Il crollo del ponte Morandi a Genova ed il caso politico che ne è conseguito con la proposta di revoca da parte di alcune forze politiche della concessione ad un soggetto privato della gestione della Rete Autostradale facente capo ad Autostrade per l’Italia (di proprietà di Atlantia della famiglia Benetton) ha riportato alla ribalta una questione da sempre dibattuta sulla scena politica Italiana e che a seconda dei periodi storici e delle forze politiche al potere ha determinato nel corso degli anni scelte diametralmente opposte con risultati spesso altrettanto diversificati e discutibili.

 

La questione è classica: si tratta della scelta di pubblicizzare o privatizzare questo o quel  servizio di pubblica utilità (come il caso delle autostrade per l’appunto).

 

Ebbene in una prima fase della vita della nostra repubblica molti settori della nostra economia erano, di fatto, di proprietà pubblica. Basti pensare alle banche (Banche d’Interesse Nazionale, Istituti di Diritto Pubblico, Casse di Risparmio), alla Scuola, alle Università, alla Sanità (ASL), alla Previdenza (INPS), alle Telecomunicazioni (STET, poi SIP, poi Telecom, oggi TIM), al settore energetico con ENI ed ENEL, ai trasporti con ALITALIA E FERROVIE DELLO STATO (poi Trenitalia), etc. Quasi tutto era in mano pubblica e, per effetto della gestione politica, ovvia in questo caso, che si portava dietro le logiche di gestione tipiche della politica ma non della gestione d’impresa, molte di queste organizzazioni che non erano partiti ma imprese cominciarono ad andare male, a produrre debiti anziché utili e disservizi anziché servizi di qualità. Tutto ciò portò a due fondamentali conseguenze: la prima, e di gran lunga la più importante fu di tipo culturale, ovvero si generò la convinzione che tutto ciò che fosse di gestione pubblica non funzionava, produceva, per l’appunto perdite e disservizi. In una parola si generò l’assunto culturale che PUBBLICO E’ BRUTTO (e, di conseguenza cominciò a generarsi l’assunto di contrappeso che PRIVATO E’ BELLO).

La seconda fu di ordine economico e finanziario. La classe politica comprese che le aziende pubbliche non potevano continuare a generare perdite e, anziché cercare di capire perché perdevano denari pubblici e porre i correttivi gestionali necessari, sulla scia della percezione generatasi nell’opinione pubblica, nonché di pressioni internazionali,  decisero di privatizzare gran parte di questi settori. E così assistiamo ad un periodo (gli anni ’90) nel quale lo Stato Italiano privatizza (ovvero vende a soggetti privati) tutto o parte delle Sue aziende o partecipazioni (ENI, EFIM, AUTOSTRADE, STET, ENEL, CREDITO ITALIANO, COMIT, IMI, BANCO DI NAPOLI, BNL, LE CASSE DI RISPARMIO, GLI ISTITUTI DI DIRITTO PUBBLICO, INA, ETC), nonché a privatizzare, di fatto, anche la scuola, le università, la sanità e la previdenza con l’affiancamento e lo sviluppo al fianco delle strutture pubbliche in affanno, di soggetti privati in grado di erogare, ovviamente a pagamento, gli stessi servizi.

 

A distanza di circa 30 anni da quel processo, per quanto riguarda le imprese ex pubbliche privatizzate possiamo affermare che, sotto il profilo squisitamente economico, tali imprese  hanno quasi tutte prodotto utili, in quanto gestite secondo logiche d’impresa ( e l’impresa esiste in quanto in grado di produrre utili, altrimenti fallisce e chiude). Sotto il profilo della qualità del servizio il discorso è molto più articolato e diversificato in quanto se ci riferiamo ad aziende industriali è il mercato che ha determinato la qualità dei prodotti acquistando quelli buoni e penalizzando quelli non buoni, facendo quindi una selezione.

Per quanto riguarda le aziende di servizi o le aziende in regime di monopolio od oligopolio (Banche, Autostrade, Telecom) si è avuta spesso la percezione che il livello qualitativo raggiunto non sia stato proporzionato all’aumento dei profitti.

 

Una riflessione particolare a livello nazionale meritano L’ALITALIA e L’ILVA (ex Italsider di proprietà pubblica) che sono state privatizzate più volte ma avendo continuato a produrre perdite sono state salvate più volte dallo Stato Italiano con ricapitalizzazioni, cassa integrazione e pensionamenti anticipati per i loro dipendenti, tutto naturalmente sempre a carico dei cittadini italiani. A livello locale molte sono le aziende municipalizzate (in questo caso  meritano menzione AMA e ATAC a Roma) che pur essendo state oggetto di sostituzione degli amministratori più volte e di massicci interventi finanziari da parte del Comune di Roma non hanno mai trovato ne la via del risanamento finanziario, ne della qualità del servizio con notevoli aggravi di spesa per i cittadini romani.

 

A seguito di queste esperienze si è generato un altro assunto: ovvero che si siano PRIVATIZZATI I PROFITTI E PUBBLICIZZATE LE PERDITE. Ovvero che le scelte politiche effettuate abbiano nel tempo portato enormi vantaggi a soggetti privati che si sono trovati a gestire imprese che già godevano di un vantaggio competitivo in quanto erano  monopoliste od oligopoliste di mercato e che pertanto se fossero state gestite con logiche d’impresa, indipendentemente dalla natura della proprietà avrebbero generato comunque profitti (in questo senso un esempio è costituito da FERROVIE DELLO STATO E LEONARDO/FINMECCANICA che,  pur essendo rimaste di proprietà pubblica,  attraverso un’opera di risanamento, investimento e sviluppo producono utili e contribuiscono insieme ad altre partecipate ben gestite a fornire allo Stato Italiano un considerevole contributo economico), ed enormi svantaggi ai contribuenti italiani che si sono trovati a pagare più volte esborsi a vario titolo ad  alcune aziende che, nonostante la privatizzazione continuarono a produrre perdite e, non si capisce per quale motivo essendo state privatizzate, lo Stato sia intervenuto finanziariamente per sostenerle.

 

Arriviamo quindi al crollo del Ponte Morandi di Genova ed a quel che ne è conseguito per riflettere sul cuore della questione.

 

FINALMENTE ABBIAMO SFATATO UN MITO.  

 

Il MITO era quello del PUBBLICO E’ BRUTTO, PRIVATO E’ BELLO. Il crollo del Ponte Morandi ci ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno (ma per molti lo era) che non è la natura della proprietà a far funzionare meglio o peggio le aziende, ma la  CAPACITA’ DI GESTIONE.  E la capacità di gestione la fanno gli uomini e le donne che gestiscono un’impresa, o, per dirla meglio le competenze degli uomini e delle donne che gestiscono un’impresa, nonché l’etica del business e del lavoro sottesa. E queste non si acquisiscono né nelle fila di un partito politico, ma neanche alla corte di questa o quella famiglia imprenditoriale. Le capacità di gestione si acquisiscono attraverso lo studio, le attitudini e l’esperienza manageriale sul campo. E’ molto, ma molto semplice tutto questo solo che per motivi TRIBALI (ancora piuttosto in uso anche nelle moderne società), ovvero di appartenenza, di filiazione, di fedeltà non viene quasi mai praticato. E così la logica del profitto fine a se stesso (costi quel che costi) prende il sopravvento.

 

Il caso Morandi e l’ipotesi di revoca della Concessione della gestione della rete autostradale di Autostrade per l’Italia ad Atlantia (appartenente alla famiglia Benetton) rimette in discussione tutto ciò e ci dice che PRIVATO NON NECESSARIAMENTE E SEMPRE E’ BELLO  e che PUBBLICO NON NECESSARIAMENTE E SEMPRE PUO’ ESSERE SINONIMO DI BRUTTO.

 

Se  la differenza la fa la capacità di gestione riflettiamo su questo e proviamo a sviluppare una classe dirigente capace di gestire le organizzazioni (non solo le imprese e penso anche alla Scuola, alla Sanità, alla Previdenza) indipendentemente dalla natura della proprietà. Se riusciremo in questo, la diatriba PUBBLICO/PRIVATO cesserà di esistere e ci concentreremo solo sulla qualità del servizio reso e sull’ottimale rapporto tra costi e benefici (cosa ben nota ai Paesi Nord Europei che accettano imposizioni fiscali importanti in cambio di servizi pubblici adeguati).