La propria destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose.

Henry Miller

                                            Il mondo è ciò che noi vediamo, ma dobbiamo imparare a vederlo, e questo significa che dobbiamo                                     far parlare le cose stesse dal fondo del loro silenzio.

Maurice Merleau-Ponty

 

Come facciamo esperienza mondo? E come esso viene percepito dagli esseri viventi diversi da noi? Percepire equivale a conoscere la realtà per come essa ci è data ai nostri sensi. Oltre alle naturali porte della percezione di cui siamo dotati fin dalla nostra apparizione su questo pianeta, nel corso del tempo abbiamo aggiunto sistemi e strumenti di osservazione (sia naturali che artificiali) che possono essere assimilati a protesi di senso mediante le quali percepiamo aspetti diversi del mondo, la cui configurazione cambia al variare del sistema di misura-osservazione: altri mondi appaiono in funzione al mezzo, la tecnica sviluppata dagli umani per trasformare il proprio ambiente vitale e modellarlo secondo le proprie esigenze è anche un ponte fra la mente e mondo, essa ci permette una scoperta-generazione della realtà percepita attraverso i suoi sistemi di misura.

Gli studi legati alla percezione umana sono essenzialmente mirati a sondare i meccanismi che sono alla base della conoscenza e a forzare i limiti dell’esperienza sensibile per accedere a quel lato invisibile della realtà situato al di là della nostra esperienza quotidiana. Negli ultimi decenni, grazie a ricerche trasversali condotte nell’ambito delle scienze cognitive che integrano i contributi provenienti da discipline come la linguistica, la psicologia e l’intelligenza artificiale, lo studio dei sistemi percettivi ha aperto nuovi orizzonti e messo in dubbio certezze per indicarci la strada che può condurci verso ulteriori modi della percezione che al momento riusciamo solo in parte ad immaginare. Ha inoltre focalizzato l’attenzione degli umani verso i modi del sentire dell’intero regno dei viventi, di quell’oltre umano che per secoli abbiamo confinato fuori le mura delle nostre società e con cui oggi appare sempre più necessario instaurare un dialogo che permetta l’integrazione, ristabilendone gli antichi nessi che assicuravano la partecipazione degli umani a un mondo inteso come un’unica entità vivente. Alle nostre domande iniziali dobbiamo ora aggiungerne un’altra che ci sembra di importanza cruciale: esiste un territorio comune fra gli umani e la natura? Un linguaggio comune che tenga conto delle differenze percettive e riesca a integrale in un sistema armonico di cooperazione? Una domanda che risuona come una sfida alla conoscenza, una sfida all’attuale modo di concepire i nostri rapporti con la natura dettati dalla logica dicotomica che vuole la società degli umani separata da quella dell’intero mondo dei viventi. Il campo percettivo di ogni essere vivente può essere considerato uno spazio entro cui una determinata specie completa il proprio ciclo vitale. Uno spazio che sarà ogni volta diverso a seconda degli organi percettivi impiegati a rilevarlo e costruirlo. L’architettura, ossia la costruzione degli spazi prerogativa degli umani, non può allora sottrarsi da un confronto con altre architetture, altri modi di percepire lo spazio apparentemente distanti da noi ma che in realtà condividono la stessa radice in quanto tutti appartenenti ai viventi. Da ciò scaturiscono alcune osservazioni importanti.

La prima consiste nel fatto che la dicotomia fra natura e cultura potrà essere risolta solo a patto di risolvere le differenze interne fra le varia forme della conoscenza.

La seconda consiste nella necessità di risolvere la contrapposizione fra il mondo infinitamente piccolo e quello infinitamente grande in quanto entrami gli ambiti sono manifestazioni della medesima energia che pervade l’Universo. Ciò significa che qualunque spazio per quanto piccolo concorre a modificare lo spazio del mondo.

La terza e forse la più importante: l’ontologia su cui poggia gran parte del mondo occidentale necessita di un confronto con le ontologie cosiddette “primitive” legate a società distanti dalla nostra in termini di spazio e di tempo. L’antropologo Philippe Descola a questo proposito osserva che “contrariamente al dualismo moderno, che ostenta una molteplicità di differenze culturali sullo sfondo di una natura immutabile, il pensiero amerindiano considera l’intero cosmo come animato da un medesimo regime culturale dove le differenze sono il prodotto di diversi modi di percepirsi piuttosto che risultare da nature eterogenee. Il referente comune alle entità che abitano il mondo non è quindi l’uomo in quanto specie, ma l’umanità in quanto condizione”.

In quest’epoca, che ha perso quelli che sembravano punti di riferimento certi e ben ancorati nella modernità, è necessario un cambiamento di prospettiva e con essa le metafore che usiamo per descrivere ciò che ci circonda. L’architettura della modernità ha avuto la sua metafora nella macchina astratta, nel principio di produzione in serie, in una società secolarizzata che ha espunto la sacralità del cosmo dai suoi sogni meccanici. In un tempo a noi più vicino la metafora digitale ha tratteggiato una strada percorribile di integrazione fra spazio della mente e spazio fisico. Ma tale strada si è rivelata fin troppo angusta dal momento in cui ha lasciato fuori gran parte di un mondo che sembrava non riguardare gli umani.

La percezione dell’ambiente antropizzato si è sviluppata attraverso il dominio del senso della vista e dell’udito a discapito degli altri sensi e delle possibili interazioni fra essi. Già nella Grecia classica il senso della vista aveva un importanza primaria per il processo di conoscenza: Platone e Aristotele consideravano la visione come la più importante facoltà dell’uomo perché più vicina all’intelletto. Nel Rinascimento, la rappresentazione dello spazio caratterizzata dall’invenzione della prospettiva ha fatto della vista il cardine del mondo percepito. Le moderne tecnologie digitali, basano il loro funzionamento sulla vista e sull’udito. Le informazioni vengono elaborate per essere percepite dall’occhio o dall’orecchio, la iper stimolazione visiva ed uditiva anestetizza le percezioni basate sulla totalità dei sensi, la realtà virtuale è priva di tutti quei segnali che, elaborati dal nostro cervello, ci aiutano ad avere una complessa concezione spaziale. Mentre la nostra esperienza del mondo si basa su una complessa integrazione dei sensi, l’architettura basata sulla fruizione superficiale viene pensata e realizzata per il solo senso della vista rendendola in questo modo pura immagine che non crea un ambiente sensorialmente interessante.

Secondo l’architetto finlandese Juhani Pallasmaa, l’architettura si è trasformata in un’arte visiva: invece di proporre la creazione di un microcosmo per l’esistenza umana e una rappresentazione del mondo incarnata, insegue immagini retiniche dalla comprensione immediata. Soltanto un’architettura che preveda un’esperienza multi-sensoria può essere significativa: uno spazio che si può misurare con gli occhi, il movimento il tatto, gli odori, che realizzi cioè una compresenza di sensazioni che mettano in rapporto l’intera percezione del nostro corpo con l’ambiente costruito.

L’inadeguatezza dell’architettura contemporanea verso un mondo che comprenda natura e artificio, è da ricercarsi nel distacco dello spazio costruito dalla totalità dell’esperienza degli umani costretti ad agire esclusivamente secondo flussi di informazioni, di cose intercambiabili ed effimere. Ne emerge un gap insanabile tra la fissità del costruito e la fluidità dei rapporti che gli umani intessono con uno spazio espanso e virtuale rappresentato dalla fitta rete attraverso cui si svolgono scambi merceologici sociali e culturali. Un gap che non può essere risolto unicamente dalla composizione architettonica intesa come ambito esclusivo ma dalla sua integrazione alle diverse modalità percettive estese all’intero mondo dei viventi: l’uomo vive oggi all’interno di uno spazio immateriale e autoreferenziale che toglie realtà agli oggetti, allo spazio costruito e a quello naturale. Ripensare quest’ultimo come un possibile ponte fra la realtà visibile e i processi invisibili che avvengono prima di tutto in natura può aiutare a ristabilire quell’equilibrio antico eppur vitale che l’uomo arcaico aveva instaurato con l’altro da sé.

Immergendosi nel flusso degli eventi, l’architettura contemporanea aspira a un’inconciliabile ambiguità: da un lato vuole diventare una non-cosa, transitoria come un flusso percettivo sovraccarico di immagini effimere e da un altro lato, al primo speculare, vuol materializzare tali flussi di informazione attraverso le forme dello spazio costruito. Il problema apparentemente senza soluzione della contemporaneità sta nel voler rendere visibili i flussi di informazione fino a farli diventare materia costruita tenendo conto esclusivamente del flusso dei dati generati dagli umani. Negli ultimi anni stiamo assistendo a una rinnovata sensibilità: ci è sempre più chiara l’idea che altre e importanti correlazioni governano il mondo che è stato estromesso dalla nostra bolla digitale.

Una sensibilità che potrebbe permette agli umani di abbandonare quella condizione di “abitante onnipolitano” a cui si riferisce il filosofo francese Paul Virilio, cioè di cittadino della “città senza limiti” che smarrisce i riferimenti spazio-temporali nel nuovo habitat prodotto dall’impoverimento di stimoli sensoriali. L’elemento caratterizzante è la constatazione della simultaneità dei luoghi e della compressione spazio-temporale che fanno dell’habitat o dell’ambiente un entità estranea al nostro corpo. Nella situazione di onnipolitano le persone diramano attività, ambizioni e progetti in molte e diverse direzioni, tutte viabili, nessuna definitiva. Nelle frequenti dislocazioni le persone non hanno più il tempo per “stare” e “sentire” la città e finiscono spesso in una situazione di privazione sensoriale.

D’altro canto la metaforica materializzazione dei flussi rende percepibile ciò che è fuori dalla portata dei nostri naturali organi di percezione. Attraverso la metafora il mondo costruito inventa un mondo analogo ove l’uomo contemporaneo può ritrovarsi. In questi termini la metafora si rivela uno strumento potente per ampliare la nostra visione del mondo, permette all’uomo di orientarsi attraverso nuove e impensate prospettive. A patto però che tali prospettive comprendano il mondo che l’era digitale ha tagliato fuori dalla propria bolla di esistenza.

 

(tratto da Claudio Catalano – Oltreumano, per un’architettura del vivente – Vita Nostra edizioni 2023)