Sono purtroppo ormai molti anni che sentiamo parlare di crisi aziendali, ovvero per meglio specificare di aziende industriali o di servizi che operano in Italia e che ad un certo punto della loro storia non ce la fanno più ad andare avanti. Crisi aziendale equivale nella maggior parte dei casi a chiusura dei siti produttivi, o a forti ristrutturazioni o a chiusura di alcuni rami d’azienda e vendita di altri a terzi. Significa non pagare i creditori, licenziare tutti o parte dei dipendenti e offrire a chi eventualmente resta nuovi contratti riveduti ovviamente al ribasso. Significa in molti casi anche ulteriori costi a carico della collettività nell’illusorio tentativo di salvare posti di lavoro (es. Alitalia) con concessioni di strumenti in deroga da quelli ordinari (es. cassa integrazione in deroga).

Negli ultimi tempi, causa l’accelerazione della crisi (peraltro avviatasi nel 2011 e mai superata dal nostro Paese) provocata dal Covid 19 le crisi aziendali si sono moltiplicate. Ricordiamo tutti perché sono state più volte richiamate dai media Embraco, Brioni, Corneliani, Whirpool, Ilva, Alitalia, Merloni tanto per richiamarne solo alcune. I tavoli di crisi aperti al Ministero delle Sviluppo Economico nel 2020 erano più di 100. In questi numeri non sono comprese le piccole e medie aziende che non fanno notizia, non sono richiamate dagli organi di stampa e dalle TV ma sono tante e nella maggior parte dei casi hanno chiuso l’attività.

La risposta politica a queste crisi, da molti anni e con qualsiasi governo in carica è sempre stata la stessa: ammortizzatori sociali ordinari o in deroga, pesanti (per la collettività) facilitazioni per convincere i proprietari delle aziende in crisi a non chiudere, cercare nuovi acquirenti, fare lo “spezzatino” (separare i vari rami d’azienda, chiudere quelli che non hanno mercato o sono improduttivi e vendere separatamente quelli appetibili sul mercato).

Ovvero è sempre stata data una risposta al sintomo e non alla causa!

Hai la febbre? Prendi un antipiretico!

E non cerchiamo di capire perché ti è venuta la febbre e curiamo la causa! (filosofia tipicamente occidentale che rileviamo spesso anche in medicina purtroppo)

Ebbene credo che per chiarire la questione dobbiamo ricordarci che cos’è una impresa e chi è un imprenditore.

 

L’imprenditore è colui che organizza i fattori della produzione (alias organizza un’attività economica) al fine di conseguire un utile.

Non ci sono altre definizioni o altre motivazioni per fare impresa. L’essenza dell’impresa è questa e la finalità dell’imprenditore è questa. Organizzare le varie attività, produrre e vendere beni e servizi per portare a casa un utile.

Ora non voglio fare una lezione di economia ma è chiaro a tutti che per fare questo occorrono delle condizioni. In particolare, l’utile si consegue quando i ricavi, al netto delle spese e delle imposte superano i costi. E qui dobbiamo soffermarci per comprendere le cause che portano alle crisi d’impresa.

Tralascio il fronte dei ricavi che dipendono in larga misura dalle capacità dell’imprenditore (qualità del prodotto, capacità commerciali e distributive, etc.) ed analizziamo il fronte dei costi.

A seconda della tipologia dell’impresa anche questi possono cambiare ma ci sono alcuni tipi di costo che riguardano un po’ tutte le imprese:

  1. Manodopera (il costo della manodopera in Italia è piuttosto alto)
  2. Servizi (che a volte diventano materia prima, es. il costo dell’energia elettrica che serve a tutte le imprese è la più alta d’Europa)
  3. Infrastrutture (reti digitali, strade, ferrovie, trasporto merci su ferro, aeroporti e sistemi intermodali)
  4. Burocrazia (autorizzazioni, permessi, concessioni – complessità, tempi)
  5. Giustizia (certezza e stabilità delle norme, durata delle controversie)
  6. Fiscalità (è notorio l’elevata pressione fiscale sulle imprese. La CCIAA di Mestre stima nel 48,2% la pressione fiscale sulle PMI nel 2020)

Su questi punti (e ne ho richiamati solo alcuni) i costi in Italia sono molto alti ed erodono i ricavi in misura significativa fino ad azzerarli in alcune imprese.

Ecco perché le imprese vanno in crisi! Quanto i costi superano i ricavi le imprese vanno in crisi.

Ma corre l’obbligo di farci una domanda. Perché spesso negli stessi settori merceologici dove operano le imprese che in Italia vanno in crisi in altri Paesi prosperano? E non parliamo solo della Cina o dell’India o del Vietnam o del Bangladesh, dove il costo della sola manodopera è straordinariamente più basso ma anche in altri Paesi Occidentali, (es. in Svizzera dove i costi della manodopera non sono certamente bassi molte imprese risiedono, producono e conseguono rilevanti utili, ma anche in Germania, Francia, per non parlare dei Paesi Scandinavi che hanno un alto costo della manodopera e dell’imposizione fiscale).

Allora credo che dovremmo soffermarci sulle cause e non porre illusori e momentanei rimedi alle crisi aziendali (cassa integrazione, naspi, etc.). La riforma degli ammortizzatori sociali di cui si sta discutendo è certamente una riforma da fare e gli strumenti sono sicuramente da aggiornare ma sia ben chiaro che non sono la soluzione alle crisi d’impresa.

Le imprese chiudono in Italia per il semplice motivo che non ci sono spesso le condizioni per fare impresa in Italia (ovvero a causa delle inefficienze complessive del sistema paese e degli elevati costi di produzione manca un elemento essenziale del fare impresa: fare utili).

Ecco, quindi, che se vogliamo evitare che in futuro si ripetano nella quantità e nella qualità le crisi aziendali che abbiamo visto in questi ultimi anni dobbiamo far si che l’Italia torni ad essere attrattiva per chi vuole fare impresa. Si creino le condizioni affinché chi voglia investire nel nostro Paese sia stimolato a farlo e possa ragionevolmente pensare che se apre un’impresa nel nostro Paese ne possa conseguire i relativi utili.

A titolo di puro esempio per fare ciò occorrerebbe:

  1. Diminuire drasticamente il costo dell’energia elettrica e delle varie fonti di approvvigionamento energetico per le imprese
  2. Diminuire la pressione fiscale sulle imprese
  3. Diminuire il cuneo fiscale sulle buste paga dei lavoratori
  4. Investire fortemente nelle infrastrutture relative (porti, aeroporti, ferrovie, intermodali, strade, reti digitali)
  5. Snellire fino quasi ad azzerarla e comunque digitalizzare la burocrazia passando, ove possibile dal principio/valore del “ è tutto vietato salvo ciò che è espressamente autorizzato” al principio/valore “ è tutto consentito salvo ciò che è espressamente vietato” (tempi e modalità per ottenere permessi, autorizzazioni, concessioni, etc.)
  6. Dare certezza e stabilità alle norme e rivedere procedure e tempi al fine di snellire e accelerare la risoluzione delle controversie

In alcuni di questi punti il PNRR presentato dal Governo all’UE dovrebbe dare una risposta, per altri la politica è chiamata e fare una approfondita riflessione e dare risposte concrete in tempi rapidi.

Non ci sono scorciatoie per gli imprenditori. Da quando esiste l’economia di mercato gli imprenditori investono dove ci sono le condizioni, complessivamente intese, per fare impresa e per conseguire utili. Scappano quando queste condizioni non ci sono più, ed è ciò che è accaduto all’Italia negli ultimi decenni.

Il vero ammortizzatore sociale (o meglio il vaccino all’ammortizzatore sociale) è ricreare le condizioni per fare impresa in Italia. In questo modo si attireranno gli investimenti, si apriranno più imprese, si assumeranno lavoratori e, invertendo la rotta, si eviteranno le crisi aziendali con le conseguenze che conosciamo.