La legge n. 68 del 22 maggio 2015  (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente), introducendo nel Codice Penale un apposito Titolo (il Titolo VI-bis del libro secondo) per i delitti contro l’ambiente (i c.d. ecoreati o ecodelitti),  ha operato una riforma istituzionale di rilievo in materia ambientale,  sanzionando penalmente come delitti e non solo come contravvenzioni i crimini contro l’ambiente e tra questi in particolare  l’inquinamento ambientale e  il disastro ambientale.

Si tratta di illeciti che per effetto di detta  legge e della integrazione del testo dell’art. 25-undecies del D.Lgs. 231/2001 vanno anche ad ampliare il catalogo dei reati presupposto ai quali è correlata la responsabilità amministrativa degli Enti (Cfr. L.M.Brunozzi-C.Fiorio, Ecoreati e responsabilità amministrativa degli Enti, in Archivio Penale 2015,3).

La legge ha il merito di aver disposto  il riconoscimento dell’ambiente come bene tutelato in ragione della sua rilevanza costituzionale, attuando un nuovo impianto del sistema di tutela.
Per il bene giuridico ambiente non  si rinvengono vere e proprie definizioni normative del bene tutelato ai fini penali, così come non sussiste una definizione normativa di ecosistema. Il termine ecosistema ricorre tuttavia nell’art. 117, comma 2, della Costituzione ed è ormai di comune accezione, tanto da essere citato finanche nell’Enciclica di Papa Francesco del 24 maggio 2015 sulla Cura della Casa Comune: ”Si rende indispensabile creare un sistema normativo che includa limiti inviolabili e assicuri la protezione degli ecosistemi”.

Nelle riforme per la tutela dell’ambiente un ulteriore apporto si è avuto con l’introduzione della
legge n. 132 del 28 giugno 2016 (in vigore dal 14 gennaio 2017), che ha istituito il “Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente e la disciplina dell’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale”. Il Sistema nazionale concorre al perseguimento degli obiettivi dello sviluppo sostenibile, della riduzione del consumo di suolo, della salvaguardia e della promozione della qualità dell’ambiente, della tutela delle risorse naturali e della piena realizzazione del principio “chi inquina paga”.

L’avvento della legge 68/2015 ha immediatamente  determinato una inversione di tendenza nel contrasto alla criminalità ambientale, avendo un effetto non solo repressivo ma anche deterrente, dato che la criminalità ambientale  si trova ora a dover diversamente valutare il rapporto tra il rischio penale e il tornaconto economico dell’attività illecita.

Una prima attestazione di tale inversione si rinviene nel rapporto di Legambiente  Ecomafia 2016 dal quale si evince come già nei soli primi otto mesi di operatività della legge (dal 29 maggio 2015, data di entrata in vigore, al 31 gennaio 2016) sono stati contestati 947 ecoreati, con 1.185 denunce delle forze dell’ordine e delle Capitanerie di porto, il sequestro di 229 beni per un valore di 24 milioni di euro, con 118 casi di inquinamento ambientale e 30 contestazioni per il nuovo delitto di disastro ambientale.

Nel Rapporto l’associazione ambientalista ha anche avanzato  una serie di proposte  tra le quali quelle di un’azione di formazione sulla nuova legge, la costituzione di un corpo di polizia ambientale specializzato, la definizione del provvedimento legislativo sulle agromafie predisposto dalla Commissione Caselli (fermo presso la Commissione Giustizia del Senato, in sede referente, dal 19 aprile 2016).

In considerazione di quanto sopra e a seguito dell’interesse determinato dalla applicazione  della nuova legge il Parlamento ha ritenuto opportuna una verifica sulla sua attuazione.
Il tema dei reati ambientali ha la massima ragione di esistere relativamente ai reati connessi al traffico di rifiuti e la nozione di ambiente della legge 68/2015 si richiama alle conclusioni assunte, nel corso delle legislature, dalle Commissioni parlamentari di inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse.

L’indagine è stata svolta dalla “Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività connesse al ciclo dei rifiuti  su illeciti ambientali ad esse correlate”, che ha scelto di acquisire i dati e le informazioni tramite le Procure Generali e le Presidenze delle Corti d’Appello.
La Relazione della Commissione è stata approvata il 20 febbraio u.s. e si è avvalsa delle risposte di 167 uffici giudiziari sulla base delle risultanze alla data del 5 ottobre 2016.  La Commissione ha potuto così disporre di un quadro dello stato di attuazione della legge e delle criticità in un ambito temporale significativo, tenuto conto anche delle risultanze del dossier di Legambiente.
Come è evidenziato nella Relazione,  non si è trattato tanto di una valutazione complessiva di efficacia della legge 68/2015  quanto  di proporre il tema dell’efficacia delle leggi di tutela in materia ambientale.
Sebbene il 40% circa degli uffici abbia rappresentato  di non aver ancora mai applicato alcuna norma della legge,  tuttavia le risposte avute hanno consentito di individuare le principali criticità sul piano organizzativo e interpretativo delle norme relative ai nuovi reati.
I dati raccolti hanno dimostrato una distribuzione alquanto uniforme dei nuovi reati su tutto il territorio nazionale, con qualche accentuazione quantitativa al Sud e nelle Isole.
La fattispecie maggiormente contestata risulta essere quella di inquinamento ambientale, 
che in base all’art. 452-bis del Codice Penale  consiste nel cagionare “abusivamente una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili delle acque o dell’aria o di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo oppure di un ecosistema, della biodiversità, anche agraria, della flora o della fauna”. Il delitto è punito con la reclusione fino a sei anni, aumentata se l’inquinamento è prodotto in aree naturali protette o vincolate.

Si tratta di un reato che nell’iter  di approvazione aveva mostrato le maggiori criticità interpretative e in effetti il lungo percorso parlamentare non sempre è riuscito a  produrre  una puntuale definizione delle varie fattispecie, lasciando spazio al percorso giurisprudenziale per una puntualizzazione in sede processuale.
Uno dei punti più controversi è relativo all’avverbio abusivamente.  Il termine, che nella stessa legge  è contenuto anche nella formulazione del reato di disastro ambientale, ricorre di frequente nel Codice Penale  e in materia ambientale è presente nell’art. 260 del Codice dell’Ambiente (D.Lgs. 152/2006) che sanziona le attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti.

Il dibattito verte sul punto se  l’avverbio possa essere interpretato  nel senso che la  condotta in danno dell’ambiente vada punita solo in caso di carenza di autorizzazione amministrativa oppure in maniera più lata,  includendo quindi l’ipotesi di violazione dell’autorizzazione esistente o di autorizzazione illegittima (che richiede a sua volta una preliminare verifica se l’atto è in violazione di legge).

La Corte di Cassazione, in relazione ad un caso di inquinamento nel Golfo di La Spezia, si é trovata recentemente  (Sez. terza penale, n. 46170 del 21 settembre 2016)  a doversi pronunciare per la prima volta in merito ad uno dei c.d. ecoreati di cui alla legge 68/215 e proprio in merito al reato di inquinamento ambientale.

Partendo dalla considerazione che sui delitti introdotti da detta  legge neppure la dottrina, nei contributi finora offerti, è pervenuta a conclusioni univoche, la Corte  ha ritenuto di dover fissare i principali punti fermi sull’interpretazione di  questo reato e sugli elementi costitutivi dello stesso.

In merito all’abusività della condotta la Corte ha innanzitutto fatto riferimento al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti  sanzionato dall’art. 260 del Codice dell’Ambiente e ha richiamato in materia la decisione 21030/2015, per  confermare che il carattere abusivo dell’attività organizzata di gestione dei rifiuti – idonea ad integrare il delitto – sussiste qualora essa si svolga  continuativamente nell’inosservanza delle prescritte autorizzazioni e quindi non solo quando tali autorizzazioni manchino del tutto (c.d. attività clandestina) ma anche quando esse siano scadute o palesemente illegittime  e comunque non commisurate al tipo di rifiuti ricevuti, aventi diversa natura rispetto a quelli autorizzati. Posta tale premessa la Corte ha affermato  che  i suddetti principi sono utilizzabili anche in relazione al delitto di inquinamento ambientale, dove la condotta abusiva include non soltanto quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali, anche se non direttamente pertinenti al settore ambientale, ma anche di prescrizioni amministrative.

Per la consumazione del reato è necessario che la condotta determini una compromissione o un detrimento significativi e misurabili e si è dibattuto se si volesse esprimere un unico concetto nonostante l’uso della congiunzione.
Su questo punto la Corte di Cassazione ha  sancito che l’indicazione dei due  termini con la congiunzione disgiuntiva “o” svolge una funzione di collegamento tra i termini stessi,  che indicano fenomeni sostanzialmente equivalenti negli effetti, dato entrambi si risolvono  in una alterazione, cioè in una modifica dell’originaria consistenza della matrice ambientale o dell’ecosistema caratterizzata, nel caso della compromissione, in una condizione di rischio o pericolo definibile di squilibrio funzionale perchè incidente sui normali processi naturali correlati alla specificità della matrice ambientale o dell’ecosistema  e,  nel caso di  deterioramento, come squilibrio strutturale caratterizzato da un decadimento di stato o di qualità di questi ultimi. Conseguentemente non rileva l’eventuale reversibilità del fenomeno inquinante, che rappresenta solo elemento di differenziazione tra l’inquinamento e il reato di disastro ambientale di cui all’art. 452-quater del Codice Penale.

L’ambito di operatività dell’art. 452-bis è anche delimitato dalla precisazione testuale che la compromissione o il deterioramento devono essere significativi e misurabili, elevando considerevolmente il livello di lesività della condotta e quindi escludendo fatti di minore rilevanza.  Per i  giudici della Corte il termine “significativo” denota incisività e rilevanza, mentre il termine “misurabile” si riferisce a ciò che è quantitativamente apprezzabile o, comunque,  oggettivamente rilevabile.

Deve escludersi l’esistenza di un vincolo assoluto per il giudice correlato a parametri posti dalla disciplina di settore, dato che il suo superamento non comporta necessariamente una situazione di danno o di pericolo per l’ambiente. Il che non esclude l’utilità del riferimento a tali parametri ove essi possano fornire un concreto elemento di giudizio in merito alla compromissione o al deterioramento prodotti, che siano effettivamente significativi come prescrive la norma, mentre tale condizione non può ovviamente farsi discendere automaticamente dal mero superamento dei limiti.

Alla legge sugli ecoreati sono state  imputate numerose criticità, che vanno dall’utilizzazione di formule troppo vaghe, alla genericità delle fattispecie che lasciano eccessivo spazio alla discrezionalità del magistrato, ai vari dubbi sulla non piena aderenza di alcune disposizioni al principio di determinatezza delle norme penali di cui all’art. 25 della Costituzione, ai difetti di coordinamento con la preesistente legislazione in materia ambientale.
Tuttavia deve riconoscersi che è stata attuata una riforma attesa da tantissimi anni e che,  malgrado il  suo travagliato percorso  e talune criticità tuttora attribuite al testo in vigore, la legge in parola rappresenta comunque un sostanziale salto culturale per la presa di coscienza della correlazione tra la tutela dell’ambiente e la tutela della salute.

Per quanto attiene infine alla correlazione  della legge 68/2015 con il D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità penale-amministrativa degli enti, si pone attualmente per questi ultimi la necessità di riconsiderare e  rimodulare i Modelli Organizzativi eventualmente adottati,  operando un risk assessment adeguato agli  impatti ambientali differenti da ente ad ente.