La gestione della società all’interno delle organizzazioni 1

Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi, ma mai nessuna di esse potrà porne uno.” Albert Einstein

Siamo arrivati all’ottavo contributo sulle scienze dell’organizzazione, esplorando le teorie dell’organizzazione, divise in due parti: in questo numero soggetti e azione organizzativa e nel successivo le teorie dell’ambiente.

Ma ricapitolando, nel primo abbiamo esaminato la nascita del problema organizzativo a partire dal mercato (Caos Management 153); nel secondo si è vista la doppia ricerca nelle organizzazioni di certezza e di flessibilità (Caos Management 154); mentre nel terzo è emersa la crisi della forma burocratica (Caos Management 155) e infine nel quarto contributo le decisioni a razionalità limitata (Caos Management 156). Mentre nel quinto articolo la nostra attenzione si è rivolta alla struttura organizzativa e i parametri di progettazione (Caos Management 157). A sua volta questa tematica è stata distinta in tre punti: struttura e parametri di progettazione, già affrontata nella prima articolazione pubblicata, i meccanismi di coordinamento successivamente descritti (Caos Management 158) e l’analisi delle microstrutture affrontata nello scorso numero de il (Caos Management 159).

Riprendiamo il filo

Perché alcune teorie nella fase storica della prima metà del ‘900 si definiscono “società all’interno delle organizzazioni”? Il problema è che si riferiscono agli attori e ai comportamenti organizzativi, staccandosi già dalla visione classica (primi decenni) impiantata su tecnologia e strutture, in quanto i soggetti dovranno faticare a farsi riconoscere in termini di “partecipazione” e “motivazione”, entrando poi nel campo delle “decisioni organizzative”, delle “competenze distintive” e infine nell’ambito della “cultura organizzativa”. D’altronde oggi quello che fa la differenza competitiva sono le “persone nell’organizzazione”.

In questo contributo ci soffermeremo su questa prima fase mentre nella successiva (nel prossimo numero de Il Caos management) esploderà il tema dell’”ambiente organizzativo”, attivando strategie e scelte di progettazione organizzativa. In sintesi, se all’inizio del pensiero organizzativo l’organizzazione determina il proprio ambiente nei decenni successivi (seconda metà del ‘900) la configurazione ambientale si misura continuamente e intensamente con l’incertezza e variabilità dei contesti organizzativi.
La materia è complessa e articolata, ma vediamo di tracciare un sentiero di senso con argomenti semplici ma significativi allo scopo. Cominciamo.

Distinguere tra proprietà e management

Nel 1937 in un celebre libro, Le funzioni del dirigente 2 , C. Barnard, imprenditore e studioso di fenomeni organizzativi, elabora la sua teoria dell’organizzazione come sistema cooperativo, sulla base dello scambio contributi-incentivi e la produttività del fattore cooperativo, in quanto la partecipazione organizzativa dei soggetti è sempre frutto della valutazione dei costi (contributi dati) e benefici (incentivi avuti).
L’apporto di Barnard si spinge fino a rifondare lo stesso concetto di efficienza, sganciato dal significato classico di differenza tra costi e ricavi aziendali, e riportato all’equilibrio economico dei partecipanti all’impresa (lavoro, capitale, management), precursore, dunque, della moderna teoria degli stakeholder (o portatori di interesse). In sostanza il merito di Barnard è svelare la differenza tra una personalità organizzativa versus la personalità individuale, aprendo la strada alla possibile integrazione delle due realtà, che una volta riconosciute si offrono come (nuovi) e più efficaci strumenti manageriali, riassumibili nella domanda: qual è l’interesse del lavoratore che può coincidere con gli obiettivi aziendali?

Per esempio, secondo Barnard, gli incentivi non sono solo materiali ma anche simbolici, anticipando per un verso le tematiche motivazionaliste (se non quelle culturali e simboliche) e per l’altro introducendo la strategia manageriale dell’incremento dell’area di indifferenza, secondo cui la struttura e la valenza degli incentivi può aumentare la nuova disponibilità (leggi mobilitazione) dei lavoratori nei confronti degli obiettivi d’impresa.

A questo punto il management ha almeno due certezze: la prima gli deriva dall’eticità della propria azione distributiva (di risorse) tra i fattori di produzione, per raggiungere l’efficienza aziendale, mentre l’efficacia è assicurata, metodologicamente, da una corretta comunicazione d’impresa e chiarezza degli obiettivi. La seconda è la consapevolezza di poter incrementare la produttività del lavoro tramite incentivi di varia natura, anche immateriali, e dunque compatibili con i ricavi d’impresa, per l’innata produttività del fattore cooperativo (che moltiplica l’incidenza dei singoli contributi) e l’intangibilità delle ricompense al lavoro, particolarmente gradite da alcune “popolazioni organizzative”.

In più, la fondazione etica del management avrà, come visto, importanti conseguenze nel tracciare i percorsi manageriali non convenzionali (non semplicemente economicistici) e nulla sarà più come prima nel rapporto individuo-organizzazione, oramai sdoganato dagli assetti tecnocratici del taylorismo e dalla razionalità assoluta dell’impianto classico.

Human Relations Movement

Ma saranno gli esperimenti di E. G. Mayo alla Western Electric di Hawthorne (1927-1932) 3 a dare una svolta al rapporto tra tecnologia, produttività del lavoro e relazioni sociali.

Le ricerche condotte da Mayo, in tempi diversi (1933 e 1945), misero in luce una maggiore produttività delle operaie coinvolte inversa alle condizioni ambientali di lavoro (ossia se diminuiva l’illuminazione non c’erano ricadute sulla quantità e qualità del lavoro svolto) e i ricercatori provarono a interpretare diversamente i fattori che incrementavano la produttività, arrivando alla conclusione che il “clima” che si era determinato nell’ambito degli esperimenti sosteneva (e stabilizzava) gli elevati ritmi di lavoro.

Per la prima volta la tecnologia (intesa in senso lato) era una variabile indipendente dalla produttività mentre le “relazioni umane” (che daranno il nome al nuovo paradigma teorico) erano il vero motore degli incrementi di produttività, per cui la scoperta del “fattore umano” diventa una nuova leva manageriale per la gestione dei gruppi di lavoro e lo stesso “gruppo”, una possibile innovativa configurazione organizzativa ad elevato impatto sull’efficienza delle imprese (odierno team).

Per la prima volta anche la dimensione irrazionale (l’umore delle lavoratrici) trova spazio nell’azione dei dirigenti, costretti a prendere atto di un effetto “Hawthorne” che si sovrappone alla rigidità della formalizzazione dell’organizzazione sociale dell’impresa. In quanto se il “fattore umano” era stato sempre considerato come un limite al progetto tecnocratico della scuola classica, poteva diventare, invece, sempre più funzionale alla gestione della crescente complessità tecnologica dei processi lavorativi e vulnerabilità aziendale nell’ambiente di riferimento (sempre più incerto).

A questo punto dello sviluppo organizzativo, il management dispone di due leve importanti per il “controllo” dei dipendenti: le regole dell’equa partecipazione organizzativa (Barnard) e le Human Relations degli esperimenti di Hawthorne, in attesa che si sviluppi un’altra fase del pensiero organizzativo, quella dei motivazionalisti con i loro “contenuti” e “processi” motivazionali, di seguito esaminati.

Motivazioni primarie e secondarie

A.H. Maslow (1908-1970) elabora una teoria basata sulla gerarchia dei bisogni, primari (fisiologici, sicurezza) e secondari (appartenenza, stima e autorealizzazione) mentre C. P. Alderfer nel suo lavoro Existence, relatedness and growth (1972), distingue tra bisogni esistenziali, relazionali e di crescita (E.R.C.) mentre la teoria dei bisogni di McClelland (1965) fa riferimento al “successo”, “affiliazione” e “potere”. Alla fine, abbiamo la piramide di Maslow e i bisogni di base, traslato nel modello a tre vertici di Alderfer e la sintesi delle sue categorie di bisogni e lo stesso modello a tre vertici di McClelland con le sue innovative istanze motivazionali. È possibile, dunque, mettere in relazione il modello di Maslow e quello di Alderfer che sintetizza in tre categorie di bisogni la piramide di Maslow formata da cinque livelli 4 .

Ma a questo punto bisogna indagare le implicazioni manageriali di queste teorie basate sui contenuti motivazionali.
Secondo Maslow il management deve tenere conto della sua scala di bisogni (primari e secondari) nel progettare le mansioni e i ruoli organizzativi (ossia le microstrutture dell’organizzazione). La crescita dei soggetti deve essere accompagnata dall’organizzazione nella maggiore complessità dei loro compiti, con lo stesso “sviluppo organizzativo” che beneficia di nuove motivazioni (e competenze) degli attori.
Stesso discorso vale per Alderfer, con la precisazione innovativa che la sequenza dei bisogni non è progressiva e vincolata ma anche sostitutiva; per cui l’impossibilità a soddisfare un bisogno secondario porta il soggetto a rifugiarsi (di nuovo) in un bisogno primario.
Diversi sono i contenuti motivazionali secondo McClelland che inserisce insieme all’affiliazione già presente negli altri schemi, il potere e il successo (o la riuscita), riflettendo anche la maggiore complessità tecnologica dei processi organizzativi e le attese di performance eccellenti nel corso dello sviluppo organizzativo.

È ovvio che la collocazione delle persone nell’organizzazione, così come la progettazione delle mansioni, debbano tener conto dei bisogni e attitudini individuali. Almeno per il momento teniamo presente che tutti i partecipanti all’organizzazione abbiano aspettative di crescita lavorativa o professionale e che, in particolare, i bisogni di affiliazione o relazione debbano orientare i responsabili delle risorse umane a posizionare i soggetti in “gruppi di lavoro” o in posizioni lavorative comunicative o nelle unità operative basate sul “clima” organizzativo. Mentre la predisposizione all’esercizio del potere favorirà l’inserimento del soggetto nella linea intermedia della macrostruttura (line), ossia la gerarchia dell’organizzazione, così come il bisogno di successo si realizzerà più facilmente nei “gruppi di progetto”, nell’ambito dei processi di innovazione e dove è necessaria una elevata performance organizzativa (presumibilmente staff e tecnostruttura).

In estrema sintesi possiamo affermare che la “formalizzazione” dei processi si adatta ai portatori di “bisogni primari” mentre la “formazione” si adatta meglio ai “bisogni secondari”. Tradotto in linguaggio strutturale e progettuale le mansioni saranno meno specializzate orizzontalmente e verticalmente (molti compiti e decisioni) per i bisogni secondari e più specializzate verticalmente e orizzontalmente (meno compiti e assenza di decisioni) in rapporto a bisogni inferiori o primari.

I fattori duali

Ma non è sempre vero che la crescita dei soggetti sia una motivazione universale per gli attori organizzativi. A questo proposito F. I. Herzberg (1923- 2000) 5 distingue i fattori duali per diverse popolazioni organizzative, ricercatori di “motivazioni” e ricercatori di “igiene”, caratterizzando i fattori motivanti (risultati, contenuti del lavoro, responsabilità e avanzamento di carriera) e i fattori igienici (livello retributivo, condizioni di lavoro, politiche del personale e controlli). Il compito dei manager sembrerebbe a questo punto facilitato, svincolato dai bisogni di crescita (dei lavoratori e della stessa azienda), dovendo solo distinguere diverse popolazioni organizzative, attitudini e aspettative (per esempio i ricercatori di igiene saranno più facilmente collocabili nel nucleo operativo della macrostruttura mentre i ricercatori di motivazione nelle relazioni di staff e vertice strategico). Anche se il problema si ripropone, a livello teorico ed operativo, quando l’autore afferma che la presenza dei fattori igienici determina solo assenza di insoddisfazione mentre soltanto i fattori motivazionali sono in grado di determinare soddisfazione dell’operatore.

Teoria aspettativa-valore

Ma sul piano del “processo” motivazionale l’approccio fondamentale è la teoria dell’aspettativa – valenza, elaborata da V. Vroom (1932-vivente), secondo cui > motivazione = valenza x aspettative x strumentalità, ossia il ragionamento che fa il lavoratore è: quanto vale la ricompensa? Che relazione c’è tra sforzo e prestazione? E, soprattutto, si interroga sulla relazione tra prestazione e risultato.
D’altronde il manager, a sua volta, deve impostare il suo comportamento nella seguente modalità: valorizzare la ricompensa, fornire un obiettivo raggiungibile e rassicurare il dipendente sulla strumentalità del suo comportamento (ossia la sicurezza della ricompensa). L’estensione di questa tecnica motivazionale, per merito di Porter e Lawler (1968), parte dallo sforzo (valenza>strumentalità) arriva alla prestazione (condizionata dalle competenze e contesto organizzativo) per chiudersi nella soddisfazione (tramite ricompense intrinseche o estrinseche), con il sigillo della percezione dell’equità organizzativa (quindi il confronto positivo o negativo con gli altri) 6 . Il processo decisionale, approccio razionale e sufficiente 7.  Qui entriamo in un altro campo; bisogna riconoscere che la decisione è proprio il focus dell’azione manageriale e ci sembra opportuno esaminarla dal punto di vista strutturale, come ciclo decisionale che coinvolge differenti parti della macrostruttura, diversi attori organizzativi, in un ordine sequenziale e temporale ben preciso. Il continuum di controllo (o decentramento) del processo decisionale parte da uno stimolo (input) e si serve di informazioni valutate da attività di consulenza da parte di esperti di staff, successiva scelta da parte del decision maker, attivazione e controllo della line, autorizzazione ed esecuzione del nucleo operativo, conseguente azione che risponde ed esaurisce lo stimolo iniziale.

Ma H. Simon, nel suo libro Il comportamento amministrativo (1958) 8 , cambia i presupposti teorici della decisione organizzativa. I manager e gli imprenditori della fase classica avevano utilizzato il criterio della razionalità assoluta, di derivazione economicistica, secondo il quale le scelte erano sempre razionalmente conseguite, tutte le conseguenze previste o prevedibili, i presupposti conosciuti o conoscibili, secondo la regola della massima efficienza ed efficacia.

Il progressivo sviluppo organizzativo, dai modelli meccanici a quelli organici, dalle logiche dei sistemi chiusi alle nuove logiche dei sistemi aperti, sostituiscono l’uomo organizzativo all’homo oeconomicus. Così, i comportamenti organizzativi dei decisori non utilizzano più il criterio della massima efficienza ma quello (ridimensionato ma più gestibile) della sufficienza, nella scelta dei fini, delle procedure adottate e conseguente valutazione delle scelte.
Siamo oramai nell’epoca della razionalità limitata, dove valgono solo le strategie di incremento della razionalità (più informazioni e competenze decisionali), efficienza del ciclo strutturale della decisione (tempi e metodi di coinvolgimento degli attori e unità organizzative implicate). Sarà compito del management districarsi tra la molteplicità dei processi decisionali, decisioni di routine, critiche o esplorative, con presupposti metodologici razionalmente decrescenti, nel passaggio dai programmi organizzativi alle innovazioni tecnologiche e gestione del cambiamento ambientale.
Spesso le decisioni sono negoziate e in qualche caso completamente irrazionali come nel Garbage can model 9 (o modello a cestino dei rifiuti), dove casualità, priorità, possibilità e necessità delle scelte si incrociano senza una logica organizzativa ma solo affidate al caso (come nelle anarchie organizzate).

Dopo aver esaminato i principali comportamenti organizzativi (partecipazione, motivazione e decisioni) Concludiamo l’ottavo contributo con un doveroso contributo all’azione organizzativa di seguito esposta.

L’azione strategica a due velocità

Ritornando, infine, sinteticamente su J. D. Thompson 10 che nella sua opera L’azione organizzativa (1967) 11 , si situa al confine tra le teorie dell’azione organizzativa e le teorie dell’ambiente (anticipando anche il prossimo articolo che completerà il quadro delle teorie).

In primo luogo, secondo l’autore, è ammessa, nelle organizzazioni, la convivenza tra razionalità assoluta e relativa, sul piano dei comportamenti degli attori ma anche a livello di struttura organizzativa.
In secondo luogo, le razionalità diventano tre: quella tecnica (del nucleo tecnico- produttivo), la razionalità organizzativa limitata (rivolta ai confini dell’ambiente o dominio dell’organizzazione) e la razionalità istituzionale (quella rivolta al general environment). Il management deve progettare e gestire, dunque, le organizzazioni come mondi separati, con logiche differenziate e potenzialmente conflittuali, finalizzate al controllo dell’incertezza (a sua volta variabile rispetto al contesto).
Secondo Thompson l’organizzazione è interpretabile secondo la metafora del “frutto”, nocciolo, polpa e buccia. Con il livello operativo e tecnologico (il nocciolo), il livello istituzionale (la buccia) e le funzioni manageriali (la polpa), e con la razionalità dei comportamenti organizzativi che si distribuisce differentemente a seconda che riguardi il nucleo operativo (assoluta), il livello manageriale (relativa) e la dimensione ambientale (istituzionale). In definitiva il management ha il compito di mediare le istanze dell’ambiente (mercati, istituzioni, stakeholder) con l’efficienza e la produttività del nucleo operativo (tecnologia, competenze, input e output) e tramite funzioni di staff a livello intermedio (relazioni con il pubblico, relazioni industriali, ricerca e sviluppo, e marketing).

Note

1. Gli articoli sono tratti da Antonio D’Antonio, “Le regole dell’organizzazione” e “La musica del management” editi da “ad est dell’equatore”, 2017 e 2024 (https://www.adestdellequatore.com/categoria-prodotto/kuang11/)
Per eventuali contatti con l’autore la mail è antonio.dantonio@unina.it

2. C. Barnard, Le funzioni del dirigente, Utet, 1970.

3. E. G. Mayo, Hawthorne and the Western Electric Company, The Social Problems of an Industrial Civilisation, First Edition 1998.

4. H. L. Tosi, Massimo Pilati, Comportamento organizzativo. Attori, relazioni, organizzazione, management, Egea,‎ 17 febbraio 2017.

5. F. Herzberg, Motivation to Work, Routledge, 1993.

6. R. Kreitner, Angelo Kinicki, Comportamento organizzativo, Apogeo Education, 2013.

7. Ne abbiamo già parlato precedentemente, al di fuori di questo percorso, nell’articolo “Decision making” (Caos Management 120) e all’interno dei dieci punti, “Herbert Simon e le decisioni a razionalità limitata” (Caos Management 156).

8. H. A. Simon, Il comportamento amministrativo, il Mulino, 2001.

9. Il garbage can model è un modello che rappresenta una modalità decisionale di gruppo, nell’ambito aziendale. Il paper originale in cui venne esposto per la prima volta aveva il titolo “A Garbage Can Model of Organizational Choice” (Il modello di scelta organizzativa a “cestino dei rifiuti”) di Cohen, Michael D.; March, James G.; Olsen, Johan P.; Published on Administrative Science Quarterly Mar 1, 1972.
L’organizzazione è intesa come una “pattumiera” dove un insieme disordinato di oggetti sono mescolati e possono incontrarsi a vicenda. In questo contenitore vengono inseriti i problemi a cui dare una soluzione, le possibili soluzioni, e infine le persone che devono fare la scelta, con i quattro elementi del contenitore che sono: i problemi, le decisioni, i partecipanti e le opportunità di scelta.

10. Già sufficientemente analizzato nel secondo contributo di questo percorso, sul tema dell’integrazione e coordinamento organizzativo (Caos Management 154).

11. J. D. Thompson, L’azione organizzativa, Isedi, 2012.