“A Schiovere, è la maniera con cui mi vengono le storie

sbucate alla rinfusa da un guizzo di ricordo.

Erri De Luca”

Scrivere “a vanvera” è diventato anche il mio stile narrativo: “La cifra nel tappeto” direbbe Henry James, uno dei miei autori preferiti.

Ho riflettuto molto ultimamente su saper leggere e scrivere: ritengo sia una grazia di Dio saperlo fare.

Scrivere mi appaga, leggere mi pacifica, mi rende migliore. Stringere la biro tra le dita e spingere la punta della penna sulla carta, facendo nascere singole consonanti e vocali, mi provoca un piacere fisico.

Le parole mi si stringono al petto come amicizie appena incontrate. La lingua italiana si accompagna a quella che Erri De Luca chiama “Madre lingua”: il napoletano.

A casa dei nonni dove sono cresciuta non si parlava in dialetto, e noi bambine eravamo abituate ad usare ” l’idioma italico”. E’ stata questa città, è stato l’incontro con Alfredo (napoletano doc) a farmi avvicinare a questo linguaggio vivissimo e creativo.

De Luca ne fa l’oggetto del suo ultimo libro. Ci sono parole che la generazione attuale non sa nemmeno che esistano, avendo napoletanizzato frasi italiane rendendole asettiche e neutre. Non si dice “T’amo” a Napoli ma il più dolce e appassionato “Te voglio bene assaye”.

 

Ho fatto un esame al mio amico Marco, nato nella Napoli antica, chiedendogli il significato di “Arrassusia”. Non me lo ha saputo dire. Arrassusia vuol dire “Nun sia mai” “Che Dio non voglia”.

Arrassusia mi piomba davanti agli occhi facendomi sobbalzare : mi parla di un altro grande mentore, uno scienziato, un neurobiologovegetale che ha aperto la mia anima ad un rapporto con le piante appassionato e cocente. L’interesse per il mondo vegetale è sempre stato dentro la mia testa anche se letargico, sopito, inconsapevole. Stefano Mancuso, magnifico botanico, mi parla con i suoi libri e la sua voce di Calabria, mi disegna un uomo di Vitruvio in cui la flora si trova al di sotto delle piante dei piedi, al di sotto della scala naturale, al di sotto del sottoscala.

L’albero rappresenta l’eleganza, il legame, l’esempio, il respiro, la cura, il tempo …l’evoluzione.

E’, insieme agli insetti, la specie più adatta al cambiamento, ad una mutazione laddove necessiti per risolvere problemi vitali, per non estinguersi. Mancuso narra la storia della Radicchiella di Terrasanta (crepis sancta) che ha due tipi di semi, uno aereo per coinvolgere il vento negli spazi aperti e uno pesante utile a ficcarsi tra le pietre e la terra. La cara Radichiella, ci dice Mancuso, nata in città, quindi urbanizzata, lascia semi pesanti in numero maggiore di quelli aerei: sa che saranno le suole degli abitanti di strade e parchi cittadini a far da inseminatori, non gli uccelli nel vento.

 

Le storie della Napoletanità linguistica di Erri De Luca e la forza evolutiva dei più adatti di Stefano Mancuso, la prima ormai una triste dimenticanza, la seconda una spinta augurale verso “Fitopolis, la città vivente” mi riportano alla mente, cosa del tutto naturale per chi ha vissuto la parte più coinvolgente della propria vita durante il “secolo breve” ed ora è troppo vecchia per accettare l’imbastardimento culturale e la burocratizzazione sociale dei ” tempi nuovi”, mi ravvivano la visione lontana dei ragazzi che questo mondo hanno tentato di cambiarlo. Erano giovanissimi, ventenni (oggi tardo adolescenti), si occupavano del “lavoro culturale” del “Circolo Leonardo”.

Comunisti dissidenti, per la Federazione del PCI napoletana erano dei rompiscatole massimalisti, anche un po’ anarchici e grilli saccenti.

Portarono in teatro la poesia africana con Sengor, politico senegalese, misero in scena le opere di Ionesco, Brecht e Beckett, oggi obsolete e dimenticate. Si è salvato solo il Godot di Beckett: il suo “Aspettando Godot” è diventata una frase idiomatica, un modo di dire di “origine ignota”.

“La cosa culturale” era un bene prezioso per la crescita umana, avrebbe potuto salvare il mondo, liberandolo definitivamente dai residuati fascisti del MSI, dai vaticanisti baciapile della DC e dal conservatorismo colpevole dei dirigenti del PCI.

Si dibatteva, altra cattiva parola dei giorni nostri, sulla bomba atomica citando Galileo Galilei e Hoppenheimer, della “Soluzione finale” e Papa Pacelli, dell’ultimo film di Bergman fino a Charlie Parker e il be-bop.

Alfredo si occupava di jazz e teatro, il talento di Elio come attore e le capacità critiche e organizzative di Gino, Gherardo e Lucio completavano il lavoro artistico e politico.

Ho messo da parte uno dei ragazzacci degli anni sessanta: il cinese.

Geppino, detto il cinese, era il vero cuore di questa masnada di cervelli in attività. Lo amavano e rispettavano tutti. Lui era “il proletario” tra borghesi del Vomero, il rivoluzionario maoista.

Uno dei pochi ad aver letto “ll libretto rosso”. Nemico di Stalin perché trotskista.

Ingegnere aereonautico, fu un Olivettiano di ferro, un cittadino del mondo.

Invitandomi a scrivere su Caos dopo la morte di Alfredo è riuscito a curare la mia autostima depressa.

I suoi rarissimi e brevissimi commenti ai miei scritti, che io chiamo scherzosamente “pezzilli”, mi hanno sempre gratificata, pacificando la mia scandalosa rabbia per questo “Orribile Secolo” in cui siamo costretti a vivere.