Referenza foto: http://www.connessioniprecarie.org/2015/09/03/il-regime-del-salario-prefazione/

Da una parte c’è il Ministero dell’Interno che chiede di lavorare gratis per un anno ad un giornalista che faccia da addetto stampa.

Dall’altra lo stesso ministero retribuisce con doppio contratto Danila Subranni, portavoce del ministro, per un totale di 150.000 euro all’anno.

Da una parte aumentano le richieste di lavorare gratis o per pochi spiccioli.

Dall’altra basta digitare su un motore di ricerca “pagato per non lavorare” per vedere tanti casi in cui i dipendenti sono pagati per non fare nulla. Il caso più paradossale è la RAI, che dopo aver pagato dirigenti senza farli lavorare, ha dovuto pagar loro i danni morali per non averli fatti lavorare.

Da tutto ciò si evince che il rapporto fra lavoro e retribuzione è un rapporto del tutto virtuale, che spesso non dipende dalla qualità e quantità del lavoro, ma dall’opportunità politica, dai rapporti clientelari, da negligenze organizzative.

Il concetto stesso di posto di lavoro tende a liquefarsi nella precarietà da una parte, nello smart working dall’altra, ossia in qualcosa di magnificamente avanzato o di terribilmente arretrato.

Sarebbe opportuno quindi rimettere sul tavolo concetti come il lavoro, la sopravvivenza, il valore aggiunto, il reddito, la protezione sociale, ridefinendone la natura e le relazioni fra di loro.

Lavoro. Attività retribuita. Le attività non retribuite vanno incluse nel concetto di volontariato, scambio alla pari, affetto, schiavitù.

Valore aggiunto. Valora prodotto da una trasformazione materiale o immateriale.

Reddito. Introiti di una persona o di un nucleo di convivenza, derivanti da attività, lavoro o rendite.

Sopravvivenza. Livello economico che permette di mangiare, vestirsi, abitare sotto un tetto, curarsi.

Protezione sociale. Sistema pubblico (statale o locale) e privato di tutela di soggetti deboli come bambini, anziani, disoccupati, malati, minorati.

In genere si tende a pagare il valore aggiunto prodotto da un lavoro. Il falegname acquista un pezzo di legno, ne fa una sedia, e il suo guadagno è la differenza fra il costo del legno e il ricavato del legno lavorato come sedia. Non sempre però il lavoro produce valore. A volte distrugge valore o lascia le cose come erano. E’ il caso di dirigenti che mandano in rovina l’azienda, di operai che rovinano materiali e macchine, di burocrati che consumano risorse in operazioni autoreferenziali. O più semplicemente del ragazzo dell’ascensore. Con il paradosso per cui uno studente che scrive la tesi di laurea è disoccupato, il lift lavora. O che se due mamme allevano i propri bambini sono disoccupate, se l’una fa la baby sitter dell’altra lavorano ambedue.

Poiché spesso è difficile quantificare il lavoro di una persona, un criterio universalmente adottato è il compenso orario. Tuttavia oggi molti lavori sfuggono alla univocità del rapporto fra ora e lavoro prodotto, tipica dell’industria manifatturiera, perché la soluzione di un problema può essere trovata in 10 minuti o in tre giorni, e quello che conta è la validità della soluzione, non il tempo impiegato.

Con lo smart working viene a mancare anche l’occupazione fisica del posto di lavoro. Oggi un operatore finanziario può muovere miliardi con uno smartphone dalla sua barca, o più modestamente un traduttore può lavorare da casa alle sei del mattino o a mezzanotte.

L’automazione elimina molti posti di lavoro dai processi di produzione. L’operaio che faceva cose con le sue mani su ogni pezzo, diventa un problem solver che interviene solo quando il processo si inceppa, altrimenti viene estromesso. Lo stesso capita a ingegneri ed esperti di marketing, sostituiti da programmi di calcolo e di simulazione.

Le grandi conquiste del Novecento hanno stretto legami fra lavoro, reddito, sopravvivenza e protezione sociale.

Il riflusso provocato dai super-poteri finanziari e le nuove tecnologie hanno prima allentato, poi rotto quei legami.

Oggi il lavoro non è più legato al reddito (lo testimonia perfino il nostro Ministero dell’Interno, da cui dipende l’ordine pubblico!), e grandi masse di persone scendono al di sotto del livello di sopravvivenza.

I flussi di migranti, che ormai non sono più emergenza ma fenomeno che aumenterà sempre più, quando si aggiungeranno i migranti ambientali, ci dicono che questi problemi non possono più essere affrontati a livello nazionale, ma vanno visti a livello globale, come conseguenza diretta della globalizzazione economica.

Un reddito minimo garantito per tutti dovrebbe diventare la base di civiltà mondiale su cui costruire nuovi rapporti umani. Tutti devono potersi muovere nel mondo, perché fra poco dovremo essere tutti uniti per difenderci dalle minacce ambientali che noi stessi abbiamo provocato.

Se si continua as usual (la scelta più comoda per economisti e persone che si ritengono realiste e concrete, ma sono solo miopi) si va verso conflitti crescenti e si giunge fatalmente all’estinzione del genere umano.

Oggi abbiamo tutti gli strumenti scientifici, tecnologici ed epistemologici per creare un futuro migliore. Cominciamo col creare think tank globali che siano capaci di immaginarlo e di progettarlo.