Il quartiere ha un aspetto molto diverso, quando lo si guarda esclusivamente dal marciapiede
                                                                                                Marc Augé

 

 

 

Homelessness e homeless sono traducibili, rispettivamente, come “estrema povertà” e “senza tetto” o “senza dimora”. Spesso le storie tragiche dei clochard entrano nella nostra quotidianità senza provocare in noi un senso di colpa e appartengono solo alla cronaca, d’altronde ciascuno di noi “sta al suo posto” sperando che quello sia il posto giusto. Ma ciò che ci può far sobbalzare è, invece, in linea generale, il dato statistico globale, secondo il quale il 20% della popolazione mondiale assorbe l’80% delle risorse e, dunque, l’80% della popolazione vive con il 20% delle risorse residue e disponibili. C’è in questo senso una responsabilità della politica e delle istituzioni, nazionali e internazionali, e dovrebbe, anche, esserci l’agire solidaristico delle persone che non “voltano la testa” dinanzi al problema, facendolo anche proprio (almeno culturalmente).

Uno sguardo ai dati statistici

Nel mondo sono 900 milioni le persone in povertà assoluta (dati  Worldbank.org, 2016), mentre in Italia sono 4 milioni e 600 mila, in tutto 1 milione e 582 mila famiglie, il dato (significativamente) più elevato dal 2005. Le situazioni più difficili sono radicate nel Mezzogiorno, e caratterizzate da famiglie numerose, famiglie di stranieri, con capofamiglia in cerca di occupazione e, soprattutto, dalle nuove generazioni.
Con la disoccupazione che ha invertito il tradizionale rapporto tra povertà assoluta ed età, per cui sono i giovani (insieme agli adulti), in cerca di una prima occupazione, a sperimentare l’esclusione sociale invece che gli anziani.

È sempre opportuno, dunque, ritornando al problema, riportare alcuni dati ISTAT (2014) sulle persone senza dimora in Italia: stimate in 50 mila 724 unità nel 2014, il 2,43 per mille della popolazione residente nei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l’indagine, valore in aumento rispetto al triennio precedente (2,31 per mille pari a 47 mila 648 persone).
D’altronde, circa i due terzi delle persone senza dimora dichiarano di essere iscritte all’anagrafe di un comune italiano, valore che scende al 48,1% tra i cittadini stranieri e raggiunge il 97,2% tra gli italiani.

Si confermano, intanto, alcuni dati sulla composizione demografica e geografica del fenomeno (rispetto al 2011): uomini per l’85,7%, il 58,2% straniero, con il 76,5% che vive da solo mentre il 56,0% vive nelle regioni del Nord.

Rispetto a questi dati è opportuno anche riferire sulla struttura dell’offerta di contrasto a queste condizioni di estrema povertà (materiale e immateriale), forte disagio abitativo, con persone che vivono in spazi pubblici (per strada, baracche, macchine abbandonate, roulotte e capannoni). Se questa è la situazione dal lato della domanda, l’offerta di assistenza può contare, su di una articolata e diffusa rete di solidarietà (Onlus e volontariato), ad esempio, sui Centri di ascolto delle Caritas diocesane (1649 centri dislocati in 173 Diocesi), in particolare, un esempio per tutti, il Centro di Perugia, Città della Pieve, che nel 2015 ha dato accoglienza a 971 persone (delle quali 590 stranieri).

Ma una  cosa è certa: la rappresentazione classica dei clochard, dei rom o dell’extracomunitario, non è più realistica, perché il numero dei senza dimora anziché diminuire aumenta, infoltito dai nuovi poveri italiani, stranieri con le loro famiglie, immigrazione di disperati che provengono dalle zone di guerra (Siria, Libia, Iraq) e che, nella maggioranza dei casi, non trovano, in Italia un destino migliore. L’entità e la struttura sociale del fenomeno è tale che occorrono altre variabili per comprenderlo: tra le tante, senz’altro, la crisi economica nei paesi sviluppati e le dinamiche (demografiche oltre che economiche) della globalizzazione.

Crisi economica e nuove povertà

L’espressione nuove povertà gode oggi di un’ampia diffusione.

La crisi economica, la disoccupazione, la precarizzazione delle situazioni di lavoro e la contrazione dei consumi, hanno esposto, infatti, sempre più individui ad una condizione di vulnerabilità e povertà. In Italia, sulla base di dati ISTAT, a partire dal 2008, l’11,1% delle famiglie sono definite relativamente povere ed il 5,2% di quelle povere lo sono in termini assoluti, ma anche, e soprattutto, c’è da considerare, il 7,6% di popolazione che, nel contesto, viene definita come “quasi povera”. E secondo Elisa Badiali (autrice di un report, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna) si evidenziano due zone d’ombra da indagare: la crisi della società salariale moderna e l’indebolimento delle regolazioni collettive e delle forme di protezione assicurate, tradizionalmente, dalle politiche sociali e istituzionali. Scenario che prefigura una dilatazione della “zona di vulnerabilità” fino a sconfinare in quella dell’integrazione, coinvolgendo persone e strati sociali inseriti, prima, all’interno di una stabile vita sociale e professionale, e che oggi si trovano a confrontarsi con situazioni di precarietà e disoccupazione crescenti.

È il tonfo della classe media a caratterizzare il periodo storico attuale, con un percorso di mobilità discendente rispetto alla situazione socioeconomica precedente (seconda metà del XX sec.), che per certi aspetti è sconvolgente.

Dunque, accanto alle forme tradizionali di povertà ci sono, adesso, “i nuovi poveri”, magari non ancora riconoscibili in una vera e propria classe sociale, ma ben raffigurati in “una massa dai contorni indefiniti”, che non dispone, peraltro, di una propria cultura e auto rappresentazione.

Ma i dati non sono solo nazionali, un recente rapporto della Croce Rossa Italiana su dati Eurostat (2013), segnala come, nei 32 paesi monitorati dallo studio, 120 milioni di cittadini europei sono a rischio povertà, con le istituzioni in difficoltà a reperire i fondi necessari per il loro sostentamento, sempre più ingenti. Mentre, sempre secondo i dati Eurostat, sono 43 milioni gli Europei che non hanno cibo a sufficienza ogni giorno e 18 milioni le persone che ricevono aiuti necessari dall’Unione Europea.

Vengono sottolineati, in tal senso, anche i danni, per effetto di queste situazioni, allo stato di salute delle popolazione interessate, soprattutto per quanto riguarda le fasce deboli (bambini e anziani).

Naturalmente la povertà è molto più diffusa, anche se non circoscritta, ai Paesi del Sud Europa e più spesso associata alla crisi economica (e politica) storica di queste aree.

Se la mancanza di lavoro è la principale causa di povertà in tutta Europa, per la popolazione in età lavorativa, bisogna considerare che le fasce di popolazione anziana presentano un maggior rischio di povertà, sia in rapporto alle recenti tendenze demografiche (allungamento dell’età media) che in relazione alle difficoltà (crescenti) dei sistemi di welfare, in particolare la sostenibilità dei sistemi pensionistici.
E comunque, la disoccupazione aumenta di 5 volte il rischio di povertà rispetto agli occupati, senza considerare il numero dei cosiddetti working poors, l’8% di occupati (Eurofound, 2010) in tutta Europa, con forme di lavoro temporaneo e a tempo parziale (involontario).
La situazione, poi, è ulteriormente aggravata dalla diffusione di famiglie monoparentali e monoreddito.

Molto interessante è anche la fotografia del Censis sulla situazione socioeconomica del paese riportata da Antonio Laurenzano (2013), che insiste molto sul problema dell’elevato tasso di insicurezza delle famiglie italiane, in un contesto di cambiamenti strutturali irreversibili e peggiorativi. Un’ansia collettiva generata dalla crisi occupazionale e dalla fine del lavoro “inteso come fondamento della sussistenza economica e della stabilità della famiglia”, conseguente impoverimento delle risorse e degli stili di vita familiari, angoscia del presente e paura del futuro.

È un sistema di relazioni complessive a collassare, le sicurezze precedenti, la stabilità dei decenni scorsi, sono sostituite dalla fragilità delle relazioni odierne, precarietà lavorativa, paura della malattia, soprattutto se confrontate con il modello economico vigente dominato dalla competitività e produttività degli stili di vita e forme di produzione odierni.

Cosi, in Italia, “l’impoverimento si sta spostando dalle minoranze improduttive alle moltitudini precarie”, perché prima l’emergenza povertà riguardava soprattutto gli extracomunitari, mentre oggi coinvolge molte famiglie italiane, in quanto è cambiato profondamente, negli ultimi decenni, il modello istituzionale di crescita economico e sociale.

Infatti, non è tanto il dato quantitativo a meravigliare quanto la struttura del fenomeno.

Si può essere poveri anche lavorando (o avendo una casa), perché ai cambiamenti demografici si sommano gli esiti della crisi economica nazionale e le variabili transnazionali dello sviluppo globale. Le nuove povertà riguardano, in particolare, quattro grandi categorie sociali: anziani soli (con problemi di salute), giovani coppie (precarietà lavorativa), genitori single (separati e divorziati) e disoccupati (lavoratori a termine, esodati).

Riflettendo, in parte, le grandi categorie di crisi delle società post-fordiste: con incremento demografico e crisi degli apparati di protezione sociale, la dilagante disoccupazione giovanile (legata molto anche alla fragilità e inadeguatezza dei processi formativi), l’assottigliamento dei nuclei familiari e le forme precarie dei rapporti di lavoro (con dequalificazione dei lavori più diffusi, a bassa intensità tecnologica e di competenze).

All’interno delle dimensioni macro ci sono poi le “biografie individuali”, i percorsi di esclusione e di sofferenza soggettiva, che nell’insieme configurano un sistema di malessere sociale che può essere fronteggiato (e superato) solo attraverso un recupero della politica attiva, necessaria ad una questione oramai, non soltanto, umanitaria, cui non basta più l’assistenza, in quanto la crisi economica sta mostrando chiaramente che il meccanismo di copertura del welfare classico non è più sostenibile.

Occorrono, dunque, nuove politiche del lavoro, sostegni alle famiglie, agli anziani, un diverso sistema di welfare o un secondo welfare (aziendale, reti di solidarietà, comunità locali); politiche di inserimento dei giovani nel mondo della ricerca e delle professioni, perché qualsiasi problema, anche umanitario, non si risolve, almeno nei paesi sviluppati (ed oggi in crisi), se non con la crescita economica, che nello scenario globale ha un solo nome, processi integrati di sviluppo tecnologico, gli unici in grado di far competere nel mondo le (stanche o pigre) economie di prima industrializzazione con i paesi in via di sviluppo (Pvs).

Ma in questi contesti, in particolare in Italia, la povertà è anche “relativa”, rivelata da una spesa per consumi inferiore alla soglia di riferimento e si tratta, come accennato, del 16,6% della popolazione, mentre la povertà assoluta, che non consente standard di vita accettabili, si attesta sul 7,9% delle famiglie e non bisogna dimenticare che il 23,4% delle famiglie vive in una situazione di permanente disagio economico.

Le ambiguità della globalizzazione

La brevità del testo e la ridotta significatività (quantitativa) del fenomeno dei “senza fissa dimora” in quanto tale, ci ha portato ad esaminare ciò che c’è a monte del fenomeno della povertà assoluta e relativa, e l’accentuazione delle diseguaglianze sociali, sia nel primo mondo (paesi di vecchia industrializzazione) che nei Pvs o paesi poveri in transizione.

Anche se, anche sul piano della globalizzazione, (cosi come ai livelli nazionali Occidentali) occorre parlare in termini di povertà assoluta, relativa e diseguaglianze sociali. Tutte categorie che si muovono in maniera interdipendente; a livello globale sembra diminuire la prima, nelle economie sviluppate aumentano prima e seconda, mentre per quanto concerne la terza (le diseguaglianze sociali) incrementano sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo.

Secondo la Banca Mondiale, dati 2015, il numero di persone che vive in povertà estrema scenderà, infatti, entro fine anno sotto il 10 per cento della popolazione globale, con l’estrema povertà misurata in termini di meno di 1,90 dollari al giorno. Se nel 2012 erano 902 milioni, il 12,8% della popolazione globale, nel 2015, questo dato scende al 9,6%, ossia, secondo le ultime stime, 702 milioni di persone e ciò è dovuto, sempre secondo la Banca Mondiale, ai sostenuti tassi di crescita economica nei Paesi emergenti, come India e Cina, oltre che agli investimenti nell’educazione e nella sanità, ovunque in crescita. Anche se la lotta a povertà, fame, malattie passa da una crescita economica pari almeno al 7% del Pil nei Paesi meno sviluppati, sostiene l’Onu. Un obiettivo forse troppo ambizioso in questi tempi di disordine politico globale e incertezza finanziaria e dei sistemi di produzione internazionali.

Dunque, se nel “resto del mondo” la povertà assoluta è diminuita, per effetto della globalizzazione e non solo (si pensi anche all’azione delle istituzioni umanitarie), nel “primo mondo” ha avuto un significativo incremento. Ma ad aumentare, nei paesi sviluppati, è anche la povertà relativa, insieme alle aree critiche che sconfinano tra esclusione sociale e integrazione. Mentre le diseguaglianze sociali si approfondiscono, sia nell’Occidente industrializzato che nei Pvs, segnando i differenziali di utilizzo, in termini di capacità individuale ed efficacia istituzionale, delle opportunità economiche del mondo globale.

Il quadro che emerge sembra senz’altro condizionato dalla crisi economica (e finanziaria) che ha caratterizzato, nell’ultimo decennio, le aree dello sviluppo, mentre i processi di globalizzazione, se hanno avuto un sicuro impatto negativo sulle “nuove povertà” dell’Occidente, mostrano, nel complesso, risultati controversi o ambigui nel “resto” del mondo, con paesi che si sono inseriti con successo nei nuovi mercati globali e paesi (poveri) rimasti ai margini delle politiche economiche globali1.

 

  1. Cfr. A. D’Antono, B. Fiore, Situazione macroeconomica e nuove povertà, in “Persone senza dimora”, ad est dell’equatore, Napoli, 2018.