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“Se i leader non sono in grado di rompere con il passato, di abbandonare le logiche di ieri, non saranno in grado di creare il domani.”

Peter Drucker

 

Nella storia delle organizzazioni produttive il problema del management si pone all’inizio del ‘900, con Frederick Winslow Taylor ed Henri Fayol, che hanno introdotto, rispettivamente, il principio di eccezione e la funzione di direzione, stabilendo così, reciprocamente, l’area delle decisioni organizzative, ossia l’ambito delle varianze organizzative selezionato rispetto alle routine, e le regole della direzione, quindi, programmare, organizzare, comandare, coordinare e controllare, secondo quattordici principi: la divisione del lavoro, l’autorità, la disciplina, l’unità di ordine, l’unità di direzione, la priorità dell’interesse organizzativo su quello individuale, la retribuzione, la centralizzazione, la linea di autorità, l’ordine, l’equità, la sicurezza dell’impiego, la premiazione dell’iniziativa e lo spirito d’appartenenza. Da allora in poi nulla è stato più come prima perché l’empiria e l’arbitrio dei capi reparto è stata sostituita dall’Organizzazione scientifica del lavoro (Osl), che ha investito con Taylor i processi lavorativi del nucleo operativo e con Fayol i processi decisionali nel vertice strategico dell’organizzazione. Dopo la prima rivoluzione industriale (tra il 1760 e il 1890 circa) caratterizzata da profondi mutamenti economici e sociali avvenuti in Inghilterra, per tutto il ‘900 si è diffusa la seconda rivoluzione industriale, con incremento della produttività, espansione dei mercati, crescita dei redditi e dell’occupazione, fino alla grande depressione della fine degli anni venti (crollo di Wall Street e grande crisi) che porta a forti innovazioni tecnologiche e, soprattutto, alla rivoluzione keynesiana, anzi alle politiche keynesiane, costituite soprattutto da investimenti pubblici, tassazione progressiva e protezione sociale, che risollevarono l’economia americana e segnarono la politica economica dell’Occidente fino agli anni ‘70. Oggi siamo immersi nella terza rivoluzione industriale, che secondo Jeremy Rifkin si basa, principalmente, su un cambiamento a livello concettuale del sistema energetico, e, forse, nella quarta, dominata dall’elettronica.

Ma questa è storia e, in parte, teoria, ritorniamo, dunque, al problema posto: la managerialità diffusa, ossia il decentramento delle decisioni organizzative, sulla base delle competenze distintive e degli stessi processi motivazionali.

Secondo la Confederazione Italiana Dirigenti e Alte Professionalità (CIDA), “Il nervo scoperto del nostro Paese è l’eclissi di una classe dirigente che si ponga e proponga come driver di una Società che vuole cambiare, innovare, riscoprire un forte senso etico dello Stato”.    

Se nell’impresa privata la questione del management è posta, sia dal punto di vista storico che nell’attualità, secondo i nuovi criteri della gestione della complessità ambientale e fusione delle tre configurazioni che si sono succedute nel tempo: l’idea imprenditoriale, la razionalità del manager e l’innovazione del leader, il settore pubblico e in particolare le pubbliche amministrazioni, vedi lo stesso Ssn, sono stati solo da poco investiti dalle logiche manageriali, alla continua ricerca della sostenibilità economica di un welfare in affanno per le trasformazioni demografiche ed epidemiologiche della domanda sanitaria e i vincoli di spesa derivanti dall’indebitamento dello Stato e rallentata crescita economica degli ultimi decenni.

È un merito del New Public Management (NPM) aver posto, nel corso degli anni ’80, il problema della governance nelle organizzazioni di servizio pubblico, per migliorare la loro efficienza utilizzando modelli di gestione tipici del settore privato. Nel NPM, i cittadini sono visti come “clienti” e vi è un riallineamento tra i dirigenti del servizio pubblico e i loro referenti politici, così i manager, in un paradigma NPM, godono di maggiore potere discrezionale sul modo di raggiungere gli obiettivi prefissati per loro, la loro prestazione viene valutata e la loro motivazione è guidata dagli incentivi, come il pay-for-performance. Una rivoluzione copernicana rispetto al tradizionale modello di pubblica amministrazione, basato su regolamenti, leggi e procedure amministrative.

Sempre il CIDA afferma: “c’è bisogno di una classe dirigente che ritrovi la propria missione”, evitando che si crei un vuoto in “cabina di regia”, e questo è un problema di tutta la classe dirigente, che necessita di nuovi criteri di selezione e formazione, per il rafforzamento della propria legittimazione sociale, puntando decisamente ad una managerialità diffusa nella PA e in particolare nella sanità e negli istituti della protezione sociale.

D’altronde la stessa logica del NPM mostra dei limiti.

Non basta, infatti, la razionalizzazione delle pubbliche amministrazioni, la privatizzazione di attività produttive pubbliche o esternalizzazioni dei servizi no-core business. Il rischio, in particolare, per la sanità, è un modello ispirato ai principi del neoliberismo che incide in profondità nella relazione tra amministrazione, sistema politico e sistema sociale, in quanto le riforme degli anni Novanta introducono in Italia elementi di mercato nel Ssn: concorrenza e competizione tra fornitori pubblici e privati, attribuzione di responsabilità alle regioni sul versante dell’efficienza economica, vincoli di bilancio, contenimento dei costi. Un modello che ha accentuato le differenze territoriali rendendo più profondo sul versante della salute il solco tra le regioni del Sud e del Nord.

 


 

La via d’uscita sembra essere la re-istituzionalizzazione delle pubbliche amministrazioni, ossia, ridefinire il ruolo della funzione pubblica, orientare le attività produttive verso obiettivi di interesse collettivo, preservare i diritti di cittadinanza.

Ma questo è un processo politico nonché culturale; e la teoria organizzativa ha già affrontato, alla metà del ‘900, le distorsioni delle burocrazie, forma prevalente del settore pubblico, con Philip Selznick (1919-2010), professore emerito di diritto e sociologia all’università californiana di Berkeley, il quale ha studiato i meccanismi degenerativi nelle organizzazioni pubbliche e semi-pubbliche, che per statuto sono tenute a perseguire determinati obiettivi di interesse generale ma che poi, prese in una rete di influenze esterne (o interne), si allontanano da quegli obiettivi. Per Selznick, dunque, è decisiva l’azione della leadership, per ridare uno  scopo all’organizzazione e per creare nei suoi membri il consenso necessario a raggiungerlo, distinguendo due tipi di organizzazioni: quelle strumentali per i servizi tecnici e quelle istituzionali capaci di una progettualità politica, segnando profondamente i futuri indirizzi di ricerca della sociologia delle organizzazioni.

Questo dal punto di vista etico e culturale.

Mentre per quanto riguarda i nuovi modelli organizzativi, sono sempre più influenzati dall’integrazione spinta della tecnologia digitale, sia nelle scelte decisionali, sia nella valutazione dei risultati, sia nel modo di guidare le persone, equipaggiandole nel breve periodo per il futuro. Ma per ottenere ciò, bisogna creare una leadership collettiva e distribuita, perché in questo tipo di organizzazione ciascuno è leader del proprio settore di competenza (leadership orizzontale), ma attraverso una rete di relazioni, di comunicazione e reciproca fiducia, ogni singolo leader viene potenziato dal supporto degli altri leader, attraverso un leader facilitatore della rete (leadership verticale). Qualcuno ha parlato di “monarchia democratica”, ma è certo che il leader del futuro dovrà coinvolgere tutto il talento dell’organizzazione per riprogettare la conoscenza che serve e le attività che vanno completate, per arrivare alla massima efficienza delle prestazioni con lo sforzo o costo minimo e la massima soddisfazione degli stakeholders coinvolti.

 

 

 



[1] Articolo, in parte modificato, già pubblicato con Beatrice Fiore, in ”esperienze di management in ambito sanitario e sociosanitario” nei Quaderni del Master, Dicembre 2019.