Per quest’intervento devo, e voglio, ringraziare Giuseppe Monti, per me, da oltre venti anni, Geppino.

Dapprima mi affascinò con le sue spiegazioni sulla gestione del caos, il caos management, finalizzato a generare, come dicevano i latini, molto prima dei massoni, Ordo e chao (dal caos generare l’ordine) in un ciclo di continui cambiamenti ed adattamenti per poi introdurmi alla Strategia dell’oceano blu, introdotto nella letteratura manageriale da da W. Chan Kim e Renée Mauborgne.

In questi venti anni ciò che ha accumunato tutte le conversazioni avute con Geppino, oltre al tono appassionato, potremmo dire dolcemente “incazzato”, è stata la sua determinazione a concentrare la mia attenzione sempre sul senso, sullo scopo di quello in cui, con la pratica o con la teoria, mi coinvolgeva.

Ed è per questo che oggi, in sua memoria, parleremo di concetti semplici: di felicità, di morale e di etica, di responsabilità, di agire e di fare.

L’obiettivo della comunità, dell’agire sociale, dovrebbe essere di creare ambienti sereni per persone felici. L’economia non dovrebbe essere l’”economia del profitto”, votata a creare ricchezza e benessere per poche persone in perenne competizione contro gli altri, ma una “economia della felicità”, indirizzata a creare benessere e tranquillità per tutti gli esseri viventi, uomini, animali, natura.

Una felicità che nasce sconfiggendo l’infelicità delle disuguaglianze, non quella felicità posticcia che si vorrebbe insegnare ad anime flebili le cui ricette trovano spazio sui banchi delle nostre librerie e ospitalità nelle rubriche del cuore.

Un marketing della felicità solo verbale.

Che successo avrebbe avuto il libello di Epicuro Lettera sulla felicità se l’editore l’avesse pubblicato con il suo titolo originale Lettera a Meneceo?

La felicità, è evidente, attrae gli uomini ma non si conosce la forma o il suo contenuto; la felicità si definisce come quell’istante in cui lambisce la vita che si riconosce come stato abituale di infelicità. La felicità come negazione, o liberazione, dall’infelicità.

 

Secondo Armando Torno (“L’infelicità”, Mondadori 1996)

«L’infelicità assomiglia allo zero della matematica: annulla tutto ciò che si accoppia con lei, non accetta di essere divisa (…) Lo zero è paragonato al nulla, ma a seconda del posto che occupa fa esplodere le cifre, o le umilia. Difficile da spiegare, ma sempre presente: come l’infelicità, appunto.»

Nella tradizione giudaico cristiana la conoscenza è dolore (“molta sapienza, molto affanno: chi accresce il sapere accresce il doloreEcclesiale 1,18) contrastando con la convinzione classica greca per la quale il dolore èerrore della mente (Eschilo), giacché nel fissare le mete della felicità, l’uomo guarda a sé stesso come un tutto e non come parte del tutto.

Mettendo in primo piano la particolarità della propria prospettiva piuttosto che lo sguardo sul tutto, l’uomo scambia la miopia del suo desiderio con il senso dell’esistenza. In questo “errore della mente”, errore di prospettiva, crea le condizioni della sua infelicità, o non-felicità

L’Occidente non ha appreso il messaggio della tragedia greca promuovendo un uomo che anteponendo le esigenze del suo Io ha innescato quel desiderio infinito, quell’eccesso di desiderio che, come ha spiegato Sigmund Freud, è macchina di dolore.

Il capitalismo e, in particolare la forma vincente del capitalismo di questi ultimi trent’anni, il neoliberismo, è un manifesto dell’egolatria che produce disuguaglianze e non riesce a produrre una felicità della comunità.

Il tramonto della politica

La politica è sostanzialmente una cosa recente, essendo stata inventata da Platone. Prima della politica c’era la tirannide e il potere divino “transumato” nel tiranno.

 

Ascoltando Giacomo Marramao (“Dopo il Leviatano”, Bollati Boringhieri);

«La politica appare come un sovrano spodestato, che si aggira tra le antiche mappe dello Stato e della società, rese inservibili perché non rimandano più alla legittimazione della sovranità.»

Concentrata nella raccolta e la rappresentazione delle identità, delle passioni, della loro apparenza, oggi la politica non è più luogo della decisione, almeno di quelle che vengono definite le decisioni politiche, ovvero strategiche.

Come rende evidente il premier Meloni che mentre si ridicolizza mimando esercizio di autorità e proclamando la forza del proprio potere e dell’autonomia delle proprie decisioni, rinnega tutti i valori che l’hanno portata al potere per piegarsi alle direttive degli Stati Uniti d’America e dell’Unione europea, circondandosi di parenti per sperare di puntellare la sua inconsistenza politica e culturale.

La politica oggi per decidere deve guardare all’economia, e l’economia per decidere i suoi investimenti guarda a sua volta alle disponibilità e alle risorse tecnologiche.

La politica è diventata la rappresentazione della decisione e non più il luogo della decisione.

Ma, come ci ricorda Platone (Politico) le tecniche sanno come si devono fare le cose, ma non sanno se quelle devono essere fatte e perché devono essere fatte.

Se dalla politica passiamo all’etica, è evidente che l’arbitrio dell’economia e l’esplodere della tecnica pongo dei problemi che esigono delle decisioni morali. Ma con quale morale?

Quella del profitto di pochi o quella della felicità della comunità?

In Occidente abbiamo conosciuto sostanzialmente tre morali: la morale cristiana, la morale laica, la morale della responsabilità (Umberto Galimberti, Monza 1942) .

La morale cristiana.

Grandiosa, è alla base dell’intero ordine giuridico europeo.

E’ la morale dell’intenzione, per giudicare una persona si valuta l’intenzione che ha promosso la sua azione. L’etica dell’intenzione nell’era neo liberista non è di granché utile. Se l’intenzione di un provvedimento è di migliorare il benessere della popolazione e poi finisce solo nell’arricchire le tasche di pochi il giudizio morale si esaurisce sulla valutazione della buona volontà.

La morale laica.

Per sintesi potremmo definirla prendendo a prestito una bella proposizione di Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804)

«L’uomo va trattato sempre come un fine, mai come un mezzo»

E’, anch’essa, una morale dell’intenzione pur prescindendo da qualsiasi riferimento teologico.

La morale laica non ha mai avuto modo di realizzarsi.

Nella nostra cultura l’esistenza dell’uomo è giustificata in quanto funzionario di un apparato o produttore di qualche cosa. Nelle organizzazioni capitaliste l’uomo è una “risorsa umana”, non un fine.

L’esistenza di un immigrato con i suoi bisogni primari non legittima la sua presenza nel nostro Paese, che viene riconosciuta solo se, e quando, legata a qualche funzione produttiva.

Come aveva lucidamente intuito Karl Marx (“Die revolution von 1848 und das Proletariat, 1866):

«Il risultato di tutte le nostre scoperte e del nostro progresso sembra essere che le forze materiali vengono dotate di vita spirituale e l’esistenza umana avvilita a forza materiale (…) l’uomo diventa schiavo dell’uomo o schiavo della propria infamia.»

La morale laica non aiuta una società neo liberista: è semplicemente guardata con sufficienza e ignorata, anche a parole. Il fine non è l’uomo ma il profitto (meglio se per pochi).

 

La morale della responsabilità

Agli inizi del secolo scorso Maximilian Karl Emil Weber (Erfurt 1864 – Monaco di Baviera 1920) ha teorizzato una morale successivamente sviluppata da un discepolo di Heidegger: Hans Jonas (Mönchengladbach 1903 – New York 1993).

Si tratta della morale della responsabilità che il sociologo tedesco contrappone alla morale dell’intenzione perché, spiega Weber, noi non dobbiamo guardare alle intenzioni con cui gli uomini compiono le azioni, bensì gli effetti delle azioni stesse, “finché gli effetti sono prevedibili”.

Purtroppo è caratteristica propria dell’economia di una società altamente tecnologica, complessa e interconnessa produrre effetti imprevedibili.

Dall’agire al fare

Improvvisamente una profonda mutazione antropologica si affaccia sulla società moderna. “Improvvisamente” sappiamo che non è una categoria né sociale, né storica perché ogni cambiamento è il risultato di un lungo processo che, questo sì, improvvisamente, emerge e si riconosce.

Per alcuni studiosi la data è quella della Seconda Guerra mondiale.

La mutazione antropologica è il passaggio dall’agire al puro e semplice fare. Agisco quando compio delle azioni in vista di uno scopo, faccio quando eseguo bene il mio mansionario prescindendo dagli scopi finali che non conosco o dei quali non mi sento responsabile.

Nel corso del processo di Norimberga, così come in quello di Otto Adolf Eichmann (Solingen 1906 – Ramla 1962), così incisivamente raccontato da Hannah Arendt (Eichmann in Jerusalem), quando i criminali nazisti catturati venivano interrogati sulle responsabilità delle loro azioni la risposta che fornivano era sempre la stessa: «Mi sono limitato a eseguire degli ordini».

Il nazismo è il contesto sperimentale in cui si è passati dall’agire al fare, dall’assunzione di responsabilità in merito agli scopi finali in cui consiste l’agire, alla pura assunzione della buona o della cattiva esecuzione del proprio mansionario: puro e semplice fare.

Franz Stangl, direttore del campo di concentramento di Treblinka, interrogato su come facesse a sopprimere cinquemila persone al giorno e che sentimenti provava, non riusciva a capire le domande e continuava a ripetere la stessa litania: arrivavano tremila persone alle undici del mattino che dovevano essere soppresse entro le tre del pomeriggio perché ne sarebbero sopraggiunte altre duemila da sopprimere il mattino successivo.

Il metodo l’aveva ideato Wirth

«e funzionava. E dal momento che funzionava era irreversibile. Eseguirlo era il mio lavoro.»

Quello era il suo “lavoro”, di altro non era responsabile.

Dall’agire al fare. Dall’efficacia all’efficienza.