George Cukor nel 1939 dirige  “Donne”, un film molto particolare: un film sulle donne, un film di donne, un film per le donne.

Interpretato da sole attrici. Le più grandi del momento: Norma Shearer, la Giulietta  piuttosto attempata del film tratto dal dramma di Shakespeare diretto dallo stesso regista, Joan Crawford,  considerata una delle più belle “femme fatale” di Hollywood. Poi ancora Rosalind Russel, Paulette Goddard e Jean Fontaine.
Sono donne di diversi ceti sociali, ricche casalinghe, lavoratrici, amiche e madri.
Si incontrano per parlare di politica? Si dedicano alla beneficenza? Fanno sport o cantano nel coro?
No!
Il centro del loro interesse, l’ombelico del loro pensiero è uno solo: l’uomo.
Anzi un solo e unico uomo. L’uomo per antonomasia, bello, ricco, puttaniere.
Simbolo maschile del potere.
Ne abbiamo conosciuti molti nelle nostre lunghe vite.
Stephen è il marito di Mary, Norma Shearer, non appare mai, lo conosciamo attraverso le parole delle protagoniste. Così veniamo a sapere che  Stephen si è innamorato di Crystal, Joan Crawford, che la sposa  e che poi tradito torna dalla mogliettina che lo  perdona.
Non lo vediamo mai, non sappiamo come sia né come si muova e parli.
E’ una bella trovata!
Ma Stephen rassomiglia a tutti gli uomini che attraversano l’esistenza delle più belle impersonificazioni femminili della letteratura; da Charles Bovary, incompetente medico, marito di Emma, a Karenin  importante cinico ufficiale governativo sposato ad  Anna.
Da Austin Sloper padre anaffettivo di Catherina Sloper, l’ereditiera di Henry James, a Torvald autoritario marito di Nora, la sua “allodola”, la bambola di “Casa di Bambola” di Ibsen.

Sono donne che hanno preferito morire, che hanno odiato e che si sono ribellate. Tutte hanno subito affronti e offese dagli uomini a loro vicini e da quelli scelti per amore, in una fuga verso una felicità incredula e inesistente.
Così queste donnette di Cukor che scoprono il tradimento dell’idolo Stephen, che sposa la sua bella arrampicatrice sociale, divorziando dalla noiosa mogliettina tutta casa e chiesa.
Un esempio straordinario dell’esistenza di Dio. Il Signore non c’è, non si vede ma è il centro del mondo. E’ lì seduto a guardare e giudicare, a scegliere e punire.
Donne in carriera, donne che odiano gli uomini, donne verso l’omologazione di genere.
Gli scrittori dimostrano empatia per le loro eroine, personaggi positivi o negativi, ma sempre grandi simboli di umanità lacerata.
Il cinema, come la politica, demonizza la femminilità facendo esplodere solo alcuni tratti della
condizione femminile.
Negli anni 50, durante l’ignobile Caccia alle Streghe del Buon McCarty le donne erano descritte solo in tre modi dal cinema hollywoodiano.
John Howard Lawson, scrittore, sceneggiatore iscritto al Partito Comunista Americano, uno dei 10 di Hollywood, blacklisted, lo sottolinea nel capitolo sulla degradazione della donna nel suo bellissimo saggio “Il film nella battaglia delle idee”.
Scrive : “I personaggi femminili nei film di Hollywood si possono raggruppare in tre categorie generali: le donne criminali o istigatrici al crimine, le donne nemiche dell’uomo, che combattono e perdono, perché esse devono sempre perdere nella guerra dei sessi, e le donne infantili, “primitive”, che rispondono pienamente all’ideale maschile di un sottomesso strumento di piacere fisico.
Naturalmente, queste categorie non si escludono a vicenda: come in Leave her to Heaven, una donna dominata da un incontrollabile impulso al delitto può avere l’aspetto di un angelo.”
Ma Gene Tierney  non ha il volto angelico, la sua scandalosa bellezza ha un tocco di elegante  sensualità  nel film di cui si parla:  “Femmina folle”  di John M. Sthal del 1945.
La storia è un esempio di ciò che cerco di argomentare.
Ellen incontra in treno  Richard, interpetrato da uno scialbo Cornel Wilde, e ne resta folgorata.
La macchina da presa si ferma sul volto della Tierney per lungo tempo, mentre guarda l’uomo che le sta di fronte. Continua a fissarlo e il suo volto di una gelida bellezza si apre quando dice: “Lei somiglia tanto a mio padre”. Si insinua così  immediatamente il sospetto di un rapporto incestuoso, di un sogno infrantosi con la morte del  genitore. 
Ellen sposa Richard, il sogno d’amore si realizza, ma qui l’amore non c’entra nulla, è la realizzazione di un male senza speranza, inespresso per lungo tempo, è una malattia dell’anima.
L’ossessione di Ellen nei confronti del marito diventa patologica, fino al delitto, all’eliminazione di tutti coloro che possono strappare un brano, un frammento del suo affetto. Uccide il giovane cognato disabile lasciandolo affogare,  si procura  un aborto buttandosi giù dalle scale, fino a suicidarsi dando la colpa a sua sorella della quale è gelosa.
E’ un film che ho visto  quando le benemerite tv private mettevano in onda vecchi film  e ne fui sconvolta. La bellezza di Gene Tierney é l’immagine della prima donna  nell’Eden, la figura ordinaria di Cornel Wilde fa spiccare ancora di più l’insensatezza di un amore così esclusivo e raggelante.
Il possesso reso follia ed esclusione.
“Molti artisti di Hollywood non sembrano coscienti del fatto che la degradazione sempre maggiore  dei personaggi femminili risponde ad uno scopo politico preciso. Olivia de Havilland, ad esempio, ha affermato nel corso di una intervista di essere pienamente soddisfatta per la parte affidatale in Rachel: “ Non si saprà mai se Rachel ha effettivamente avvelenato il marito  o se ha tentato di avvelenare il ragazzo, Philip Ashley…Rachel è presentata sempre in una luce di sospetto, cosicchè tutto ciò che essa compie diviene ambiguo.”
E’ questo sospetto, è questa ambiguità il manto oscuro con cui viene  ricoperto  il corpo della donna nell’inconscio collettivo di tutto il  mondo.
E’  questa la ragione  per cui l’uomo ne ha così tanta paura da volersene liberare violandola, degradandola, uccidendola.

“Jeune fille en vert” di Tamara de Lempicka 1927/1930