L’arte suprema della guerra è quella di sottomettere il nemico senza combattere.
Sun Tzu

Non riesco a staccarmi da “La Guerra di Putin”, il mio articolo pubblicato sull’ultimo numero di Caos Management, sempre sotto la spinta emotiva degli eventi che a vario livello si sono succeduti dal giorno dell’offensiva militare iniziata il 24 febbraio 2022 dalle Forze armate della Federazione Russa, che hanno invaso il territorio ucraino, segnando così una brusca escalation della crisi russo-ucraina in corso dal 2014.

Conflitto vecchio e non “fulmine a ciel sereno” come si è voluto far credere, all’inizio, all’opinione pubblica sempre più confusa dal modello consumistico (usa e getta) dei mezzi d’informazione frammentati, semplificatori e interessati solo all’audience.

Allora procedo in ordine sparso, nella piena consapevolezza che il mio scritto porrà più domande che risposte e necessariamente incompleto per la complessità storica della quaestio in gioco: a livello bellico, geo-politico, comunicativo, dell’istituto della democrazia, degli interessi nazionali e delle aree o istituzioni politico-economico globali coinvolte. A questo proposito mi sembra indispensabile fare riferimento ai due ultimi numeri di Limes, diretto da Lucio Caracciolo: “La Russia cambia il mondo” e “Il caso Putin” in grado di spiegare il conflitto con sguardo “non di parte” e sufficientemente analitico.

Intanto c’è un “buco nero” nell’informazione di massa, almeno agli inizi, su quanto è accaduto prima dell’invasione russa di queste settimane in Ucraina, che è solo il secondo atto dell’invasione russa nel 2014 di due regioni Ucraine, la Crimea e il Donbass, vista in maniera contrapposta da Russia e Ucraina: Putin la giustificò come una risposta al “colpo di stato” di qualche giorno prima contro il presidente dell’Ucraina pro-Mosca, Viktor Janukovyč, successivamente esautorato. Viceversa per l’Ucraina e i governi occidentali quella del 2014 è stata un’insurrezione popolare in difesa della democrazia, chiamata Euromaidan dal nome della piazza in cui si svolgevano al tempo le maggiori manifestazioni popolari. Ora, la contrapposizione fra Russia e Ucraina nasce fin dall’indipendenza dell’Ucraina, nel 1991. Continua con l’annessione della Crimea alla Russia, che fu il primo evento della crisi russo-ucraina iniziata nel 2014, con il governo filorusso locale che dichiarò la propria indipendenza dall’Ucraina dopo il referendum vinto per l’indipendenza della Crimea e non riconosciuta dai paesi atlantisti nonostante il sospetto di gravi discriminazioni per motivi politici a carico dell’Ucraina. D’altronde sia il referendum del 1991 che portò all’indipendenza dell’Ucraina che il referendum sull’indipendenza del Donbass organizzato l’11 maggio 2014 dai separatisti ucraini filo-russi della Nuova Russia sono stati ritenuti legittimi o meno a seconda che si appartenesse al campo Occidentale o Orientale ex-sovietico. Sta di fatto che Il 21 febbraio del 2022 la Russia riconobbe le repubbliche popolari del Donbass e tre giorni dopo diede inizio all’invasione dell’Ucraina. Il 24 febbraio scorso il Presidente russo, Vladimir Putin, ha giustificato l’invasione dell’Ucraina con l’obbligo morale di proteggere le popolazioni russe e russofone della regione orientale del Donbass, nelle zone di Donetsk e Lugansk a suo dire vittime di “genocidio”.

Questo a livello bellico.

In termini geo-politici la questione è, paradossalmente, più complessa ma anche molto semplice.

In Ucraina si è riprodotta a livello locale la separazione e contrapposizione tra Occidente e Oriente ma anche del Sud del mondo che per tutto il ‘900, e a tutt’oggi, ha caratterizzato politiche estere nazionali contrapposte o di “blocchi” in contrasto tra loro; eventi bellici, strategie politiche, sanzioni economiche e invasioni militari quasi mai legittime o legittimate dall’ONU. In sostanza l’Ucraina si è divisa letteralmente a metà, con un ovest cattolico e filoeuropeo e un est filorusso, che ha la sua acme nelle due repubbliche autoproclamate nel Donbass: Donetsk e Lugansk, dove si parla ancora il russo.

La faccenda a quel punto, come evidente, era prevalentemente diplomatica e negoziale: due culture, valori, sensibilità politiche, aspettative individuali e sociali. In una parola il dilemma era: Occidentalizzazione di tutta l’Ucraina o rientro nell’orbita Russa delle due repubbliche separatiste del Donbass che Putin ha riconosciuto? Nessuna logica negoziale internazionale (o Europea) ha potuto emergere per interessi o dimenticanze nazionali blindate ideologicamente nei rapporti di forza euro-atlantici.

Tra parentesi, secondo Putin, il Dombass è parte integrante della storia e della cultura russa ed entrambe le repubbliche fanno parte della ricca regione mineraria ucraina del Donbass, con considerevoli giacimenti di carbone e risorse minerarie, che hanno avuto il loro peso ma non decisivo. La vera ragione sono gli oltre 5 milioni di abitanti, i 770 mila ucraini che hanno il passaporto russo, gli altri 950 mila residenti che hanno fatto la stessa richiesta. A ciò si aggiunge che le condizioni generali di vita, dall’uscita dell’Ucraina dall’Urss, nel 1991, sono peggiorate sempre di più e chiude il cerchio un legame antico rafforzato da una Chiesa ortodossa locale che si è staccata da quella ucraina per legarsi a Mosca. 

Qui interviene “l’impero americano”.

La vera causa del conflitto risiede nel fatto che la Russia di Putin si è da sempre mostrata contraria al desiderio dell’Ucraina di entrare a far parte della NATO e, in generale, di avvicinarsi all’influenza statunitense e occidentale. D’altronde la stessa NATO, in un primo momento, si mostrava tiepida a tali richieste in quanto (almeno teoricamente) le annessioni sono subordinate al criterio generale di non effettuarle in situazione di crisi internazionale conclamata, e questo è proprio il caso in questione. Ma qui siamo ancora nella prima fase di quanto accaduto a febbraio 2022.

Seconda fase della guerra.

Nello scorrere dei giorni abbiamo saputo che da anni (2014) USA e Gran Bretagna armavano l’Ucraina coltivando il suo nazionalismo, le simpatie Occidentali e la russofobia, facendo crescere a dismisura il potere e l’ascendente di Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj cui si è promesso l’ingresso in Europa e nella NATO, ignorando di fatto il problema del Donbass, i cui centri più significativi sono Donec’kMariupol’ e Luhans’k, e nelle cui aree è particolarmente sviluppata l’industria pesante e l’estrazione mineraria. Il Donbass infatti è caratterizzato, come detto, da una popolazione a maggioranza russofona, etnicamente composta da ucraini e russi, considerando pure che a partire dal 2014 la regione è contesa tra il governo ucraino e le repubbliche separatiste di Doneck e Lugansk, sostenute e riconosciute dalla Russia, ma non dai paesi Atlantici.

Ad un certo punto la guerra cambia finalità e protagonisti.

Oramai è tra USA e Federazione Russa con la supervisione della NATO,  la partnership della rissosa Gran Bretagna e il vergognoso accodamento Europeo, in cui si distingue l’Italia e il filo americano Mario Draghi desideroso, secondo alcuni organi d’informazione, di dimettersi da Presidente del Consiglio in Italia e prendere il posto di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato.

La parola d’ordine, a questo punto, è armare Kiev, investire in armamenti, esportarli in Ucraina e sconfiggere Putin sul piano militare, ridimensionandolo a livello geo-politico e facendo rientrare il progetto della formazione della “Novorossia”: dal Donbass alla Transnistria.

Gira anche la bussola della politica estera Italiana (ma anche Europea): prima orientata ad Est (con Donald John Trump) poi ad Ovest (con Joseph Robinette Biden), modificandosi anche il quadro politico interno Italiano (PD schiacciato sull’Atlantismo e Lega e Movimento 5 Stelle moderatamente critiche e osservanti delle procedure istituzionali democratiche del Parlamento). Difficile orientarsi in questo quadro, servono altri strumenti limitatamente razionali in grado di districare i nodi della storia.

Tornando all’attualità l’Europa ha un tardivo risveglio dalla “anestesia Atlantista” fermandosi sul baratro di un “suicidio energetico”.

Le sanzioni alla Russia hanno più effetti negativi sul PIL di Germania e Italia che capacità di incidere sugli equilibri economici della controparte. Perfino Draghi, dopo Macron, mettendo a rischio la sua futura “carriera americana” prova a inserire una diversità tra gli interessi USA e quelli Europei. Deve aver contato lo sbigottimento dell’opinione pubblica nostrana (ma anche in parte Europea) d’accordo sugli aiuti umanitari ma divisa sull’invio delle armi. E se anche il Papa critica “L’abbaiare della Nato…” alle porte di Putin qualche ragione ci sarà. Intanto la stessa NATO lavora oggi sul Baltico cercando ciò che non gli è riuscito sul Mar Nero. Difficile che l’Ucraina entri nell’alleanza atlantica mentre più facile che Svezia e Finlandia, pur essendo già palesemente schierate con l’Occidente, vi aderiscano anche formalmente, ma senza un reale motivo strategico o difensivo. D’altronde la Federazione Russa non sembra molto spaventata da questa nuova provocazione NATO affermando che le contromisure saranno commisurate al livello delle infrastrutture militari installate nei futuri e nuovi alleati atlantici, Turchia permettendo.

Ma in quest’area geografica del profondo Nord gli interessi in gioco vertono sui reciproci rapporti tra gli Stati membri del Consiglio Artico (tra cui USA e Russia) e anche dei Paesi osservatori (tra cui Cina e India) tutti concentrati sull’effetto del cambiamento climatico che aprirà spazi e rotte per l’estrazione di nuove risorse. Dunque non ragioni difensive ma concreti interessi materiali dell’Occidente.

Ultima cosa, agli USA e alla NATO non interessa tanto l’Ucraina e men che mai il suo presidente, che aspira presuntuosamente al ruolo di difensore delle libertà democratiche e degli stessi confini Europei, quanto piuttosto approfittare dell’azzardo Russo per cancellarne identità, confini e valori. Portare a termine il processo di dissoluzione dell’URSS iniziato il 26 Dicembre del 1991, non controllato da Boris Eltsin, il quale nel 1999 cede il suo potere a Vladimir Vladimirovič Putin dopo regolari elezioni. Putin, demonizzato dall’Occidente, ha avuto il merito, sotto il suo primo mandato come presidente, di far crescere l’economia russa per otto anni consecutivi, con il PIL, a parità di potere d’acquisto, aumentato del 72%. Crescita e consolidamento ma graduale processo di arretramento democratico? Qui bisogna intendersi sui criteri di valutazione delle democrazie: valgono le architetture dello Stato, gli effettivi poteri o il consenso? C’è chi ci prova a valutare il grado di democrazia dei Paesi e a livello globale. È il caso del settimanale The Economist che esamina lo stato della democrazia in 167 paesi, ricavandone il Democracy Index, secondo il quale la Russia è un regime autoritario, gli Stati Uniti (che la esportano) sono una democrazia imperfetta mentre la Germania figura, tra poche, come “perfetta”. Dopo la fine del controllo centralizzato il capitalismo in Russia si è sviluppato in maniera selettiva e con l’appoggio governativo. Non c’è stato come in Occidente il salto dal capitalismo alla democrazia, le piccole e medie imprese sopravvivono nell’incertezza, non si è mai formata una classe media, solo ricchi da una parte e una classe privata oligarchica dall’altro. Non è ancora chiaro quale percorso di capitalismo sostenibile sia percorribile in quello sterminato Paese. Dunque, è lecito chiedersi: nella divisione internazionale del lavoro la Russia seguirà la strada seguita dalla Cina? poco probabile. D’altronde, prima della guerra in corso, Putin intendeva realizzare l’obiettivo di migliorare lo standard di vita della popolazione e portare la Russia tra le cinque economie più sviluppate al mondo entro il 2024. Potrà farcela in una logica di capitalismo dirigistico governato considerando che è all’ultimo mandato possibile? L’Occidente vorrà evitare, da parte Russa, l’emulazione della Cina o l’India, più facile disgregare territorialmente la Federazione e usare la strategia dei differenziali di costo territoriali, come avvenuto nella prima globalizzazione. Basterà alla Russia, come traccia di sviluppo economico e sociale, giocare su due fronti, il capitalismo e il socialismo? Farsi trainare dal primo e redistribuire dal secondo? Manca a mio avviso, e dopo Putin, una élite politica e una struttura sociale in grado di farlo. Salvo sorprese del futuro, vedremo.

Proviamo però a trarre delle conclusioni.

La prima: la guerra non è mai una soluzione né politica né etica.

La seconda: bisogna sempre cogliere le ragioni profonde di un conflitto. Mai semplificare distinguendo tra “buoni” e “cattivi”.

La terza: è indubbio che il sostegno all’Ucraina si è progressivamente tradotto in una guerra alla Russia, giusto o sbagliato che sia.

La quarta: gli USA e L’Europa pur alleati hanno obiettivi e finalità anche divergenti. Bisogna prenderne atto.

La quinta: la NATO da alleanza difensiva è diventata offensiva e viene politicamente utilizzata dall’Occidente.

La sesta: la Russia ha sbagliato strategia invece che la guerra doveva usare l’arma delle forniture energetiche (sanzioni inverse) come deterrente per risolvere le sue controversie territoriali con l’Ucraina.

La settima: interna al nostro paese. La Costituzione Italiana non consente la guerra come strumento offensivo e tanto meno forniture d’armi a Paesi belligeranti.

L’ottava: gli USA vogliono l’annientamento della Federazione Russa, la sua crisi e la dissoluzione territoriale che avrebbe conseguenze sociali e politiche nefaste per i territori più esposti alla deflagrazione del suo Impero.

La nona: gli USA hanno già perso la guerra della globalizzazione con la Cina e dovranno rivedere il loro modello di espansione militare e monetario.

La decima: con la scusa della libertà “gli Stati Uniti esercitano un potere di cui non dovrebbe disporre nessun paese”.

William Blum, che ha lavorato prima nel dipartimento di Stato americano, poi dimissionario e giornalista freelance negli Stati Uniti ha pubblicato nel 2002 il libro “Con la scusa della libertà”, Storia dell’impero americano, una “controstoria” degli interventi americani nel mondo dai contenuti radicali.

Da leggere.