L’origine dell’arte coincide con l’origine dell’uomo. All’interno della vastissima produzione artistica che ci accompagna dall’alba dei tempi scorgiamo le prime testimonianze nella rappresentazione del mito che l’uomo preistorico colse nel principio di nascita, morte e rigenerazione. L’arte nasce come primo e fondamentale strumento di spiegazione del mondo, ossia per dispiegare un ordine ripiegato e nascosto che tiene insieme gli equilibri di tutti i viventi.

La vasta produzione artistica che dal paleolitico si protrasse per tutto il neolitico testimonia la nascita di un pensiero che si rivolge al lato invisibile del mondo. Per la prima volta l’uomo si interroga sulla sua natura e lo fa osservando quello che gli è più prossimo. Il sorgere e il tramontare del sole, i cicli della luna e del regno vegetale e animale, spingono l’uomo arcaico a formulare una serie di congetture sulla natura del tempo e dello spazio. Congetture non formalizzate attraverso la scrittura ma con il linguaggio dell’arte che, partendo dal visibile, espresse per la prima volta quello che non poteva darsi ai sensi. Ancora oggi l’arte parte dalla sconfitta della parola contro il mondo invisibile di cui sentiamo la presenza ma che non riusciamo a descrivere né tantomeno a spiegare. Eppure quel mondo è lì, non in un luogo remoto ma sovrapposto e incarnato nella realtà che ogni giorno viviamo. È il mondo che abbiamo sotto gli occhi ma che pur ci sfugge.

Nel dinamismo di quei primi enigmatici disegni è impressa l’essenza di un pensiero antico eppur attuale: le prime domande sulla natura dello spazio e del tempo restano le ultime. Tempi e spazi diversi separano l’uomo preistorico dall’uomo tecnologico, una separazione non dovuta tanto alla pur enorme quantità di tempo trascorso da quegli inizi, quanto a una diversa visione del mondo il cui primo significato sbiadisce nel rafforzarsi della coscienza razionale che nel corso della storia ha perso di vista quel confine che per la prima volta divise la coscienza dal suo sfondo indifferenziato. Continue e inesorabili sedimentazioni di immagini e di pensieri hanno offuscato quella prima sapienza le cui tracce ancora permangono negli anfratti più nascosti della nostra mente e la cui memoria, seppur in una sua eco lontana e indistinta, è possibile scorgere nelle visioni della nostra prima infanzia. Flebili tracce di ricordi e di sogni a lungo dimenticati.

 

L’apparizione della dea

Le innumerevoli rappresentazioni della dea preistorica rappresentano il corpo significante di una produzione artistica con caratteri peculiari che fanno supporre un uso rituale di raffigurazioni dalle caratteristiche non rinvenibili in natura. Risultato di contaminazioni e distorsioni del corpo femminile, esse non imitano la realtà del mondo esterno ma sono immagini della mente che i primi artisti modellarono attingendole dal vasto mondo psichico che permetteva la contaminazione fra le forme. La forma apparve come un emersione di contenuti inconsci comuni all’intero mondo dei viventi. Essa per la prima volta si mostrò emergendo su uno sfondo che pur non mostrandosi ne costituiva parte significativa.

La visione implica il nascondimento di quello che la visione stessa non permette. Ma l’invisibile non è ignorato dalla mente che afferra intuitivamente la totalità dell’oggetto e tutte le sue relazioni. Questo rappresentare il non visto permette alla forma la sua funzione di simbolo che lega la mente immaginativa alla percezione delle cose. Permette soprattutto la rivelazione del trascendente; l’immagine ne diviene parte integrante, non una copia né un simulacro così come lo intendiamo oggi ma la parte che permette l’intuizione del tutto.

L’immagine è sacra perché è parte di un universo dove non c’è separazione fra realtà esterna e realtà della mente. L’intera potenza dell’energia del cosmo può essere racchiusa in una statuetta: essa è il principio che diviene visibile. L’artista è uno sciamano che, transitando nei mondi intermedi, permette l’epifania delle forme.

C’è una sorta di fluidità che attraversa la produzione artistica dal paleolitico al neolitico: le figure stilizzate sembrano fluttuare continuamente fra l’umano e il non umano. Esse rivelano un soffio vitale che sopravanzando le conferisce una forza capace di traghettare il pensiero da un luogo all’altro della mente. Tutta l’energia che fluisce ha origine dal ventre della dea. Lì si compie la prima vera nascita. Nel mettere al mondo gli uomini la dea si smembra, e ogni sua parte è una sua diversa immagine: è ogni specie di animale e anche ogni possibile commistione fra umano e animale. Mediante lo smembramento e il dissolvimento della sua immagine in un caleidoscopio di forme gli umani possono nascere al mondo. Le molteplici forme della dea testimoniano la sua prima e ineluttabile sopraffazione e l’impossibilità dell’uomo di ritornare al momento iniziale di comunione intrauterina. Egli potrà farlo solo fuori dalla sua vita, nel definitivo smembramento della morte. Oppure nei rari e inaspettati lampi di intuizione quando per un attimo la mente si illumina del suo primo essere nell’atto della trasformazione da informe ammasso di cellule a feto.

 

Il tempo ciclico

La paleolitica venere di Laussel, ritrovata in Dordogna nel 1911 è una raffigurazione scultorea di una donna risalente a un periodo compreso fra il 25.000 e il 20.000 a.C. La figura regge nella mano destra un corno di bisonte (simbolo della falce lunare) con incisioni che simboleggiano i tredici giorni della fase crescente, i tredici mesi dell’anno lunare e i tredici cicli mensili femminili mentre la mano sinistra è appoggiata sul ventre rigonfio. La venere di Laussel è la raffigurazione di una corrispondenza fra la dimensione del tempo e quella dello spazio: le tredici tacche incise sulla falce della luna indicano la relazione di ciò che appare ai sensi: la durata dei cicli lunari è la medesima dei cicli femminili. La coincidenza mette in relazione quello che accade in cielo con quello che accade alla donna, scandito dalla medesima divisione del tempo che segna l’apparire e lo scomparire dei fenomeni. Il simbolismo della prima arte paleolitica ebbe lo scopo di rendere visibili i ritmi della natura intimamente connessi ai ritmi dell’uomo, della nascita e della morte: tutto aveva origine dal grande ventre della Madre Natura e tutto alla fine vi ritornava.

Così come tutta la natura, la luna per l’uomo arcaico era viva, la sua vita era soggetta alle stesse leggi che regolavano la vita della totalità degli esseri viventi: ella cresce, cala e sparisce secondo le modalità che sono proprie di un ciclo vitale. La sua scomparsa nell’oscurità non è mai definitiva. “La luna rinasce dalla propria sostanza, in virtù del proprio destino”. La luna misura e unifica; i suoi ritmi si riscontrano in una moltitudine di fenomeni. Il cosmo diventa comprensibile nel suo essere soggetto a leggi che collegano tutte le cose. Si forma una struttura di rimandi in cui la luna è il fulcro centrale. Insieme al tempo essa forma uno spazio ossia una rete di connessioni che unifica lo spazio interiore con quello fisico. Il pensiero della mente conscia potrà muoversi con disinvoltura fra le varie manifestazioni di quell’energia primordiale altrimenti inconoscibile.

Il principale tema del simbolismo della dea – scrive l’archeologa Marija Gimbutas – è il mistero della nascita, morte e rigenerazione, non soltanto della vita umana ma di tutta la vita sulla Terra e anzi dell’intero cosmo. Simboli e immagini si coagulano intorno alla dea partenogenetica (auto- generantesi) e alle sue funzioni base di Datrice della Vita, reggitrice della Morte e – non meno importante- Rigeneratrice, e intorno alla Madre Terra, la dea di fertilità che è giovane e vecchia a un tempo, sorgendo e morendo insieme alla vita delle piante. Fonte unica di tutta la vita, assumeva la sua energia dalle sorgenti e dai pozzi, dal sole, dalla luna e dall’umida terra. Questo sistema simbolico rappresenta un mitico tempo ciclico, non lineare, che nell’arte è palesato dai segni di movimento dinamico: spirali rotanti e intrecciate, serpenti sinuosi e spiraliformi, cerchi, mezzelune, corna, semi germoglianti e virgulti”.i

L’idea più semplice e immediata fu quella di concepire il tempo come un movimento delle cose nello spazio, esse scomparivano entrando in luoghi inaccessibili ai mortali per poi ricomparire rinnovate: ciclicamente la luna, il sole e gli astri scomparivano e riapparivano. Dove fossero quando erano invisibili fu forse il primo interrogativo dell’uomo preistorico. Presto ne scoprì le correlazioni: l’alternanza di giorno e notte, di nascita e morte, non era altro che geometria: il ciclo nascondeva quello che non si dava ai sensi ma doveva essere sicuramente uno spazio, un luogo che permettesse una trasformazione, qualcosa che attingendo a un serbatoio invisibile, ad ogni passaggio rinnovava il mondo. Come era possibile raggiungere allora tali spazi invisibili? Poterli visitare sostando contemporaneamente nello spazio visibile?

Si comprese che il pensiero basato sull’analogia avrebbe permesso alla coscienza una visione chiara dell’unità del tutto di cui ogni ciclo della natura non era che un immagine parziale. L’arte e il rito furono i mezzi che avrebbero permesso tale analogia: la riproduzione dei comportamenti della natura avrebbe permesso all’uomo di essere quella stessa natura abbandonando il proprio “io” confinato in un corpo isolato.

La sostanziale differenza fra la concezione del tempo ciclico preistorico e quello storico consiste nel fatto che il primo è da intendersi come un movimento intrinseco alla natura, ossia un continuo rigenerarsi reso possibile dalla frequentazione dell’invisibile: il comparire e lo scomparire delle cose non è da intendersi come un eterno ritorno dell’uguale ma come una visione processuale, parziale, della stessa realtà coincidente con il tutto. Il secondo è da intendersi, invece, come una riattualizzazione: la rigenerazione periodica del tempo in questo caso significa riportare al momento presente qualcosa che è già successo in un tempo passato ma che di fatto è ancora vivo e presente.

Thomas Mann – riferendosi alla riattualizzazione del mito del diluvio universale – osserva come “l’esperienza non consiste tanto nel veder ripetersi qualche cosa che appartiene al passato, quanto nel fatto che quel passato diviene vivo e presente. Ma può divenire presente perché le circostanze che l’hanno originato sono in ogni tempo presenti. In ogni tempo: questa è la parola del mistero. Il mistero non conosce tempo, ma la forma di ciò che non ha tempo è il Qui e Ora”.ii

L’uomo paleolitico scorse, nell’alternarsi ritmico di luce e oscurità legato alle fasi lunari, un alternarsi di crescita e decadimento che si rinnovava ciclicamente. Nella luna crescente scorse la crescita della vita mentre con la luna calante percepì il suo ritirarsi. Infine, nell’oscurità del novilunio sperò nel suo ritorno. Fu il primo momento in cui l’uomo collegò la ciclicità dei moti dei corpi celesti al rinnovarsi ciclico della natura. La vita e la morte apparirono come due momenti appartenenti all’intero ciclo cosmico. Ogni cosa doveva sparire per poi ricomparire ogni volta in forme differenti. Attraverso ciò che si mostrava per la prima volta ai sensi, si comprese come lo spazio, e con esso la coscienza, prendessero forma nella grande danza cosmica dell’apparire. I cicli del tempo e dello spazio, nel rendere esplicita l’essenza dinamica della natura, mostrarono che il movimento era tanto una caratteristica del mondo fisico quanto quella del mondo psichico: la trasformazione dello spazio e lo scorrere del tempo potevano attuarsi grazie al loro mostrarsi e al loro dissolversi all’orizzonte della coscienza. L’emersione e l’immersione dello spazio dalla linea di confine che divide il mondo cosciente da quello inconscio, oltre a ridisegnare continuamente tale confine, conformò sia i luoghi fisici che quelli della mente.

I cicli lunari rivelarono il perpetuarsi di una scena mutevole eppur sempre uguale a se stessa: ciò che durava era l’apparire processuale del movimento della luna nel cielo i cui effetti visibili erano dati dalla ciclica alternanza fra luce e buio. “Implicitamente, comunque, i primi uomini devono aver visto ogni parte del ciclo dalla prospettiva dell’intero. Le fasi individuali non potevano essere identificate, né la relazione tra loro espressa, senza dare per scontata la presenza del ciclo intero, invisibili, duraturo e immutabile che, tuttavia, conteneva le fasi visibili. Simbolicamente, era come se il visibile “venisse da” e ritornasse a” l’invisibile – come nascere, morire e rinascere”.iii

Nel tempo ciclico si riconobbe la coesistenza di contenuto e contenitore: nel contenitore, ossia la totalità del ciclo lunare, si ravvisò la Dea Madre, e il contenuto fu identificato con i suoi figli mortali. Una distinzione fra l’intero e la parte che venne chiarita in seguito quando nel linguaggio greco il termine vita assunse un duplice significato: zoé e bios incarnazione di due dimensioni co-esistenti. Zoé è la vita eterna e illimitata; bios è la vita individuale e limitata. La morte dell’uomo e di ogni essere vivente è l’analogo della scomparsa della luna nei tre giorni che precedono la rinascita, e la vita eterna e illimitata è l’eterno ripetersi del ciclo lunare.

Dea di Laussel. 22.000-18.000 a.C.

 

La dea e il cacciatore

Come suggeriscono Anne Baring e Jules Cashford nel loro fondamentale saggio sul mito della dea, la compresenza durante tutto il paleolitico di una forma di espressione scultorea che rappresenta le varie incarnazioni della dea e le scene di caccia dipinte sulle pareti delle grotte, ci permette di dedurre la compresenza di due miti che ebbero uguale importanza: il mito della dea e il mito del cacciatore. ”Le figure gravide delle sculture suggeriscono che il mito della Dea Madre riguardasse la fertilità e la sacralità della vita in ogni suo aspetto, e dunque la trasformazione e la rinascita. In contrasto, il mito del cacciatore concerneva soprattutto il dramma della sopravvivenza, dove prendere una vita equivaleva a un atto rituale per poter vivere. La prima storia è incentrata sulla Dea come immagine eterna del tutto; la seconda è basata sull’umanità che, come il cacciatore, deve continuamente spezzare questa unità per poter vivere la vita di tutti i giorni”.iv

Entrambi i miti fanno parte però della medesima visione, ossia la necessità di essere parte, uomini e animali, dello stesso ciclo di nascita morte e rigenerazione. Un dipinto rupestre scoperto in Indonesia, nel sito denominato Leang Bulu’ Sipong 4 e risalente ad un periodo compreso tra 35.100 e 43.900 anni fa, mostra una singolare scena di caccia: un gruppo di quattro teriantropi – esseri metà uomo e metà animale – affronta un bufalo. Gli umani hanno le sembianze di uccelli, rettili ed altre specie diffuse nell’isola di Sulawesi. La scena suggerisce una mutazione di stato: gli umani possono cacciare gli animali soltanto assumendo le capacità di altri animali, ossia usando l’energia che è propria del vasto mondo della natura.

L’uomo preistorico, attraverso l’imitazione, assume abilità che non gli sono proprie, che non esistono nel mondo fisico ma in uno spazio sacro che si dà soltanto facendo combaciare le visioni della mente con l’esteriorità del mondo. Abbattere i confini percettivi degli umani permette la sopravvivenza e, al contempo, la comparsa di un mondo intermedio dove poter entrare in contatto con l’indifferenziato da cui continuamente emergono le forme. L’indifferenziato è lo spazio da cui ogni forma vivente proviene ed è qui che è possibile ogni trasformazione: l’uomo diventa l’animale che caccia e smembra.

Oggetto e soggetto dell’atto di uccidere, o sacrificale, è la bestia: la bestia viene assunta, sotto l’impulso immaginario, in una sfera metamorfica, per una mozione di apoteosi, in quanto essa e il “Nutrimento Assoluto” fuggente e disseminato, raggiungibile, è l’”energia” unificante, tonificante. Per definirla ideologicamente, diciamo che è bestia-dio. Ma se diciamo, dunque, dio e divino, religione e morte, non è tuttavia per intendere le stesse ideologie che la mente moderna definisce o che la mente storica tramanda. Per “divino” l’uomo primordiale intende Nutrimento Assoluto, Nutrimento Perenne, così come per “Dio” intende il Nutriente- Nutritivo Assoluto; e allora l’uomo primordiale si esibisce come “consumatore” del divino e in tale senso, si opera lo scambio continuo, fluente, grondante, tra il divino e l’umano, tra il Se stesso e L’Altro- Stesso”.v

Oltre a servire alla mera sopravvivenza, il sacrificio dell’animale è un atto metafisico: si riporta l’animale alla sua natura indifferenziata. L’animale e l’uomo possono diventare così la stessa sostanza primordiale, tutti parte di un processo autopoietico. Nascita e morte si equivalgono nel loro essere parte dello stesso processo. Il sacrificio permette all’animale di transitare dal visibile verso l’invisibile, egli ritorna ad essere la stessa sostanza della dea, un territorio comune dove ogni parte può ricongiungersi. Il mistero della sparizione che avveniva con l’uccisione permise di avvicinare l’uomo al confine che separava la vita dalla morte. Ne scorse i percorsi segreti. Essi erano nel mondo intermedio della metamorfosi, lì dove gli uomini si trasformavano in animali, poco prima della loro sparizione nel ventre della dea.

Nell’ultima stanza della grotta di Chauvet, situata presso Vallon-Pont-d’Arc nell’Ardèche, su uno spuntone di roccia, circa trentaduemila anni fa un ignoto artista riprodusse un’immagine enigmatica, che è insieme il triangolo pubico di una donna, il corpo e la testa di un leone e quella di un bisonte. Il messaggio originario ci è oscuro ma una cosa è chiara: la volontà di riprodurre il continuo passaggio da una forma all’altra all’interno delle opposizioni fra essere umano e animale e fra le stesse specie di animali.

L’idea della metamorfosi uomo-animale perdurerà nei millenni a venire. Essa sarà presente nel libro dei morti egizio dove il morto potrà assumere ogni sembianza, “potrà diventare falco d’oro o falco divino o fiore di loto o Ptah o dio che illumina le tenebre o fenice o airone o rondine o serpente Sa-ta o coccodrillo. Dalla pianta all’animale e al dio, ogni ambito dell’esistente è accessibile”.vi

Raffigurazione ibrida: metà leone e metà donna, grotta di Chauvet presso Vallon-Pont-d’Arc, circa 34000 a.C

Nella mitologia degli antichi greci dalle profonde acque dell’inconscio proveniva l’omerico Proteo che conosceva tutte le cose vere, le passate, le presenti e le future “ma chi voglia sentire da lui predire il futuro deve costringervelo con la forza, cogliendolo all’impensata, quando egli, nelle calde ore del pomeriggio, si adagia a fare la siesta in fresche grotte: allora bisogna legarlo solidamente, resistere a tutti i suoi tentativi di fuga, nei quali assume le più svariate forme, di serpente, di leone, di ardente fiamma, di pianta altissima, di acqua scorrente; solo dopo ch’egli ha riconosciuto l’impossibilità di svincolarsi, allora si decide a manifestare ai mortali la volontà degli dei e gl’immutabili decreti del fato”.vii

L’alleanza uomo-animale fu però destinata all’oblio: con lo sviluppo degli insediamenti urbani il singolo venne strappato dalla natura che gli era propria per far parte dell’artificio. Freud ne scrisse in questi termini: “L’uomo nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di tale predominio, cominciò a porre un abisso fra di loro e il proprio essere. Disconobbe a esse la ragione e si attribuì un anima immortale, appellandosi a un origine divina che gli consentiva di spezzare i suoi legami con il mondo animale. È curioso come questa presunzione sia estranea tanto al bambino piccolo, quanto al selvaggio e all’uomo delle origini. Essa è il risultato di un ulteriore sviluppo delle pretese umane. Il primitivo nello stadio del totemismo, non trovava difficoltà a far derivare la propria stirpe da un progenitore appartenente al regno animale.

Il mito, in cui si trovano i residui di questa antica forma di pensiero, fa assumere agli dèi aspetti animali e l’arte delle origini rappresenta gli dèi con teste di bestie. Il bambino non coglie nessuna differenza tra l’essere proprio e quello degli animali, e non si meraviglia che nelle favole le bestie pensino e parlino, sposta un affetto d’angoscia, che si riferisce al padre umano, su un cane o un cavallo, e ciò senza il proposito di denigrare il padre. Soltanto quando sarà cresciuto si sentirà così estraniato dagli animali da poter usare i loro nomi per ingiuriare gli uomini. Sappiamo che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell’uomo. L’uomo nulla di più è, e nulla di meglio, dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale e è imparentato a qualche specie animale di più e a qualche altra di meno. Le sue successive acquisizioni non consentono di cancellare le testimonianze di una parità che è data tanto nella sua struttura corporea, quanto nella sua disposizione psichica”.viii Spezzare la catena che assimila l’uomo all’animale significa spezzare la catena autopoietica della natura dove confluiscono elementi fisici e psichici, dove il visibile e l’invisibile hanno pari importanza.

Ancora oggi il ruolo dell’arte è quello di permettere una connessione fra il visibile e l’invisibile, fra il nostro mondo interiore e tutto ciò che ci circonda. Da questo punto di vista l’arte ha un importanza salvifica per la vita così come la conosciamo, fatta di rapporti palesi e nascosti fra l’uomo e il mondo.

 

(Il testo è tratto da Claudio Catalano – IL VENTRE ARCAICO – Il mito della Dea Madre e l’origine dello spazio e del tempo. Intermedia edizioni 2022)

Note:

i . Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Venexia,2008 pp. XIX-XX.

ii.  Thomas Mann, Op. cit.

iii.  Anne Baring, Jules Cashford, op. cit. p. 192.

iv.  Anne Baring, Jules Cashford, op. cit. p. 56.

v.  Emilio Villa, L’arte dell’uomo primordiale, Abscondita, 2005, p. 26.

vi.  Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, Adelphi, 2016 p.358.

vii.  Odissea Telemachia IV, 349 segg.

viii.  Sigmund Freud, Una difficoltà della psicoanalisi, OSF, Vol.8, Boringhieri, 1976 pp. 660-661.