(La Napoli di Lea Vergine)

 

 

Nel triste e ininterrotto bollettino di morti senza identità, vite, corpi, nell’enumerazione disumana di cifre che si rincorrono senza sosta, improvvisi due nomi scoppiano come epifanie in un mondo smemorato.

Due nomi come lo spalancare di occhi dopo il coma.

Uno sguardo incredulo sul trapassato remoto.

Lea Vergine e Enzo Mari deceduti per Covid19 a distanza di un giorno l’una dall’altro.

Così nel verde degli anni della memoria, ragazzina odiosamente castana, dedita al perpetuo imbiondimento con colpi di sole, ragazzotta di provincia travasata nell’incubo ricorrente di una città “pretenziosa”, aristocraticamente popolare, scortesemente nobile, fui rapita dallo sgomento del diniego.

No! Quella città non poteva essere la mia città.

Arrivai quindicenne a Napoli. Erano gli anni ’60 del ‘900 e dovetti fare i conti con una concezione della società organizzata gerarchicamente. Dove valevano numerosi clan e boriose lobby.  Clan e sottoclan, gruppi sociali come fiori recisi stretti l’un l’altro da un nastro di rafia.

Gruppi di pressione, logge, cricche, consorterie, congreghe: divisioni incolmabili tra settori, ceti, professioni. Ancestrali ostilità, nobili indifferenze, sindromi di invidia cronica. Scale gerarchiche fermamente osservate.

“Gente ‘e core” si autodefiniva il popolo del sottoproletariato, che conservava astutamente l’antica arte   di escogitare mille modi per fottere il prossimo.

Il proletariato neo industrializzato “metalmeccanico dell’Alfa Sud”, rigidamente politicizzato, abituato a coniugare il mondo solo al maschile.

La borghesia, ceto a cui apparteneva la mia famiglia, nella sua boriosa autostima tendeva ad escludere per principio il lontano, l’estraneo, chi non fosse a sua immagine e somiglianza…c’era sempre un “cafone” alla porta.

La nobiltà (a pensarci bene è una definizione esilarante), la nobiltà nella sua spocchiosa e inutile volgarità era intrisa di insolenza congenita.

Gli intellettuali, gli artisti,” gli spiriti liberi” come alcuni animali riconoscevano soltanto due colori: il loro manicheismo era a volte imbarazzante e potentemente androcentrico.

Qui in questa Napoli, esclusiva ed escludente, il 5 marzo del 1936 venne alla luce Lea Vergine.

Fu allevata dai nonni paterni che la sottrassero ad una madre popolana (ovvero vajassa, vastasa, zandraglia) considerata inadatta a crescere una figlia. Famiglia borghese che mal sopportava l’intromissione di una “plebea” in casa. Lea si chiamò Buoncristiano, e fu una bambina di buona famiglia, di quelle che abitavano i piani alti dei palazzi, lasciando che gli altri occupassero i vasci.

Lea guardava il cielo sopra la madre, ai piani bassi.

I piccolo borghesi sono molto selettivi.

Ma la sua anima gradassa, sguarrona, rivoluzionaria veniva da quell’origine, da quel ventre, da quei cromosomi.

Di lei si dice ancora adesso ” un’aristocratica plebea”, come le donne napoletane ” dolenti ma molto forti”.

Donne che lei ha sempre difeso con la spigolosità della sua spregiudicatezza e l’incredulità della sua purezza. Denunciando il lavoro fantasma di madri, sorelle e amanti, opere firmate dai loro uomini e a loro attribuite.

Lea era bellissima, un vero impaccio che ostacolava la carriera di una donna che voleva essere solo il suo ingegno.  L’orgoglio della sua cultura doveva scontrarsi con la protervia della virilità organizzata che da sempre riesce a zittire il talento femminile declassandolo a mera esperienza corporea, carnale, fisica.

La bellezza in una donna è stata considerata l’unico e solo lasciapassare per far carriera, lavorare, creare.

Il suo corpo vale una messa.  Il suo corpo è carne da macello. Il suo corpo è materia di scambio.

 

 

Una donna bella e di talento, bella e intelligente, bella e libera spaventa. Spaventa a morte perché il suo è il coraggio di chi rompe gli argini, di chi nuota controcorrente, di chi dice NO.

Lea ha difeso il suo sapere contro il fottuto maschilismo di quegli anni portando in tribunale chi insultava il suo lavoro.

L’arte in quegli anni era centrale a Napoli e “risplendeva” tutta nella figura di Lucio Amelio e la sua “Modern Art Agency”.  Nella sua galleria a Piazza dei Martiri passavano i più interessanti artisti di allora. C’erano in quel luogo, in Amelio, i colori del MoMA, l’aria tesa della Grande Mela, l’amicizia di Andy Warhol.

Città fucina di cultura, dove per tutte le strade e le piazze si aprivano teatri d’avanguardia, cineclub, circoli culturali.  Dove si sperimentavano   forme artistiche e teatrali. Dove nascevano i primi suoni di musica elettronica.

Crogiuolo di esperienze artistiche, esseri umani, vite vissute.

Completamente diversa dall’attuale incubo di estenuanti B&B per turisti frettolosi, pizzofagi cellular muniti.  “Cape ‘e morte e Sanghe ‘e San Gennaro”. 

Scrittori, pittori, critici d’arte, giornalisti, musicisti, attori, registi teatrali e teste pensanti.

È questo lo straordinario habitat di Lea Vergine.  “Lo straordinario quotidiano della città di Napoli” a cui Lea fa riferimento molti anni dopo.

Critica d’arte e scrittrice, ma soprattutto donna, lotta strenuamente contro i luoghi comuni esibendo un’autoironia tutta partenopea. Sposa giovanissima Adamo Vergine, in odore di omosessualità, lascia la facoltà di filosofia per scrivere d’arte e nel 1964 collabora con Carlo Giulio Argan alla rivista ” Linea Struttura”.

Nel 1968 a 30 anni abbandona la sua città, odiata come solo Napoli può esserlo, e va a Milano a lavorare e a sposare Enzo Mari, uno dei più geniali designer di quei tempi.

È lì che diventa la Lea Vergine che ha sempre voluto essere, lontana da una città da lei definita “Una madre molto amata che non solo non ricambia l’amore, ma combatte la figlia.”

Milano le è estranea, non le piace, a suo parere è una ” Città bruttissima”.

La verità è che Lea non sta bene in nessun luogo. Donna di talento, scrupolosamente nobile di intelletto, libera di spirito ha vissuto il mondo come una esploratrice che segna le nuove scoperte sulla carta, ma non riesce ad entrarci dentro, a visitarle, a  divorarle, a nutrirsene.

Su molte cose mi trova d’accordo e complice ma su una cosa le sue sono le mie parole “La vecchiaia è una catastrofe, non ascoltate quei coglioni che dicono che è l’età della libertà, non è vero”…

Sì Lea, io sono con te: “La vecchiaia è una malattia”.