Il 28 gennaio 1986, il cielo della Florida era limpido, ma gelido. Tutta l’America – e buona parte del mondo – era in attesa. Lo Space Shuttle Challenger avrebbe portato per la prima volta nello spazio un’insegnante, Christa McAuliffe, simbolo di un programma che voleva unire scienza, istruzione e partecipazione civile. Quel giorno decine di milioni di persone si erano riunite davanti ai televisori per seguire in diretta il lancio. Ma ciò che andò in scena fu terribile: dopo appena 73 secondi di volo, la navetta esplose in volo, davanti agli occhi sbigottiti di un mondo incredulo. Per la nazione americana si trattò di un lutto nazionale. Ma il lutto più profondo, quello che ancora ci riguarda, fu il silenzio che lo precedette.
Nel corso delle indagini si scoprì che diversi tecnici avevano sollevato dubbi nei giorni precedenti il lancio. Gli O-ring – guarnizioni in gomma fondamentali per la tenuta dei razzi a combustibile solido – avevano mostrato segni di fragilità in presenza di basse temperature. I documenti c’erano. Gli allarmi pure. Ma nulla venne fermato.
La pressione per rispettare il calendario, la retorica dell’eccezionalismo tecnologico americano, il timore di esporsi e una gerarchia aziendale troppo rigida fecero il resto. Le voci vennero ignorate. Il dissenso venne zittito. Prevalsero il conformismo e l’inerzia.
Il Challenger decollò malgrado il parere di molti esperti che, alla fine, preferirono tacere. E la disgrazia andò in onda in tutto il mondo.
Quel disastro – tecnico, umano e organizzativo – è una parabola esemplare del potere distruttivo del silenzio.
E ci parla ancora oggi. Nelle nostre aziende, nei nostri uffici, nei nostri open space, il silenzio continua a esistere. Ha solo cambiato forma.
È diventato stanchezza, distacco, apatia. È il collega che smette di proporre, il manager che evita i conflitti, il team che fa solo il minimo. E’ il collaboratore che, pur non credendo in quanto viene detto dall’azienda, preferisce annuire e tacere.
Questo silenzio ha un nome: silenzio organizzativo.
È la scelta, più o meno consapevole, di non parlare. Di non esprimere critiche, idee, bisogni, dubbi. È un fenomeno culturale profondo, che non nasce dalla timidezza, ma da un contesto incapace di valorizzare il dissenso. Che non ascolta, che non corregge, che premia chi si adatta.
È figlio di un’organizzazione che finge di comunicare, ma che di fatto si protegge dall’ascolto. Il risultato è una perdita silenziosa di intelligenza collettiva.
A questo fenomeno si accompagna un altro segnale allarmante: la disconnessione emotiva delle persone dal proprio lavoro.
Secondo il Gallup State of the Global Workplace Report 2025, solo l’8% dei lavoratori italiani si sente davvero coinvolto nel proprio lavoro. In Francia la percentuale è simile. In Lussemburgo, anche peggio. Il resto dell’Europa si muove intorno al 13–15%. Negli Stati Uniti si supera il 30%.
Ma in Italia il problema è più profondo. I giovani non si sentono rappresentati, i middle manager sono schiacciati tra le nuove esigenze dei loro collaboratori e le richieste sempre più pressanti dei vertici aziendali. Il 46% delle persone si dice stressata durante la maggior parte della giornata lavorativa. Il 25% si dichiara triste. E quasi la metà degli under 35 sta cercando un altro impiego.
Gallup sottolinea che il 70% dell’engagement di un team è direttamente influenzato dal manager, e solo il 44% dei manager a livello globale ha ricevuto una formazione adeguata .
Per affrontare questa sfida, è fondamentale investire nella formazione dei manager, promuovere una cultura del coaching e migliorare la comunicazione interna. Queste misure possono contribuire a invertire la tendenza al disimpegno e migliorare il benessere e la produttività dei dipendenti.
Questi numeri trovano conferma in un altro fenomeno epocale: quello delle grandi dimissioni.
Tra il 2016 e il 2024, in Italia, il numero di dimissioni volontarie è passato da 1,2 milioni a oltre 2,2 milioni l’anno.
In particolare, a dimettersi sono i giovani, i profili con più titoli di studio, i professionisti del digitale.
Si è parlato spesso di fuga dal lavoro, ma questa lettura è sbagliata. Prova ne sia che oggi gli occupati nel nostro Paese hanno superato quota 24 milioni, il dato più alto nell’ultimo mezzo secolo. Non si tratta, quindi, di un rifiuto del lavoro in quanto tale.
Si tratta del rifiuto di un modello. Le persone non scappano dal lavoro. Scappano da ambienti in cui non si cresce, non si viene ascoltati, non si è trattati con rispetto. Le persone vogliono lavorare, ma vogliono farlo in modo sostenibile, dignitoso, coerente con i propri valori.
L’emigrazione giovanile è un altro segnale allarmante. Negli ultimi dieci anni, circa un milione di italiani under 40 ha lasciato il Paese per cercare opportunità all’estero. Secondo l’Istat, negli ultimi dieci anni circa 97.000 giovani laureati hanno lasciato l’Italia. Tra loro ci sono ingegneri, medici, economisti, infermieri, designer, ricercatori, esperti IT.
Il dato preoccupante non è solo il numero assoluto, ma la direzione del flusso che è di sola andata: l’Italia non è più in grado di trattenere i suoi talenti, né di attrarne da fuori. Gli altri Paesi europei si stanno attrezzando per accogliere giovani qualificati. L’Italia, ancora ostaggio di una normativa frammentaria, di una burocrazia lenta e di un mercato del lavoro rigido, rischia l’asfissia demografica e produttiva.
A peggiorare il quadro contribuisce l’emergenza salari. Le retribuzioni reali hanno perso oltre il 10% del potere d’acquisto rispetto al 2019. Nonostante la crescita degli occupati, la maggioranza dei nuovi posti nel 2024 è stato assorbito da persone over 50, lasciando i giovani ai margini del mercato del lavoro.
Oggi in Italia il tasso di disoccupazione è del 6%, quasi fisiologico, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è del 16,9% contro una media UE del 5,8%. A questi si aggiungono un milione e 300.000 ragazzi che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet).
Tutto questo non è casuale.
È l’effetto di un patto psicologico infranto. Quel patto implicito, non scritto, che per decenni ha regolato la relazione tra lavoratore e organizzazione.
Un tempo, la promessa era chiara: se lavori sodo, resterai. Se sei leale, sarai ricompensato. Se ti impegni, crescerai. Oggi queste promesse non valgono più. Le imprese hanno a che fare con la globalizzazione e con mercati troppo volatili. Non riescono a programmare le loro attività sui tempi lunghi e quindi non possono garantire neanche i livelli adeguati su cui attestarsi.
Spesse volte quindi le imprese sono costrette a far fronte a volumi di lavoro più elevati ma hanno timore a incrementare livelli occupazionali. La conseguenza che molte volte si riscontra è l’espansione silenziosa e informale delle mansioni, quel processo strisciante per cui alcune persone si ritrovano a svolgere compiti sempre più numerosi e complessi, senza che nulla venga mai formalizzato. Nessuna promozione, nessun aumento, nessuna nuova definizione di ruolo. Solo un lento scivolamento verso un carico crescente, quasi sempre giustificato con la formula “sei l’unico di cui ci possiamo fidare”.
È una forma moderna di sovraccarico: non si impone, si suggerisce; non si assegna, si lascia accadere. Chi lo subisce spesso è tra i più capaci, i più affidabili, i più motivati. E proprio per questo, i più esposti al logoramento.
Secondo una recente rilevazione del Politecnico di Milano, il fenomeno riguarda almeno il 13% della forza lavoro, più che raddoppiato rispetto a un anno prima. Non è un errore di sistema: è il sistema.
Il lavoro non garantisce più sicurezza, né status, né realizzazione. E in cambio, non riceve più fedeltà.
Il nuovo contratto psicologico che si stabilisce tra lavoratore e impresa è instabile, temporaneo, sempre più spesso basato sulla mera strumentalità: resto finché mi conviene. Finché imparo. Finché mi ascolti. E me ne vado rapidamente se non vedo una prospettiva di concreta crescita.
Non è un fallimento. È una trasformazione. È la nascita di un nuovo paradigma: quello della employability. Oggi i lavoratori non cercano stabilità a lungo termine, ma opportunità di essere sempre “occupabili”.
Formazione continua, mobilità orizzontale, aggiornamento delle competenze. Non conta più tanto dove lavori, ma quanto resti competitivo.
Le imprese devono accettare questa logica, e investirci. Non si tratta di garantire fedeltà, ma di generare adesione e coinvolgimento.
Quella che stiamo vivendo è, a tutti gli effetti, una rivoluzione. Ma non una rivoluzione fatta di barricate o scioperi di massa. È una rivoluzione culturale, lenta, frammentata, ma inarrestabile. È silenziosa perché non si esprime in modo clamoroso. Non ha leader. Non ha manifesti. Non ha parole d’ordine. Ma si manifesta ogni giorno, nelle scelte individuali: cambiare lavoro, rifiutare una promozione, ridurre l’orario, fare solo ciò che è previsto, ignorare le mail la sera.
È una rivoluzione che si consuma nei gesti minimi, ma che produce effetti giganteschi. È il ribaltamento dei rapporti di forza. Oggi non è più l’impresa a decidere il ritmo della relazione. È il lavoratore a negoziare il proprio coinvolgimento.
Le organizzazioni non possono più contare sulla dedizione automatica. Devono conquistarla.
Eppure, in questa rivoluzione silenziosa, ci sono opportunità straordinarie. Le aziende capaci di ascoltare e di costruire un ambiente che invoglia le persone a restare saranno più forti, più resilienti, più innovative. Quelle che scelgono di ignorare i segnali, zittire le voci, continuare a gestire le persone con modelli vecchi rischieranno di esplodere. Come il Challenger.
La scelta è davanti ad ogni singola impresa. Non si può pensare di evitare questa trasformazione. Si può solo decidere se subirla o guidarla. Se fingere che nulla stia cambiando o usare il cambiamento per diventare migliori. Perché, quando il lavoro perde di significato, le persone non restano.
Ma quando l’organizzazione è capace di ascoltare e includere, nessuno sente il bisogno di andarsene.