Sappiamo che uno dei problemi più gravi che affliggono la Rete, forse il più grave, è la polarizzazione delle opinioni, favorita dagli algoritmi che governano i social media: più le informazioni, i temi, gli argomenti proposti risultano divisivi, più sono in grado di generare engagement e di favorire conseguentemente traffico sulle piattaforme, con indubbio vantaggio dal punto di vista degli introiti pubblicitari. Non è semplice sottrarsi ad un meccanismo che, per quanto noto, gioca sull’inconsapevolezza dell’utente medio dei social e sulle sue reazioni quasi pavloviane a certi stimoli; fra l’altro, esso si collega ad un altro fenomeno che, più o meno, ci riguarda tutti: la sindrome cosiddetta FOMO (Fear of Missing Out), la paura di rimanere tagliati fuori rispetto alle ultimissime novità, alla polemica del giorno, alla questione apparentemente più scottante di cui tutti parlano e rispetto alla quale ci si sente quasi in dovere di prendere posizione, gratificando il mondo (o meglio, la nostra bolla, che, per quanto ristretta sia, ci appare, per una significativa deformazione cognitiva, come epitome dell’intero universo) con la nostra dimenticabilissima opinione.

La Rete non è altro che lo specchio di tendenze che, in realtà, agitano la nostra società, sempre più confusa, impaurita, tentata dalla diffidenza, dall’intolleranza, dalla paura di quello che non si comprende e che avvertiamo come minaccioso: quindi, non è corretto ritenerla la prima responsabile di manipolazioni, fake news, odio per tutto ciò che appare non conforme ad un semplificato criterio di normalità. Ma, d’altra parte, nonostante la disponibilità di conoscenze plurali e di dati, disponibilità che Internet è ancora in grado di offrirci, se mancano gli strumenti cognitivi e culturali per orientarci e sottrarci all’overload informativo, si finisce per preferire la banalità e la semplificazione: in altri termini, non si ritiene produttivo e, soprattutto, rassicurante, scegliere di mettere in discussione i nostri eventuali pregiudizi, ma si preferisce andare a cercare tutto ciò che li rafforza, che ci dà ragione, finendo così per limitare ancora di più il nostro asfittico orizzonte comunicativo ed esperienziale.

Questo è lo sfondo generale di un fenomeno specifico che, nonostante sia spesso trattato con la leggerezza tipica del meme e non possa ritenersi certo una novità, assume oggi, a mio avviso, un rilievo particolare: il contrasto generazionale, quella che potrei definire una sorta di lotta comunicativa senza esclusione di colpi fra giovani (e giovanissimi) e vecchi, o, meglio, boomer.

«Boomer», ovvero, secondo l’Accademia della Crusca, «appellativo ironico e spregiativo, attribuito a persona che mostri atteggiamenti o modi di pensare ritenuti ormai superati dalle nuove generazioni, per estensione a partire dal significato proprio che indica una persona nata negli anni del cosiddetto “baby boom”, e cioè nel periodo di forte incremento demografico che ha interessato diversi paesi occidentali al termine del secondo conflitto mondiale, tra il 1946 e il 1964». Per informazioni più precise sulla nascita, l’evoluzione, la trasformazione di questo termine, rimando al gustoso pamphlet di Matteo Bordone, L’invenzione del boomer (Utet, 2023), che illustra ottimamente anche tutte le altre definizioni generazionali che ci affliggono: Generazione X (1965 – 1980), Y o Millennials (1981 – 1996) , Z o nativi digitali (1997 – 2012) e, infine, la generazione Alpha che ancora deve uscire dalla scuole medie e chissà che cosa sarà.

Chi scrive è boomer a pieno titolo, non particolarmente fiera di esserlo: ma, insomma, boomer DOC, per così dire. Eppure, già da tempo assisto a un curioso fenomeno: sono proprio gli appartenenti alla generazione X (ormai sulla via dei cinquanta e oltre) e i Millennials ad usurpare volontariamente il titolo di boomer, come se, in un certo senso, si sentissero afflitti da una precoce senilità. In definitiva, come nota Bordone, ormai la parola «boomer» sembrerebbe non avere più una connotazione generazionale in senso proprio: piuttosto il termine rimanda ad una più generale incapacità di adattare categorie mentali, schemi interpretativi e competenze sociali ad un mondo in incessante e rapidissimo cambiamento, nel quale pratiche, gerghi, riferimenti culturali mutano di continuo. La sensazione di inadeguatezza, la paura di essere costantemente sorpassati da trasformazioni imprevedibili e incomprensibili, quindi il timore di «essere tagliati fuori» (vedi sopra), di apparire maldestri e «cringe», con tutta l’ansia che ne consegue, sembrano essere tratti che riguardano le generazioni «adulte», quelle ormai fuori dall’adolescenza, ma in evidente difficoltà (non di rado involontaria) nell’assumere un ruolo attivo, maturo e consapevole nella società.

Si tratta spesso di individui schiacciati fra la scomoda eredità dei loro genitori e la disinvoltura con la quale, almeno in apparenza, i ragazzini sono in grado di «surfare» sull’onda del cambiamento. Sono spesso ansiosi, irrisolti, vulnerabili: la precarietà esistenziale e lavorativa sembra essere la loro cifra, sanno che il loro futuro è incerto, si sentono individui atomizzati privi della possibilità di riconoscere un orizzonte comune, condannati come sono ad essere perennemente in competizione senza nessuna garanzia in caso di sconfitta nella spietata gara per l’affermazione personale.

Non così i loro genitori, l’ultima generazione a poter godere di una ragionevole fiducia nel futuro, ancora capace di costruirsi una vita migliore, in termini materiali e non solo, rispetto a coloro che l’avevano preceduta, grazie anche a tutele e garanzie che, dopo essere state conquistate con fatica, sono state via via smantellate, almeno a partire dagli anni ’90. E non così i più giovani, ormai pienamente immersi nel flusso, plasmati da modalità comunicative quasi esclusivamente digitali, abituati a gestire altrimenti i loro consumi culturali e non solo, apparentemente disinteressati al conflitto, eppure impegnati a costruire forme di comunità in contesti imprevisti e in larga misura non ancora del tutto compresi.

La reazione a questo duplice disagio, come è ovvio, non può che essere intrinsecamente contraddittoria. Nei confronti della Generazione Z e, in prospettiva, Alpha, molto spesso il giudizio è duro, non alieno da nostalgie autoritarie, più o meno illusorie: è proprio in questo caso che si gioca a fare i boomer intolleranti, quelli che non solo non capiscono, ma nemmeno vogliono capire. Da un altro punto di vista, il risentimento contro i boomer «autentici» è evidente. Che l’Italia non sia un paese per giovani è risaputo. I trentenni, i quarantenni, persino i cinquantenni di oggi non hanno nessuna garanzia e nessuna sicurezza; sono spesso sfruttati o sottopagati, non di rado iper-qualificati rispetto ai lavori che sono costretti ad accettare, senza nessuna ragionevole speranza di ottenere una pensione decente, quando e se verrà il momento.

In effetti, c’è un atteggiamento particolarmente fastidioso, tipico di chi ha vissuto la sua adolescenza e giovinezza durante i ruggenti anni Sessanta e Settanta. Memori delle nostre passate ribellioni e della nostra volontà (o velleità) di cambiare il mondo, fieri della «nostra» cultura, dei «nostri» film, della «nostra» letteratura, della «nostra» musica, non vogliamo più insegnare ai nostri figli e nipoti come si diventa adulti, ma, al contrario, vogliamo insegnare loro come si fa ad essere giovani. Perché noi siamo stati i primi a gridare di non fidarsi di chi avesse più di trent’anni: ma, dopo che abbiamo doppiato quella fatale boa anagrafica, non siamo riusciti a liberarci dalla mitologica zavorra della nostra meravigliosa e trasgressiva giovinezza. L’abbiamo tradita in molti modi, certo, non abbiamo tenuto fede alle promesse, abbiamo plasmato un mondo violento e cinico, abbiamo rinunciato ad utopie e sogni di rinnovamento, abbiamo permesso una progressiva erosione dei diritti conquistati con grande fatica. Ma vuoi mettere come eravamo bravi a giocare alla rivoluzione?

Non meraviglia, dunque, che molti ci giudichino insopportabili e giudichino altrettanto insopportabili i nostri modelli culturali di riferimento. Quella a cui si assiste, oggi, è una vera e propria guerriglia generazionale che si accompagna, a ben vedere, a maldestri tentativi di riscrivere la storia e di alleggerire le proprie responsabilità collettive e individuali. Intanto dovremmo liberarci tutti da quel caratteristico bias cognitivo secondo il quale il passato è comunque migliore del presente, se non altro perché sembra abbastanza chiaro che in realtà i semi dei problemi attuali sono stati piantati in epoche trascorse apparentemente più felici e serene.

Il passato non va né rifiutato, né messo su un piedistallo, qualsiasi sia la nostra coorte generazionale di appartenenza: va, al contrario, problematizzato, in modo tale che non diventi un freno per il presente (e il futuro), ma nemmeno un idolo polemico da rigettare in toto: anche perché la rimozione del passato conduce fatalmente alla riproposizione dei medesimi errori. In verità, c’è un altro pregiudizio altrettanto odioso: credere che l’innovazione sia sempre e comunque positiva, a prescindere da qualsiasi elemento di contesto o progetto organico nel quale il cambiamento dovrebbe inserirsi. Perché la velleità di cambiare tutto, ce lo insegnava già il Gattopardo, non di rado diventa una mossa puramente retorica che, alla fine, lascia tutto come sta.

Il contrasto fra i vecchi e i giovani è antico quanto il mondo, così come la dialettica fra conservazione e spinta alla trasformazione. Oggi, tuttavia, ci sono alcuni aspetti inediti: prima di tutto, la velocità dei cambiamenti in atto che rende tanto più forti il senso di disorientamento e, di conseguenza, la violenza delle reazioni ostili; in secondo luogo l’amplificazione degli elementi divisivi causata proprio dalle dinamiche di polarizzazione di cui parlavamo in apertura; infine, il fatto che sia molto comodo interpretare in termini anagrafici la conflittualità latente nella nostra società, quando, in realtà, la dinamica dello sfruttamento, le diseguaglianze, l’impoverimento collettivo sono trasversali alle generazioni. Siamo tutti più poveri, più preoccupati, più sfiduciati, più ansiosi, più fragili, più isolati: giovani e vecchi, Boomer e generazione X, MIllennial e generazione Z.

Dovremmo forse ripensare un nuovo patto generazionale che sfugga alle categorizzazioni nette e alle valutazioni pregiudiziali. Diamo per scontato che la nostra identità si costituisca a partire da distinzioni di tipo anagrafico, ma chi ha deciso che le varie etichette siano un dato di fatto non discutibile? Chi ci impone di chiuderci nella gabbia di consumi culturali imposti da dinamiche di marketing, impedendo l’ascolto reciproco e la condivisione? Per esempio: non sarebbe preferibile evitare le definizioni «immigrati» e «nativi» digitali, come se fossero qualificazioni ontologicamente imposte, e preferire piuttosto una distinzione basata sulla presenza o assenza di competenza digitale (digital literacy) non necessariamente legata all’anno di nascita? Non sarebbe meglio assumere una posizione di ascolto reciproco, invece di chiudersi nell’avversione, nell’acredine e nel sarcasmo, e recuperare da un lato il valore della memoria storica e dall’altro l’apertura critica nei confronti del futuro?

Una pia illusione? Può darsi. Ma non dimentichiamo che, almeno per il momento, giovani e vecchi abitano insieme l’immenso spazio della Rete, marcata da confini che possiamo attraversare, non necessariamente per colonizzare territori altrui: a volte potremmo solo avere il desiderio di conoscere senza giudicare, guidati dalla bussola della comprensione critica e animati da una paziente curiosità priva di risentimento.