Riduzione, riciclo, riuso sono le tre erre della gestione green dei rifiuti, basata sul recupero di valore, e si contrappongono al concetto stesso di rifiuto, inteso come qualcosa che non ha più valore e che va tolto di mezzo.

L’eliminazione di ciò che non serve più da armadi, cassetti, posti di lavoro, che ai miei tempi si faceva quando passava lo stracciarolo, ora dalla gente che piace è chiamata decluttering, e può essere fatta con vari metodi, fra cui uno dei più popolari è quello della giapponese Marie Kondo, che lo propose nel 2014 con “Il magico potere del riordino: Il metodo giapponese che trasforma i vostri spazi e la vostra vita”, un best-seller mondiale che propone il riordino della propria casa come filosofia di vita capace di produrre serenità e gioia. Ne sono state fatte anche due serie su Netflix, per chi invece di leggere preferisce guardare un video. La Kondo si rifà ai metodi della qualità totale sperimentati dalla Toyota, fra cui il metodo delle cinque esse che è la prima fase del kaizen e serve a mettere in ordine il proprio posto di lavoro. Nell’impegno volto ad eliminare tutti gli sprechi (i sette muda), si comincia dal proprio ufficio, dal proprio posto di lavoro, eliminando dal tavolo, dagli scaffali, dal monitor del computer tutto ciò che non è strettamente funzionale all’attività da svolgere, indipendentemente dall’attività stessa.

Questo mio grafico mostra le cinque esse con cui si migliora continuamente la qualità del proprio posto di lavoro, e di conseguenza della propria attività.

 

La prima esse è quella della parola giapponese seiri, che significa “separare e pulire”. Prescrive di pulire il proprio posto di lavoro, ed eliminare ciò che non serve.

Non si può tenere tutto, per cui occorre cominciare col fare ordine tenendo solo le cose che effettivamente servono, ed eliminare il superfluo. Un buon metodo è applicare un cartellino rosso sugli oggetti e gli strumenti che si pensa non servano o siano fuori posto. I materiali segnalati vengono messi in un’area di non utilizzo immediato e sono usati solo se non c’è qualche altro materiale non segnalato che possa sostituirli. Dopo un periodo da tre a sei mesi, i materiali non utilizzati vengono eliminati. Ciò impedisce di essere precipitosi nel buttar via, o di insistere troppo nel conservare.

Le cose da togliere di mezzo possono essere messe in un cassetto, in soffitta o in cantina, oppure possono essere vendute o regalate, o infine buttate via. Il nostro compito è finito, perché la cosa ormai inutile non ingombra più il nostro tavolo, o il monitor, o gli scaffali. Però non sparisce, resta da qualche parte finché non sarà eliminata come cosa priva di valore, come un rifiuto.

Le civiltà che precedevano la nostra civiltà dei consumi producevano pochi rifiuti. Molte ricette popolari come minestroni, sformati, polpette, fino a piatti famosi come la paella o i canederli, sono fatte con avanzi di cibi. Oppure gli scarti di cucina si davano ai gatti, ai cani, alle galline. Quando ero ragazzo, in famiglia c’era l’uso di rivoltare gli abiti, scucirli e ricucirli con taglie ridotte per i più piccoli, o comunque di ripararli con toppe e ricuciture. Mio padre usava per appunti pezzi di carta e buste aperte.

L’obsolescenza programmata e il diffondersi dell’usa e getta anche nella vita di tutti i giorni producono enormi quantità di rifiuti, il cui smaltimento da più di mezzo secolo rappresenta uno dei grandi problemi della nostra civiltà. Sia nell’Oceano Pacifico sia nell’Atlantico fin dagli anni ’80 si formano enormi isole di rifiuti non degradabili che possono raggiungere anche le dimensioni degli interi Stati Uniti, per non parlare delle discariche urbane, dei rifiuti industriali tossici, dell’inquinamento di fiumi, laghi e falde acquifere.

L’economia circolare raccomanda di partire dal principio che il rifiuto è un insieme di risorse che dovrebbero essere completamente riutilizzabili, e che vanno smaltite solo quando non è più possibile recuperare nulla che abbia ancora un valore. In tal senso si parte dal recupero di tutto ciò che può essere ancora utile. Il recupero va dal lavoro che fanno a mano quei diseredati che razzolano sui mucchi di rifiuti delle discariche a cielo aperto fino ai processi industriali che trattano i materiali provenienti dalla raccolta differenziata. Consiste nel recuperare materie prime e semilavorati.

Il riuso consiste nel recuperare qualcosa che può ancora essere usato, magari in altro contesto o per altri scopi, come ruote e ingranaggi di biciclette con cui costruire ventilatori o carrelli. Esistono organizzazioni e negozi che raccolgono vestiti e scarpe dismessi per selezionarli e rivenderli, o per donarli ai bisognosi. Tutto il mercato dell’usato, dalle automobili ai telefoni ricondizionati, si basa sul riuso. Un design ecosostenibile dovrebbe progettare prodotti riusabili come insieme o come componenti e materiali, permettendo la sostituzione di elementi minuti onde prolungare la vita di tutto l’apparecchio o l’oggetto deteriorato.

Il riciclo è il trattamento del rifiuto come materia prima o semilavorato per produrre industrialmente beni utilizzabili, come carta, sacchetti di plastica, materiali da costruzione, ecc. Contenitori di alluminio e vetro sono interamente riciclabili. L’ottimizzazione del riciclo avviene con un corretto design dei prodotti che devono essere il più possibile modulari, componibili, con elementi sostituibili e intercambiabili, evitando il più possibile materiali compositi come quelli usati per contenitori e supporti multistrato.

Per quanto riguarda la riduzione, essa dovrebbe essere presente in tutto il ciclo produttivo, che comprende l’estrazione di materie prime e l’impiego di energia ed altre risorse, e ancora la produzione e distribuzione, la comunicazione, la postproduzione e la gestione di scorie e rifiuti. Si dovrebbe uscire una buona volta dal paradigma della crescita illimitata in un ecosistema limitato, per accettarne e rispettarne i limiti su cui siamo stati messi in allarme fin dal famoso rapporto del Club di Roma del 1972, fino agli allarmi sull’impronta ecologica sul pianeta.

Si dovrebbero ridurre al massimo anche gli imballaggi, favorendo spedizioni cumulative e rifornimenti con prodotti sciolti da mettere in un proprio contenitore. Recentemente ho acquistato penne, inchiostri e blocchi di carta su Amazon, con un ordine unico. I prodotti mi sono arrivati ognuno con una spedizione diversa e con tempi diversi, per il fatto che Amazon si serve di fornitori diversi, ognuno dei quali spedisce il suo prodotto. La conseguenza è che mi è arrivata una busta di cartone di formato A4 che conteneva solo una penna! Non parliamo delle apparecchiature elettroniche, dove una piccola scheda arriva con una scatola di cartone che contiene un imballaggio in polistirolo che contiene un sacchetto di plastica in cui finalmente c’è il prodotto.

Possiamo tracciare un ciclo di vita del prodotto osservandolo dal punto di vista del consumo e del rifiuto, e del relativo valore economico.

Il prodotto più ricercato e più costoso è quello alla moda, che dopo un po’ passa di moda e diventa di uso comune a prezzi bassi, fino a quando esce dai grandi consumi e diventa obsoleto perché invecchiato, logorato, passato del tutto di moda, di tecnologia superata. Il prodotto obsoleto ha ancora qualche valore per mercati di paesi emergenti o dell’usato, ma diventa rapidamente vecchio, perde del tutto di valore e finisce in soffitta, nel fondo di un cassetto, in discarica. Recentemente ho dato via un magnifico notebook di una quindicina di anni fa, perfettamente funzionante e solo con la batteria difettosa. Il negozio dell’usato lo ha regolarmente acquistato pagandomelo 1 euro, contro il paio di migliaia di quando lo acquistai nuovo, perché la sostituzione della batteria sarebbe costata di più del suo valore attuale. Il problema dei rifiuti interessa tutta l’area dell’obsolescenza, che sia derivata da effettivo deterioramento del prodotto o che sia psicologica (ci infastidisce che il nostro amico abbia un modello di smartphone più avanzato del nostro, anche se questo funziona benissimo).

Però, all’incirca dopo una ventina di anni, le mode ritornano, e i prodotti da vecchi diventano vintage, e alimentano mercati di amatori come i collezionisti di dischi in vinile, di macchine fotografiche analogiche, di vestiti della nonna. Il prodotto vintage riacquista valore perché nel frattempo se ne è fortemente ridotto il numero di esemplari. Il fenomeno del vintage si esprime in due direzioni: da una parte lo stesso oggetto dopo 20 o 30 anni torna di moda; dall’altra la moda o lo stile dopo 20 o 30 anni ritornano e ispirano stilisti, designer e produttori che propongono prodotti nuovi ma arieggianti alla moda retro.

Quando anche il vintage passa di moda, il prodotto ridiventa vecchio e una certa quantità di esso viene eliminata. Restano gli esemplari di qualità più alta, o meglio conservati, oppure le prime tirature o le edizioni numerate. Il prodotto diventa antico, e man mano che il tempo passa e diventa più raro, acquista sempre più valore e si propone al mercato dell’antiquariato, dai piccoli collezionisti fino ai grandi musei.

Ho parlato di prodotti, che vanno intesi in senso lato, dalle cose alle persone, dai fatti alle idee. Ho parlato del riciclo e riuso delle immagini nel post di marzo della mia newsletter su recupero, riuso e riciclo, dove parlo anche del riuso di immagini in due miei quadri digitali dedicati alla desertificazione come conseguenza del riscaldamento globale.

Vorrei concludere riflettendo sulla vecchiaia, altro grande problema sociale che interessa soprattutto le nostre civiltà occidentali. Nel mondo antico il vecchio era il saggio, il depositario di tradizioni ed esperienze passate, la guida e il mentore per le giovani generazioni. Però la vecchiaia, alla parti con l’infanzia, era anche la imbecilla aetas, l’età incerta e traballante di chi non sa camminare sine baculo, senza bastone, secondo l’etimologia di “imbecille”.

Nel nostro tempo così avido di consumi e prodigo di rifiuti, il vecchio è un rifiuto da segregare ed eliminare appena si può, oppure un vintage capace ancora di ispirare i più giovani?