La serie tratta dall’omonimo romanzo di Stefania Auci sembra presentare una solida struttura narrativa sin dai primi episodi disponibili su Disney +. Paolo Genovese, regista esperto, si dimostra abile nel bilanciare l’attrattiva per il pubblico con una narrazione ricca di contenuti. In questo esordio seriale, Genovese non solo dirige ma agisce anche come produttore creativo, sviluppando otto episodi per raccontare l’ascesa della famiglia Florio nella Sicilia dell’Ottocento fino all’Unità d’Italia del 1861.

L’inizio introduce i fratelli Paolo e Ignazio Florio, due figure contrapposte: uno autoritario e deciso (interpretato magistralmente da Vicinio Marchioni), l’altro più sensibile e compassionevole (portato in vita da Paolo Briguglia). Partendo come mercanti di spezie, lasciano la Calabria alla ricerca di una vita migliore e trovano in Sicilia l’opportunità di aprire una bottega che, con abilità, si trasforma in un fiorente business. La madre, Giuseppina, interpretata prima da Ester Pantano e poi da Donatella Finocchiaro, tiene saldamente le redini di una famiglia che vede in Vincenzo, giovane e dalle idee rivoluzionarie, il futuro del loro impero. Michele Riondino dà profondità al personaggio di Vincenzo, enfatizzando la sua sete di potere e successo. L’amore fa la sua comparsa sotto le sembianze di Giulia Portalupi, interpretata da Miriam Leone. A partire dal terzo episodio, la coppia Riondino-Leone assume un ruolo centrale, catturando l’attenzione dello spettatore.

L’originalità della loro relazione, estremamente moderna per l’epoca, è riassunta nella frase “Non posso sposarti, ma non posso fare a meno di te”. Tuttavia, il cuore pulsante de “I Leoni di Sicilia” dovrebbe essere, come nei primi due episodi, il racconto dell’ascesa di generazioni partite da zero, impegnate a trasformare il Sud in una regione ricca di inventiva, lavoro e prosperità. Tuttavia, vi è il rischio che l’accentuarsi della passione tra i protagonisti possa sacrificare questa narrazione epica, concentrando l’attenzione su una trama romantica più convenzionale.

Se c’è una cosa che è indubitabilmente apprezzabile in I Leoni di Sicilia è la potenza visiva di questa serie. Merito di una terra bella come poche al mondo, certo (elenco delle location), ma merito anche della regia e della fotografia, in cui in alcune scene è evidente l’ispirazione – e l’aspirazione – del Gattopardo di Visconti. Gli interni e gli esterni, sia quando ostentano sfarzo sia quando non nascondono la miseria, sono sempre mozzafiato, a volte forse quasi troppo. Come abbiamo trovato eccessivi alcuni dialoghi, in cui ogni singola frase sembra una sentenza da mandare a memoria, per una solennità a volte stucchevole in dialoghi magari brevissimi.

La serie segue lo stesso andamento avvincente del libro, ma lo fa alternando i piani temporali e mischiando, soprattutto in apertura, tempo presente e passato. Vinicio Marchioni e Paolo Briguglia, Paolo e Ignazio Florio, sono il fascino e l’eleganza di questa serie. Ester Pantano è una meravigliosa Giuseppina, moglie di Paolo, donna che ha sacrificato tutto per il bene della famiglia. Il dolore nel volto, in quelle occhiate così taglienti, è portatore di sventure e incapace di farle godere il frutto dei sacrifici di tutti. Tutto questo la rende, in questi primi tre episodi, probabilmente il miglior personaggio della serie. Altrettanto si può dire di Miriam Leone a cui tocca il ruolo di Giulia Portalupi, la donna che farà impazzire il Vincenzo adulto, interpretato da Michele Riondino, completamente a suo agio nella parte.

Ciò nulla toglie all’interpretazione di tutto il cast (cast completo), convincente nei ruoli principali come in quelli secondari, al netto di qualche sbavatura dialettale per chi conosce bene siciliano e calabrese. Alcuni personaggi forse meriterebbero maggiore approfondimento, ma non si può fare un bilancio prima della fine della stagione.

Non pienamente convincente ci è parsa la colonna sonora, in cui si alternano canzoni moderne – di cui abbiamo apprezzato l’azzardo, per quanto certamente non inedito – e certe musiche che sembrano appesantire la scena più che esaltarla. In alcuni passaggi abbiamo ravvisato sonorità che sembravano quasi rispondere agli stereotipi sulla Sicilia e l’Italia, e non è un’impressione limitata a questo ambito.

Perché nonostante i grandi pregi che è doveroso riconoscerle, questa serie ci ha anche dato l’impressione di essere un prodotto che “osa” poco. E non ci riferiamo alla mancanza di scene di grande sensualità, che ci sono, quanto più in generale a una narrazione che sa di tradizionale, quasi di fiction televisiva più che di serie tv italiana moderna. Forse questo effetto è dovuto alla volontà di rendere I Leoni di Sicilia un prodotto appetibile anche sul mercato estero, un “classico” all’italiana. Il rischio invece è di fare al contrario un prodotto “troppo italiano”, per dirla alla Stanis di Boris. La serie sembra, comunque, in grado di catturare il turbinio dei sentimenti contrastanti dell’epoca: ambizione, invidia, disprezzo, desiderio di riscatto e inevitabile conflitto sociale, offrendo uno sguardo coinvolgente e suggestivo sulla società dell’Ottocento.

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A MURDER AT THE END OF THE WORLD CI RACCONTA MOLTO DELL’IA

 
 
 
 
 

Tempo di bilanci ed invece Disney+ tira fuori un carico pesante come A Murder at the End of the World, che viene dalla mente di Brit Marling, che con The OA, uscito tra il 2016 e il 2019 su Netflix, aveva fatto molto parlare di sé ma soprattutto aveva diviso enormemente il pubblico per il gioco che aveva messo in piedi con gli spettatori. Ora Brit Marling, aveva una grossa responsabilità: tornare con un nuovo prodotto che rischiasse di dividere ancora una volta il pubblico, ma anche che lo sorprendesse.

Nella sua nuova serie, in onda  dal 14 novembre su Disney+ in contemporanea con gli USA, ha scelto di abbracciare un genere generalmente amato – e di recente tornato in auge, pensiamo a Only Murders in the Building – come il giallo, e di utilizzare una protagonista emergente ma già molto conosciuta e apprezzata come Emma Corrin (la giovane Diana di The Crown). Il risultato? Qualcosa di forse più canonico, che può ricordare certe trame di Agata Christie,  ma che non manca assolutamente  di sorprendere e di rivelare una grande attenzione tanto nella scrittura quanto nella regia.

Darby Hart è una giovane donna della Gen Z dai mille talenti. È una scrittrice di avvincenti romanzi gialli di genere true crime, un’instancabile e determinata investigatrice alle prime armi, un’abile hacker ed esperta di tecnologia. Nonostante non sia brava nell’intraprendere e affrontare relazioni con i vivi, Darby è in grado di “parlare con i morti”, o meglio, ha il dono di indagare sulle loro vite studiando ogni minimo dettaglio legato alla loro scomparsa. Ed è probabilmente per tutte queste sue qualità che, una sera, il criptico e solitario miliardario “re della tecnologia”, Andy Ronson (Clive Owen), decide di invitarla a un esclusivo ritiro in una remota e indicibile località insieme ad altri otto geniali e creativi ospiti tra scienziati, attivisti, filmmaker di fama ed il suo ex, l’artista Bill Farrah (Harris Dickinson). La missione del ritiro è quella di escogitare un piano per affrontare l’imminente fine del mondo, causata dalla crisi climatica, e salvare l’umanità. Non potendo fare a meno di accettare quest’occasione elitaria, Darby parte per questo lontano luogo sconosciuto, che solo dopo scoprirà essere in Islanda, dove sarà accolta da Andy e dalla moglie Lee (proprio Brit Marling), una delle più grandi programmatrici e hacker. Ma la morte sembra perseguitarla e, dopo sole poche ore dal loro arrivo, uno degli ospiti viene trovato inspiegabilmente deceduto. Mentre tutti sembrano voler avvalorare la tesi di morte per overdose, Darby decide di iniziare le indagini per dimostrare che si tratta di un omicidio, cercando di trovare il colpevole prima che faccia altre vittime. Darby ovviamente non è convinta sia un incidente e iniziare ad indagare provando a non destare sospetti, mentre il rischio di finire nello sviluppo di Dieci piccoli indiani è molto alto. Un luogo dimenticato dal mondo, una tempesta che blocca l’arrivo della polizia e costringe tutti i sospettati sotto lo stesso tetto, le difficili comunicazioni con l’esterno perché sono stati ritirati loro tutti i device: tutte caratteristiche del giallo da camera che rendono claustrofobica e appassionante la visione – nonostante la durata eccessiva dei sette episodi, ma almeno coerente l’uno con l’altro rispetto a The OA – in cui i vari cliffhanger di fine puntata accrescono la curiosità sullo scoprire il colpevole ma anche le motivazioni dietro un gesto tanto efferato. Siamo in piena atmosfera del genere “whodunit”.

Il cast di A Murder at the End of the World è stato perfettamente radunato accanto a Emma Corrin, che brilla confermando il proprio talento nel ritrarre questa ragazza che sembra più a proprio agio coi morti che con i vivi e, come spesso capita ai detective (ufficiali o dilettanti che siano), rischia di finire fagocitata dai casi a cui si appassiona e che vuole seguire a tutti i costi. Vari volti più o meno conosciuti del cinema e della serialità come Harris Dickinson, Alice Braga, Joan Chen, Raúl Esparza, Jermaine Fowler, Ryan J. Haddad, Pegah Ferydoni e Javed Khan sono invece gli altri otto ospiti dell’hotel sperduto nel nulla.

La serie infatti coglie l’occasione per modernizzare il genere senza tempo del giallo costruendoci un sottotesto e una sottotrama dedicata all’intelligenza artificiale, al ruolo dello sviluppo tecnologico nelle nostre vite e nelle indagini. Detective e hacker sono due figure solo apparentemente non sovrapponibili e che mostrano come si possa sentirsi contemporaneamente parte di qualcosa di più grande ed importante ma anche estremamente soli. Quel alla fine del mondo del titolo potrebbe essere interpretato anche come qualcosa di apocalittico, ed in effetti è sul tema del cambiamento climatico e di cosa lasceremo alle nuove generazioni che sembra concentrarsi principalmente e spendere tutte le proprie energie e risorse il personaggio di Andy, che sembra prepararsi ad un’Apocalisse. L’ossessione per il true crime viene resa come una dipendenza, come anche quella per la tecnologia, anche attraverso un vecchio caso che coinvolge la protagonista in alcuni flashback che in parallelo a quanto accade al ritiro ne mostrano gli elementi in comune. Pur viaggiando sulle orme del genere classico riesce davvero ad attualizzarlo in maniera forte, sia nel ruolo femminile della protagonista sia nel confronto con le tecnologie più avanzate,  molto attenta ad una cattura tattile e multisensoriale attraverso scenografia e regia.