Yüan Hsien [discepolo di Confucio] risiedeva a Lu in una casupola di pochi piedi di perimetro, con il tetto coperto di erbe, un usciolo malfermo e malridotto, a cui faceva da cardine un gelso, e finestrelle fatte con orci sfondati e chiuse con vecchi stracci. In alto gocciolava acqua, in basso era un pantano. Ma egli sedeva compostamente e suonava il liuto. Venne a fargli visita Tzu-kung [il più ricco discepolo di Confucio] con una carrozza trainata da grandi cavalli, che non entrava neppure nel vicolo, e una veste purpurea sotto una sopraveste semplice. Yüan Hsien lo ricevette sulla porta con un berretto strappato, le scarpe scalcagnate e un bastone di pruno. «Amico mio!» esclamò Tzu-kung. «Quale miseria!» Yüan Hsien rispose: «Ho inteso dire che non aver mezzi si chiama povertà e studiare senza essere capaci di mettere in pratica si chiama miseria. Ora, io sono povero, ma non sono misero.» Tzu-kung fece un passo indietro e apparve mortificato. Yüan Hsien gli disse ridendo: «Agire per ingraziarsi il mondo, conformarsi per andare d’accordo con tutti, studiare per ottenere la considerazione degli altri, insegnare per il proprio tornaconto, simulare la carità e la giustizia, ostentare carrozze e cavalli – queste sono cose che non sopporterei!»

*** CHUANG-TZU (Zhuang Zi), 369?-283? a.C., filosofo e mistico cinese, maestro taoista considerato fondatore del taoismo, “Un uomo di coscienza”, da “Testi taoisti” , a cura di Franco Tomassini, Utet, 1977, in Claudio Lamparelli, a cura, “La calma” , Mondadori, 1977-1999 (titolazione e adattamento dei testi sono opera di Claudio Lamparelli).

Chuang-Tzu è considerato il fondatore del taoismo. Per trasmettere i suoi concetti, utilizzava spesso degli aneddoti simili a storielle: pensava infatti che se avesse parlato direttamente delle sue intenzioni, gli studenti non le avrebbero accettate perché generalmente nessuno vuole sentirsi dare dei consigli su come vivere la propria vita. In generale, la sua filosofia è basata sul concetto della limitatezza della vita in confronto all’infinitezza della conoscenza: usare il limitato per raggiungere l’illimitato, egli affermava, era impossibile. Per questo bisogna esitare prima di definire qualche conclusione come universalmente vera e valida. (da wikipedia)

LAMENTARSI È UN CLASSICO (mf) – Due considerazioni.

(1) I classici sono tali perché sono sempre attuali: vanno ‘oltre’ il tempo perché attraversano i tempi. Al di là dello stile, questo sì più legato alle diverse modalità espressive dei contesti storici, le analisi e le valutazioni di merito sulle ‘miserie umane’ appaiono sempre fresche di giornata. E magari sono trascorsi oltre duemila anni.

(2) Sono andato a rintracciare una ‘lamentazione’, espressa quasi in forma poetica, famosa agli studiosi, benché sconosciuta ai comuni mortali:

«A chi parlerò oggi? I conoscenti sono malvagi, gli amici di oggi non amano. A chi parlerò oggi? I cuori sono rapaci, tutti rubano i beni del loro prossimo. A chi parlerò oggi? L’uomo onesto è scomparso, il violento ha accesso a tutto. A chi parlerò oggi? Gli uomini si compiacciono del male, la bontà è rigettata da ogni parte. A chi parlerò oggi? Non c’è più gente onesta, il paese è abbandonato a coloro che operano il male. A chi parlerò oggi?».

L’autore è un anonimo egiziano del 2100 a.C. Con il titolo “Il dialogo del disperato con la sua anima” lo troviamo in Edda Bresciani, a cura, “Letteratura e poesia dell’antico Egitto. Cultura e società attraverso i testi“, Einaudi, Torino, 2020, pp. 203-204 (citato in Vito Mancuso, “Etica per giorni difficili“, Garzanti, 2022, estratto, p. 248). Come si legge in questo testo accorato, già oltre 4.000 anni fa e quindi ben prima dei famosi ‘o tempora o mores’ di ciceroniana memoria, si rimpiangeva il tempo andato e si anticipava il ‘dove andremo a finire’ di molti anziani dei tempi odierni, quando li vediamo commentare, sconsolati, lo stato dei cantieri affidati a muratori che-non-sono-più -quelli -di -una-volta o fanno sinergia di brontolamenti su come gira il mondo mentre siedono su una panchina ai giardinetti o giocano a scopa al bar del paese.

Cosa voglio dire? Che non ‘c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole’, perché il sole è sempre quello. O, meglio, in questo caso, ‘noi’, e non il sole, siamo sempre quelli. Ed è appunto perché siamo sempre quelli e non decidiamo mai di cambiare quello che siamo, che le cose non cambiano: perché – banale, lo so – le cose, almeno quelle che più ci riguardano, cambiano se vengono fatte cambiare da noi. Del resto è così che a furia di ripetere dove andremo a finire non ci accorgiamo di dove siamo già andati a finire. Fastidioso ricordarlo, ma necessario non dimenticarlo.

Massimo Ferrario

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