L’importanza dei simboli

 

La conquista dello spazio, avventura costosa e non indispensabile per la vita umana, ha avuto una forte valenza simbolica nella competizione tra i blocchi USA-URSS al fine di affermare le rispettive supremazie tecnologiche e militari. È anche servita a riconquistare il consenso popolare in un periodo in cui gli USA combattevano una incomprensibile guerra in Vietnam e l’URSS usava il pugno di ferro con i Paesi del Patto di Varsavia.

In tutt’altro contesto, l’aspetto simbolico ha guidato la scelta del panda gigante quale emblema del World Wildlife Fund (WWF), alla sua fondazione nel 1961. Il panda gigante, allora come oggi animale in pericolo di estinzione, fu ritenuto idoneo ad essere un forte simbolo perché oltre al suo status di specie in via d’estinzione aveva la capacità di ispirare tenerezza e simpatia. La logica era: il simpatico panda gigante si salva agendo contro la deforestazione e il bracconaggio ma tale azione preserva anche l’ecosistema locale.

L’impatto antropico sul sistema Terra è un fatto consolidato: ha cominciato ad essere rilevante, ma locale, da quando l’Uomo, inizialmente cacciatore-raccoglitore, è diventato agricoltore e pastore e si è pericolosamente globalizzato dall’inizio dell’era industriale, a metà ‘800. Persino l’agricoltura con le coltivazioni intensive è diventata madre delle deforestazioni e dell’accumulo di diserbanti e di concimi chimici nelle falde acquifere. 

Oggi, il cambiamento climatico, con i suoi frequenti eventi estremi, è diventato il simbolo di tale impatto. Però il clima, come anche il buco dell’ozono, ha una variabilità naturale su diverse scale temporali e ciò fa gioco alle tesi dei negazionisti dell’origine antropica. Inoltre, la variegata tipologia degli scenari climatici previsti dagli scienziati nel futuro disorienta non poco anche il mondo ambientalista. Come se non bastasse, alcune nazioni nordiche, ragionando “linearmente” e “di pancia”, vedono favorevolmente una trasformazione che le può condurre ad un clima mite.

L’eccessiva enfasi che oggi si dà all’effetto più che alle cause rischia di parodiare la gag del film “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni in cui Paolo Bonacelli enumera i problemi della Sicilia finendo per individuare nel “traffico” la vera piaga che “ci impedisce di vivere e ci fa nemici, famigghia contro famigghia“.   

Il problema a monte, come sappiamo, è la perdurante mancanza di una coscienza ambientalista che si possa tradurre, da un lato, in scelte politiche e, dall’altro, in corretti comportamenti individuali e collettivi (ad es., la domanda energetica e alimentare). Il risultato è stato uno sviluppo non eco-sostenibile che, in assenza di drastici ed immediati rimedi, comporterà a breve gravi conseguenze all’intera biosfera.

Tutto ciò si è verificato nonostante che il problema del modello di sviluppo fosse stato ben inquadrato da Aurelio Peccei, economista, manager in Fiat, fondatore di Alitalia e amministratore delegato di Olivetti (nonché partigiano nelle Brigate Giustizia e Libertà, durante la Resistenza). È bene ricordare che, Peccei, nel 1968, presagendo tali scenari, creò una ONG costituita da scienziati, economisti, uomini d’affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti, avente la missione di individuare i principali problemi che avrebbe affrontato l’umanità, anticipandone le possibili soluzioni. Al riguardo, il Club di Roma (dal nome della città in cui si svolse la prima riunione, ospitata nella sede dell’Accademia dei Lincei) commissionò uno studio al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Il MIT ne anticipò i risultati nel 1971 e li pubblicò l’anno seguente nel famoso testo di H. Meadows, L. Meadows, J. Randers, W. Behrens “The limits to growth“, edito in Italia dalla Mondadori come “I limiti dello sviluppo“. Il report, molto articolato ed elaborato con metodologia scientifica, prevedeva ciò che è realmente accaduto ma, seppur all’epoca avesse avuto una certa risonanza, ben presto cadde nell’oblio. I media hanno anche completamente ignorato i due successivi aggiornamenti, pubblicati in italiano da Mondadori nel 1993, “Oltre i limiti dello sviluppo” e nel 2006, “I nuovi limiti dello sviluppo”, in cui veniva messo in evidenza il peggioramento della situazione. 

 

È doveroso ricordare come l’allarme denunciato dal report fosse stato immediatamente ripreso e rilanciato in Italia dall’Ing. Roberto Vacca nel medioevo prossimo venturo (Mondadori, 1971) e negli USA dal biologo Barry Commoner, fondatore dell’ecologia politica ed autore, nel 1971, del famoso libro The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, pubblicato in Italia da Garzanti nel 1972 comeIl cerchio da chiudere“.

Allora, in un mondo a forte incremento demografico, che tende ad un benessere generalizzato e senza limiti, guidato da politiche ambientali miopi e dall’uso intensivo di risorse non rinnovabili, probabilmente il simbolo più efficace su cui porre l’accento attraverso i media ed i social è l’incessante accumulo di rifiuti non riciclabili. I gas serra che stanno provocando un innaturale tasso di incremento termico sono rifiuti degli allevamenti intensivi, dei trasporti e dello stile di vita delle grandi metropoli basati su combustibili fossili. Il continente di plastica formatosi nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico è generato da rifiuti in gran parte di origine alimentare. E costituisce un rifiuto altamente pericoloso l’ingente quantità di scorie radioattive da stoccare e presidiare militarmente nei prossimi millenni.