla Sicilia con 1.500 km e dalla Puglia con 829 km), ma che ancora troppo poco si interessano all’entroterra. Sarebbe importante capire che quando si parla di Sardegna non è solo di mare e di profumi della macchia mediterranea che si tratta, bensì anche del lavoro di tante persone che coraggiosamente decidono di non abbandonare l’isola, e anche del lavoro perduto delle importanti miniere che hanno fatto la ricchezza di alcune sue zone.

Strada facendo…

Tra i primi incontri delle cosiddette realtà minori nel nostro girovagare in Gallura abbiamo trovato il Museo Etnografico e quello del Banditismo di Aggius (http://www.museodiaggius.it/), una cittadina di 2000 abitanti e i suoi dintorni raccontati nel 1885 da Enrico Costa, nel libro “Il muto di Gallura” (1), dal quale è stato anche tratto un film uscito nel 2021. Piccoli gioielli trattati con grande cura e passione da personale locale, in genere giovane e molto giovane, che spesso opera per conto di cooperative di servizi turistici. A Luras, sempre in Gallura, in una giornata di pioggia battente, ci siamo imbattute, invece, nel Museo Etnografico Galluras (https://www.galluras.it/): si tratta di una struttura di cui Pier Giacomo Pala, cultore e appassionato di tradizioni popolari, è proprietario e curatore, avendo cominciato a raccogliere materiale etnografico all’età di dodici anni. Risale al 1981 l’acquisto di un bellissimo palazzotto nella via centrale del paese, di cui ha realizzato lavori di restauro conservativo e in cui nel 1996 apre il museo, dove sono esposti oltre 7000 reperti. Sempre nel 1981, venuto a conoscenza da un amico di Luras della pratica della “femina agabbadòra” (donna che praticava un’antica forma di eutanasia, un atto pietoso nei confronti del moribondo), ha iniziato la sua ricerca su quest’argomento che lo porterà al ritrovamento nelle campagne circostanti del martello utilizzato per questa pratica. Ricordo che una testimonianza di questo tipo di figura è stata magnificamente raccontata da Michela Murgia nel suo più celebre romanzo, dal titolo “Accabadora”. (2)

Nelle varie escursioni nel territorio tra Tempio Pausania, Aggius e il Monte Limbara ci siamo imbattute nella Valle della Luna di Aggius che, come riporta un articolo del Touring Club “Per i naturalisti delle Università sarde è un ‘unicum’, raffrontabile con poche altre aree similari nella penisola e nel continente europeo. Ma le fogge strane e bizzarre delle emergenze granitiche che la caratterizzano, la loro diffusione all’interno di un’ampia conca racchiusa da una corona di creste anch’esse granitiche, cangianti al mutar della luce nell’arco della giornata, le conferiscono una certa spettacolarità, e un aspetto di forte suggestione anch’esso unico e singolare…” Si tratta di un territorio pianeggiante non uniforme, in piena armonia con la morfologia dell’altopiano gallurese circostante, circoscritta da una serie di colline arrotondate, dalle frastagliate cordigliere del Resegone di Aggius e dal massiccio di Pulchiana. E anche se utilizzare l’auto non è il più ecologico dei sistemi di trasporto, questo diventa fondamentale in una regione come la Sardegna e soprattutto se si vuole passare di sorpresa in sorpresa, prendendo anche sentieri non particolarmente segnalati, ma che possono condurre a visioni davvero straordinarie, come la Foresta Pietrificata di Martis, nella subregione dell’Anglona, una delle più antiche. Nelle campagne di questo paese si trova questa incredibile realtà, che pare risalire al periodo del Miocene inferiore, circa venti milioni di anni fa. La particolarità di questa foresta risiede nella conformazione e nelle dimensioni dei tronchi d’albero e, in effetti, vedere in diretta lo spettacolo di questi grandi tronchi, alcuni dei quali ammassati, è molto emozionante, considerando che la rarità consiste proprio nell’essere così grandi, così integri e così numerosi.

Nostra Signora di Tergu (piccolo borgo dell’Anglona, a 35 chilometri da Sassari, nel nord-ovest della Sardegna) è stata una delle ulteriori sorprese che ci ha fatto battere il cuore: si tratta di una delle maggiori espressioni dell’architettura romanica. La chiesa emerge con la sua maestosità dal verde della natura con la sua policromia, data da cantoni di trachite rosso-violacea e da decorazioni in calcare bianco. L’origine romanica è stata rivisitata da vari restauri, in un millennio di vita, in forme gotiche e barocche. Infatti, la chiesa era stata edificata nella seconda metà dell’XI secolo per volontà della famiglia giudicale di Torres, ampliata nel secolo successivo come abbazia benedettina (citata anche nei documenti di Montecassino, dal 1122). Insieme al monastero, del quale si vedono i ruderi, fu sede del priorato cassinese.

Nel viaggio di trasferimento dalla Gallura al Medio Campidano non abbiamo potuto sottrarci al fascino della S.S. Trinità di Saccargia, probabilmente la più famosa e scenografica chiesa romanica della Sardegna che si trova nel nord-ovest, vicino a Sassari, vicino a un’uscita delle famosa statale 131 (la Carlo Felice), accostabile per perfezione e veste bicroma a chiese umbro-toscane simili. La sua mole imponente domina la piana di Saccargia, nel territorio di Codrongianos e il campanile scuro svetta in una verde vallata e vederlo da lontano provoca già una prima grande emozione, alla quale fanno seguito le altre, quando si arriva al portico e alla facciata.

Nella sosta a Bosa, in provincia di Oristano, abbiamo approfittato del clima gradevole e ventilato per gironzolare tra i viottoli della città nota per le sue case colorate fino ad arrivare al Castello dei Malaspina, ma non abbiamo avuto il tempo per visitare il Museo delle Conce (da me scoperto lo scorso gennaio) che rappresenta un vero unicum di archeologia industriale dell’industria conciaria in Italia, essendo l’altro Museo delle Concerie di Santa Croce sull’Arno (Pisa) ormai chiuso. Nella visita guidata di allora avevo appreso un pezzo di storia che narra di un’economia di sussistenza, in cui si faceva tesoro di tutto, un vero esempio di economia circolare ante litteram. Il Museo si trova sulla riva sinistra del fiume Temo, nel quartiere “Sas Conzas”, negli edifici delle concerie. Al tempo del massimo splendore erano 30 gli opifici attivi, ma progressivamente l’attività si è ridotta fino a cessare nella seconda parte del XX secolo sia per l’insalubrità del processo produttivo sia per l’incompatibilità con la nuova vocazione turistica della città.

Il Medio Campidano tra mare e storia

Nella zona che in questi sei anni ha fatto da base per i miei soggiorni in Sardegna il comune di Arbus, nella provincia del Sud Sardegna, è quello al quale afferiscono i 47 chilometri di costa (o 52, secondo i diversi calcoli) pressoché incontaminata e particolarmente appartata chiamata Costa Verde, dove si trovano le Dune di Piscinas e dove si possono trascorrere giornate intere, praticamente in perfetta solitudine anche in piena stagione, prendendo il sole, nuotando, facendo snorkeling, surf o semplicemente camminando. Ma non è di questo che voglio parlare ora. Perché anche Arbus possiede due piccoli musei di pregio, che vale la pena conoscere, anche se per sommi capi.

Il Museo di Arti e Mestieri Antonio Corda (https://museocorda.it/) ha sede presso un’antica abitazione risalente ai primi anni dell’800, situata nel centro storico della cittadina, e occupa una superficie di oltre 600 metri quadrati, con un’esposizione distribuita su tre piani. La ristrutturazione del museo, costituito da due immobili confinanti, ha richiesto 15 anni e oggi i due immobili sono uniti tra loro da una passerella al secondo piano e da un cortile interno al piano terra che costituisce la corte dell’intera struttura museale, con ambienti intercomunicanti tra loro. La prima abitazione dell’800 conserva ancora, al piano terra, le originali forreddas (gli antichi fuochi per cucinare), un forno per cuocere il pane, due caminetti, un piccolo spazio (con nicchia e una sorta di lavandino) per conservare le brocche d’acqua e per l’igiene personale, le porte di legno e i pavimenti realizzati con le cementine, ma all’interno delle due case non è stato trovato alcun oggetto particolare, tranne una vecchia mola asinaria rinvenuta spezzata nella prima abitazione, che Antonio Corda ha in parte ricomposto e che si trova ancora nel cortile del museo. Ed è questa la particolarità di questo museo: la passione di Antonio Corda che ha raccolto negli anni reperti di oltre 50 mestieri antichi della Sardegna, potendo così offrire ai visitatori una notevole panoramica di attrezzi che raccontano storie secolari di materiali e mestieri che costituiscono l’identità dei luoghi. Un’altra storia strettamente legata a una persona, un artigiano dei coltelli, è quella del Museo del Coltello (https://museodelcoltello.it/il-museo/). Il Museo del Coltello Sardo si trova a pochi passi dal Museo Corda, ed è stato realizzato da Paolo Pusceddu, mastro coltellinaio titolare della Coltelleria Arburesa, nei locali di una vecchia casa adiacente al suo laboratorio. Anche Paolo per anni ha ricercato e raccolto pezzi di storia della coltelleria decidendo di trasformare questi locali in luogo di conoscenza collettiva, organizzato in quattro sale. Al suo interno è possibile vedere sia coltelli antichi (persino alcuni del XVI secolo) sia i coltelli più rappresentativi dei coltellinai sardi contemporanei. Tra i coltelli esposti sono presenti vere e proprie opere d’arte che rappresentano la fauna sarda: coltelli con manici in corno, di ogni forma e colore, intarsiati e scolpiti in forma di cervo, cinghiale, muflone e aquila. Una sala è stata allestita riproducendo un antico laboratorio di un fabbro (“su ferreri”), con gli arnesi originali del secolo scorso e durante la visita è possibile vedere alcuni bei filmati dedicati alle fasi e alle tecniche della costruzione del coltello. Per gli amanti dei Guiness dei primati, nel museo si trovano anche due coltelli entrati nella classifica per le loro eccezionali dimensioni.

Tra le bellezze inaspettate ci siamo trovate a visitare l’ipogeo della chiesa di San Salvatore, piccolo borgo della Penisola del Sinis (più nota per il sito archeologico di Tharros), in provincia di Oristano. È localizzato al di sotto della chiesa, vi si accede attraverso una scalinata ed è qui il grande colpo d’occhio: si tratta di una serie di ambienti scavati nella roccia nella parte inferiore e costruiti con filari di laterizi alternati a filari di conci nella parte superiore. Al termine di un corridoio si trova un piccolo ambiente circolare a cupola con un pozzo. L’impianto di questo ipogeo dovrebbe risalire al IV sec. d.C., epoca alla quale viene attribuita anche gran parte delle pitture e delle iscrizioni (pitture in nero raffiguranti divinità ed eroi della tradizione classica, come Venere, Marte, Pegaso, Proserpina, Ninfe, Ercole in lotta con il leone nemeo e altre figure ancora. La cosa interessante è che queste raffigurazioni vengono collegate ad un culto salutifero connesso con quello delle acque, che ritroveremo anche in altre visite e scopriremo che la Sardegna è piena d’acqua anche nei territori interni!!

Il Museo e l’area archeologica di Sardara, comune di circa 4000 abitanti del Sud Sardegna più noto per le sue terme, accoglie dal 1997 i visitatori con la sua raccolta di reperti che vanno dal medioevo al periodo dell’Impero e della Repubblica di Roma, fino alla civiltà punica e all’epoca preistorica, quella nuragica e prenuragico. La provenienza principale è dal territorio urbano ed extraurbano di Sardara, ma anche da siti posti lungo la Statale 131. Si trova poco lontano da un pozzo sacro, quello di Sant’Anastasia (meglio conosciuto dai sardaresi col nome di Sa funtana de is dolus, ossia la fonte dei dolori in sardo), un monumento nuragico situato nel centro abitato e antistante all’omonima chiesa e che racchiude attorno a sé una vasta area archeologica ancora mai scavata e che potrebbe in futuro portare delle sorprese. E per non perdere l’opportunità, sulla strada verso l’imbarco a Porto Torres, ci siamo anche fermate all’area archeologica di Santa Cristina, che si trova nel comune di Paulilatino, in provincia di Oristano, fuori dal centro abitato ma a pochissimi metri da un’uscita della 13. Qui si possono vedere, apprezzare e godere il santuario nuragico di Santa Cristina, un pozzo sacro con caratteristiche costruttive particolari e un villaggio nuragico composto di due aree, più uno ancora da scavare, di cui sono visibili solo alcuni elementi affioranti. Il tutto prende il nome dalla chiesa campestre con novenario, appunto di Santa Cristina, che si trova esattamente nello stesso meraviglioso parco di ulivi, olivastro e altre tipici alberi della flora sarda.

10 settembre: una giornata particolare con i minatori dell’Associazione “Sa Mena”

Per quanto riguarda la vastissima area di archeologia mineraria di Montevecchio, che si trova tra i comuni di Guspini e di Arbus, nel Medio Campidano vorrei soffermarmi sull’ultima giornata passata lì, il 10 settembre, ancora una volta in occasione della giornata regionale dei lavoratori delle miniere, la XIV. Si, perché vorrei ricordare anche che il primissimo servizio giornalistico per Caos Management sulla Sardegna – e sulle miniere di Montevecchio in particolare – era stato scritto a quattro mani con Iride Peis, maestra in pensione e narratrice del territorio conosciuta durante la giornata regionale dei lavoratori delle miniere – il 10 settembre 2017 – promossa dall’Associazione “Sa Mena” (La Miniera, http://www.associazionesamena.com/) con il patrocinio dei comuni di Arbus e Guspini, e del Parco Geominerario della Sardegna. Era stato grazie a quei contatti, ai numerosi libri scritti da Iride e alle varie ricerche che mi sono state proposte che ho potuto scoprire e condividere con i lettori pezzi di storia del nostro paese (perché la Sardegna è territorio italiano), che dovrebbe essere ricordata con maggiore attenzione.

Dopo i saluti delle autorità presenti e le tradizionali premiazioni (un premio è andato anche a Iride Peis, nominata dai Lions di Cagliari Donna Sarda dell’anno lo scorso 8 marzo) il fulcro della mattinata è stata una ricostruzione documentata di alcuni fatti storici epocali, preceduta dalle parole del presidente, Ugo Atzori, che ha ricordato la necessità di mantenere viva una cultura della partecipazione, fatta non solo di ricordi ma anche di azioni concrete per far rivivere un ambiente che dal 1848 ha permeato gran parte del territorio guspinese e arburese, fino all’iglesiente.

Lo spunto proposto da Maurizio Onidi, vice-direttore de La Gazzetta del Medio Campidano (che mi ha fatto l’onore di chiedermi di introdurre la sua presentazione!), è stato il tema “1949-1961: dodici anni di patto aziendale a Montevecchio”. Un’occasione importante per ripercorrere, grazie alle ricerche fatte presso gli archivi di Iglesias, le fasi e il clima repressivo che hanno caratterizzato quegli anni. E’ stato presentato un documento riservato inviato dall’allora direttore della miniera al Prefetto per informare dettagliatamente sulla situazione dei lavoratori e anche sulle loro posizioni sindacali e politiche.

Un clima che richiamava tempi molto bui, nello stile “non disturbare il manovratore”, che oggi riecheggia nuovamente troppo spesso, il cui epilogo – ricordato da tutti – era stato l’occupazione dei pozzi da parte dei lavoratori e il successivo abbandono il giorno di Pasqua del 2 aprile 1961, quando i minatori erano riusciti ad ottenere l’abolizione del Patto Aziendale e l’avvio di nuove modalità di gestione delle relazioni industriali. Purtroppo però, per le varie vicende dell’industria mineraria italiana (e non solo) nel maggio 1991, con l’interruzione della produzione nell’ultimo cantiere aperto, l’esperienza mineraria delle le miniere di Montevecchio si sono concluse, dopo 143 anni dall’ottenimento della Concessione Mineraria.

Bibliografia

  1. Enrico Costa, Il muto di Gallura (Racconto storico sardo), Milano, 1885, Brigola; Nuoro, 2019, Edizioni Il Maestrale;

  2. Michela Murgia, Accabadora, Torino, 2009, Giulio Einaudi Editore

 

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