“Da un certo punto in avanti non c’è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare.”

Franz Kafka

 

Il titolo di quest’articolo non può che riportare all’ultimo racconto di Franz Kafka “Josefine la cantante” scritto nel 1924, quando l’autore era già malato e pubblicato postumo. La storia è molto semplice: i topi sono tutti eguali e conducono la stessa vita, uniforme e grigia, irta di pericoli e fatica giornaliera; il loro flebile fischio è l’unica cosa che rompe il silenzio delle catene del quotidiano. Eppure ogni tanto il popolo dei topi interrompe il suo incessante movimento e si ferma ad ascoltare il canto di Josefine, che è nient’altro che un fischiare, seppure Josefine sia convinta di cantare e gli stessi topi di ascoltare, finalmente liberati dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza quotidiana.

Dunque, Josefine crede di cantare e il popolo dei topi confida in un’esperienza liberatoria, ma il flebile canto di Josefine è così diverso dal semplice fischio del suo popolo? In Josefine c’è illusione e arroganza o il tentativo di separarsi dalla miseria della vita? E il popolo dei topi riconosce il suo talento o ha solo bisogno, nella sua saggezza, di collocare il canto di Josefine così in alto da poterlo ambire e conservare? Insomma, arte o natura? Caducità o eternità? Piattezza o elevazione[1]?

Questa la storia ma riandiamo al testo da me tante volte letto e riletto.

Da un certo punto di vista il popolo dei topi ha un rapporto ambiguo con il mondo della musica: esso “è negato alla musica”, e ancora, “la nostra razza, tutto sommato non ama la musica, silenzio e pace, ecco per noi la musica più gradita”; eppure sembra comprendere il canto di Josefine, in quanto “quel canto è talmente bello che anche l’udito più ottuso ne resta conquiso”. D’altronde, la stessa Josefine, pur convinta di cantare, nega la comprensione del canto da parte del popolo dei topi, i quali a loro volta si interrogano sul fatto che il canto di Josefine sia poco più dell’abituale fischiare della nostra razza. Anche se, allo stesso tempo, Josefine è la sola eccezione: “ama la musica e sa interpretarla”; è l’unica; “morta lei la musica scomparirà dalla nostra vita, chi sa per quanto tempo”.

Kafka dipinge magistralmente, in questo breve racconto, tutta l’ambiguità dell’opera d’arte e tutta la sua fragile potenza che separa l’arte dalla natura; la grandezza dell’opera d’arte dalla fugacità del suo creatore, ciò che perdura come ricordo (il canto) da ciò che è destinato a morire (colui che canta)[2].

Anche se, ricorrendo alla memoria del popolo dei topi “possediamo alcune tradizioni circa il canto”. Ne parlano le leggende, ma “sussistono canzoni che, naturalmente, nessuno è più in grado di cantare”. Dunque se “abbiamo un’idea di ciò che il canto è” nonostante ciò “l’arte di Josefine non corrisponde affatto a quell’idea”.

È piuttosto vero che “tutti noi fischiamo, ma nessuno pensa che questo sia un’arte”. La stessa Josefine “nega ogni rapporto tra il fischio e l’arte sua” e non si cura di coloro che sono di parere opposto, “rispondendo con un sorriso evidente e sprezzante”; pur essendo all’apparenza “la delicatezza personificata” e affermando con ciò una distanza incolmabile con il suo popolo, la cui esistenza “è molto agitata, ogni giorno reca sorprese, affanni, speranze e spaventi. Allora “Josefine sente che la sua ora è venuta” e “tosto anche noi ci immergiamo nel sentimento della folla, che tutta accaldata, corpo contro corpo, osando appena respirare, ascolta”.

Potremmo pensare che il nostro popolo è “incondizionatamente devoto a Josefine a motivo del suo canto”. Ma non è il caso: “il nostro popolo ignora la dedizione incondizionata” piuttosto è dedito “all’innocente malizia, il puerile cicaleccio, il pettegolezzo inoffensivo e non può darsi incondizionatamente”, nonostante gli sforzi di Josefine e della sua debole gola. Purtuttavia il canto di Josefine sembra sollevare dalle fatiche quotidiane il popolo dei topi; infatti se la notizia “che ella ha intenzione di cantare si diffonde tosto, e tosto i miei concittadini giungono a schiere”, è perché chi non l’ha udita ignora il potere del suo canto. Eppure, non tutto il popolo dei topi crede fino in fondo all’arte di Josefine, confondendola con il comune fischiare, e sia pure anelando a qualcosa che, a dispetto della grigia e muta quotidianità, li elevi oltre la dura realtà. Infatti, il canto di Josefine, “atto taumaturgico, evoca un popolo che, in un tempo di estasi e grazia, dimentica sé stesso e si raccoglie attorno all’artista, (donandosi) alla gioia infantile del gioco”[3].

Ma a questo punto è lecito chiedersi: è il popolo a prendersi cura di Josefine? Difendendo le sue ambizioni di canto, lontane dalle necessità quotidiane e tuttavia necessarie a placare le preoccupazioni giornaliere o la stessa Josefine ritiene di proteggere il suo stanco popolo di affanni, facendogli intravedere una diversa realtà e muovendoli verso la libertà dell’anima?

 

 

Scrive Kafka: “il nostro popolo non conosce la gioventù solo una brevissima infanzia; ecco perché spesso si invoca che ai bambini vengano concessi speciali libertà e speciali riguardi, che si riconosca loro un po’ di spensieratezza, di gioco, anche se “la nostra vita è siffatta che un bimbo appena in grado di correre deve pensare a sé come un adulto”. D’altronde la stessa Josefine, in virtù del suo canto, richiede, in verità invano, di essere esonerata dalla lotta per l’esistenza, nella quale sta concentrata la massa del pubblico. Ma allora: è fischio o canto? Certo il fischio è “la lingua del nostro popolo”, taluno fischia tutta la vita e non lo sa, mentre con Josefine “il fischio è liberato dai lacci della vita giornaliera e, per breve tempo, libera anche noi”. Certo a quelle audizioni non vorremmo rinunciare, anche se distinguiamo gli adulatori dalla gente comune e sappiamo riconoscere, nel gran concorso di pubblico, il pericolo che perennemente ci sovrasta, “così avvezzi a soffrire, esperti della morte e rapidi nella soluzione”. Se è giusto osservare quanto Josefine sia “al di fuori della legge”, è pur vero che “quando Josefine torna a intonare il suo canto dove le piaccia, quando le piaccia, ecco che tutti le corrono intorno”. E se è vero che più di una volta, e da gran tempo, “Josefine lotta perché, in considerazione dell’arte sua, la si sciolga dall’obbligo di lavorare” bisogna considerare che questa richiesta cui aspira “è solo il riconoscimento ufficiale definitivo dell’arte sua”.

E se pure, cosa impossibile per il suo carattere, Josefine si sente invecchiare, sentendo sempre più lontano il suo riconoscimento, per l’affievolirsi della sua voce, da perdere così la sua ultima battaglia, “ella stende la mano verso la corona più alta non perché in quel momento questa discende un po’ a sua portata, ma invece proprio perché è la più alta.

Ma Josefine non cede: “ultimamente ella ha dichiarato di essersi ferita un piede mentre lavorava, il che le rende molto gravoso il cantare stando in piedi”; protesta stanchezza, malumore e debolezza, ma se pur si accascia per un momento, “torna a risollevarsi e alla fine canta non molto diversamente dal solito”.

Finché un giorno “che si aspettava che cantasse ella non comparve”.

Pensò il popolo dei topi: “Josefine è sparita, ella non vuol cantare, non vuole essere scongiurata di cantare, questa volta ci ha proprio piantati”. Ma “Josefine è destinata al declino. Presto verrà il tempo in cui lancerà l’ultimo sibilo, poi starà lì, muta”.

Eppure “il nostro popolo saprà sopportarne la perdita”. Certo rimarrà il dubbio che le adunanze si reggessero su due false verità: Josefine cercava l’arte ma l’ha mai raggiunta? E il popolo dei topi ascoltava veramente la musica di Josefine o per sopravvivere si accontentava dell’illusione di un fischio?

Siamo destinati al silenzio o l’arte può dare la voce al popolo dei topi? La vicenda di un popolo e della sua Josefine potrà essere ricordata? Probabilmente no. Non rimarrà neppure la memoria di una perdita. Il nostro popolo dimenticherà la propria storia “poiché noi non scriviamo la nostra storia “. Infine Josefine “sciolta dal tormento terreno che a suo parere la sorte riserva agli eletti” sublimata e liberata “verrà dimenticata anche lei come tutti i suoi fratelli”.

 

Ma occorre ricordare che la “metamorfosi” gioca un ruolo fondamentale sia nella letteratura che nella filosofia.

 

Nel primo caso il tema è il protagonista di un lungo racconto, Gregor Samsa, e l’alienazione borghese.

In Kafka, i topi di “Josefine la cantante” vogliono rappresentare la sua visione dell’essere umano nel mondo contemporaneo. Persone totalmente ordinarie, stereotipi dell’uomo borghese, come nel pregevole racconto “La Metamorfosi” in cui “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto”; incipit della sua narrazione, riassumibile nella metafora che se il mondo così com’è non può cambiare siamo noi a trasformarci. “L’insetto in cui si trasforma Gregor Samsa non è altro che la reazione alla perenne, seppur inconsapevole, condizione di “prigionia” a cui era costretto”[4].

Diverso il percorso della filosofia grazie a Friedrich Nietzsche.

Decisivo in questo caso è rispondere alla domanda: come diventare “oltreuomo”?

Infatti, le metamorfosi usate dal filosofo tedesco sono tre: e diversamente da quella kafkiana, indicano un percorso positivo, ascendente, di metaforica trasformazione dal cammello al leone e fino al fanciullo. Dal peso delle “gobbe” (tu devi) alla forza del leone (io voglio). A questo punto lo spirito si è fatto fanciullo, e come un bambino, con la sua “innocenza e dimenticanza” (il gioco del creare) riprende una nuova vita. Dunque, “l’uomo nietzschiano è diventato ubermensch”: “superuomo” o “oltreuomo”, oltrepassando gli ostacoli che gli sono stati imposti e può “conquistare quella libertà in cui Kafka non credeva”[5].

È questo il caso di Josefine?

 

 

Profilo di tigerag su Digiland (libero.it)

[2] Josefine la cantante o il popolo dei topi di Franz Kafka in scena al Candiani di Mestre – Josefine la cantante o il popolo dei topi di Franz Kafka in scena al Candiani di Mestre (connessomagazine.it)

[3] Josefine | Teatri di Vetro

[4] Vittoria Boninsegna, Kafka e Nietzsche ci parlano di metamorfosi: due visioni agli opposti, https://www.ilsuperuovo.it/kafka-e-nietzsche-ci-parlano-di-metamorfosi-due-visioni-agli-opposti/

[5] Ibid.