Numero 54 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Ad un caro compagno di Strada

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di Vincenzo Porcasi


Il mondo è diviso continuamente in molti modi: le cinque categorie di Leonardo Sciascia: una attiene solo agli uomini, quella essenziale fra gli uomini e donne, l’altra altrettanto importante fra gente che lavora e gente che non lavora, fra gente alfabetizzata e gente analfabeta, fra gente capace di interagire sui sistemi elettronici complessi contemporanei e gente fuori dalla partecipazione a tali circuiti. Ancora, la gente del mare è diversa da quella della montagna a sua volta diversa da quella della campagna, e poi i pastori che rimangono diversi da tutti, come Annibale Caro rivelava nel suo Dafne e Cloe.
Ancora: il mondo nei due secoli passati si poteva dividere fra gente abbiente e gente priva di ogni bene, come diffusamente esposto e rappresentato dalla numerosa letteratura sul tema.

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La figura di un uomo della montagna siciliana attraversa il tempo degli ultimi due secoli: Mons. Don Giuseppe Gemmellaro, siciliano e insieme cittadino del mondo, uomo senza tempo, ma vissuto nel suo tempo, che si interrogava sulla persona umana, sulla relazione che lega le persone umane fra loro, sulla definizione di qualità della vita, sull’azione sociale e sul cambiamento, sulla gestione dei mezzi di produzione, sull’essere cittadini del mondo, in un’epoca che aveva visto il mondo diviso fra due universalismi opposti: quello capitalistico e quello comunista, per il quale si sono di fatto combattute due guerre mondiali. Poi, improvvisamente, un terzo universalismo è emerso dalle ombre: quello solidaristico di stampo cattolico e quello della c.d. Humma Islamica; ambedue teisti, ambedue che pongono al centro la persona umana nella sua intierezza rispetto a quanto le  due visioni del mondo capitalistica e comunista andavano affermando in quanto ponevano come centro della propria ideologia l’eternalizzazione eterodossa rispetto all’uomo del fattore capitale e valore aggiunto nel primo caso e il fattore lavoro ortodosso all’umano nel secondo che comporta la gestione collettiva dei mezzi di produzione.
Giuseppe Gemmellaro vive le contraddizioni del suo tempo nella Rettoria Maggiore della Congregazione Salesiana a Torino, vive soprattutto la condizione del credente, del cattolico che, timoroso della portata delle proprie idee, difende la propria identità appiattendosi ripetutamente sulla prospettiva del modello puramente capitalistico e la rifiuta totalmente, sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista pratico.
Gemmellaro, partendo dai sacri testi, individua la forza insita nel pensiero cristiano già quando parla di iniqua ricchezza, conosce il limite della natura umana nella vicenda della Maddalena nonché dell’adultera, cioè della interiore capacità liberatoria dell’amore e della dispersiva incapacità del disamore di essere, forza per l’essere umano.
Gemmellaro capisce che la sfida della creazione si può vincere attraverso la conoscenza e la conoscenza richiede studio e sacrificio. Egli si pone la domanda, quale dimensione debba avere la conoscenza e la risposta è di immane portataa. La conoscenza non può non essere integrale e non deve essere sincretica. La religione cattolica non può essere il frutto mistico di un’unione fra ateismo professato e fideismo trionfalistico; la conoscenza tout cour non può non partire dalla considerazione del degrado dell’essere umano e attribuendo un valore alle varie fasi e alle varie componenti dell’umanità deve mostrare una via per andare oltre il giardino dei propri limiti.
L’imperativo categorico è dare una risposta e si può farlo solo trasformando il curato di campagna in un pastore, pastore che è colui il quale è capace di svolgere funzioni di “gubernato” che significa coordinatore e in questo senso governatore, accompagnatore, risolutore delle contraddizioni, viatico per la trasformazione del degrado in strumenti di arricchimento, non solo per l’individuo in quanto tale ma per la comunità nella quale si trova ad interagire. In questo senso la figura del pastore si stempera nelle figure del suo gregge divenendo contemporaneamente “uno, nessuno e centomila” non omologati in un sistema bensì individualità piene da una parte velata, ma al contempo dotate di una volontà di esprimersi integralmente. Il velo rimane compagno nelle solitudini urbane ma dietro il velo si compie la creazione sistemica dell’innovazione che è il fine stesso dell’essere umano; la tensione verso il limite rappresentato dal continuo porsi a disporsi di un pieno che viaggia nella negazione di sé, cioè viaggia nel suo vuoto e pur essendo in continua espansione ha dentro di se un mostro sempre uguale a se stesso di dimensioni indeterminate ma comunque costantemente più ampie perché non conosciute né conoscibili.
In questa rappresentazione della tragedia del vuoto e del pieno le forme del porsi sociale, la determinazione del possesso della roba diviene uno dei modi attraverso cui si esprime la persona umana. La roba è il simbolo di una simbiosi mutualistica, della dimensione montagna campagna nell’essere umano dove una solidarietà di fondo unisce nel comune destino i vinti di qualsiasi battaglia e vinti lo sono tutti nella misura in cui la battaglia è in sé sconfitta. Quale inane sforzo in diciannove anni di guerra di Giorgio  Scandemberg, distruggere tutto intorno a sé per fare terra bruciata intorno al proprio nemico ma alla fine dei conti ciò che resta nei vinti e nei vincitori è la sacra certezza che non c’è più alcunché da conservare essendo stato tutto distrutto nel nome di una fede che non libera ma che appunto cancella e uccide.
E’ memoria della guerra gotica. Devastiamo ogni cosa, rubiamo ogni cosa, oltre che per far sopravvivere le truppe in azione per ricostruire un mondo che inequivocabilmente non esiste più. I mercenari passano ma le spighe non crescono più perché non c’è più il contadino che ricordi come si aggioga il mulo o la vacca all’aratro quando viene il tempo della semina.
Certo, la rivoluzione industriale pone al centro di sé la funzionale necessità di aggiogare l’uomo alla macchina, di trasformare l’essere umano in un motore del processo produttivo facendolo divenire il fattore lavoro coesistente agli altri fattori della produzione, certo non privo, nella ripartizione delle funzioni visto che la disponibilità è immensa e indeterminatamente riproducibile a fronte delle risorse naturali comunque limitate nel tempo e nello spazio. Ma la trasformazione della dimensione mutualistica della servitù della gleba in homo faber schiavo della sua macchina, agente riproduttivo al fine di assicurare la continuità delle funzioni delle macchine rende indeterminato il processo di conduzione delle macchine e il correre della grande flotta russa del Baltico verso il disastro nelle acque di Tsushina. Cannonieri e macchinisti depredati del loro sole, della loro aria, destinati a una gloriosa sconfitta, inadatti anche come macchine a sostenere il confronto, stanchi per avere attraversato il mondo, stanchi di servire una certa idea della figura del “piccolo padre”, portatori inconsapevoli del nuce di un ridisegno del controllo dei fini stessi dell’essere umano: produrre cosa, produrre per chi; quale disegno portava in sé la III Internazionale; che cosa avrebbe prodotto nel III Congresso del PC Bolscevico in ordine agli strumenti di democrazia diretta offerti alla gente per costruire il proprio modello di vita.
Le pagine di Stucka Pasukanis, le pagine di Maijakoskj, il modulato andare di Stravinskj, determinato a precorrere Einsestein, Lev Trotskij e Prokoniev.
Rimanendo pronto nelle more l’assedio di Stalingrado, il grande errore di voler distruggere pochi tedeschi chiusi nella città senza puntare realmente alla conquista della Russia. Due guerre mondiali europee combattute al solo fine di sradicare quel fantasma che si aggira per l’Europa: il fantasma del movimento operaio. Cessata la servitù della gleba, instaurata la servitù delle macchine, destinata a un tempo senza fine la ricreazione del tempo di Saturno, quello dell’homo ludens, il modello proposto è quello dell’homo faber, fine a se stesso, determinato entro i suoi confini “naturali” quasi che l’uomo comunque figlio delle Internazionali fosse vincolabile ancora nel nome di fedi, razze, costumi e culture. D’altra parte il giogo della servitù delle macchine che impone il prodotto da distendere su una carta geografica; le centrali produttive con i loro altiforni non si possono fermare, i turni devono continuare a produrre quelle macchine da treno nelle cui caldaie stemperare il cinese di turno come scritto da Andrè Malreaux nella sua “Condizione umana”.
E’ la normalizzazione che suicida Majakoskj e dà vita all’uomo omologato; il prodotto genera altro prodotto non importa a quale condizione lo stesso sia realizzato. I macellai della storia  tritano i diritti non omologati. Certo i vincitori parlano di diritti dell’uomo quasi una carta della riproduzione di un modello dei vincenti. Gemmellaro sente geneticamente questa prospettiva della storia, abbatte la parte delle frontiere; per lui ciò che occorre è l’uomo totale mentre nei meandri di un palcoscenico si delinea il confronto fra gestione diretta dei mezzi di produzione, centralismo democratico e dittatura del proletariato contrapposta al valore aggiunto, organizzazione aziendale; aufenilità: candida sorella di Ofelia, figlia del dover essere e non dell’essere, preparazione a quella istanza di libertà assoluta momento epocale della storia in cui i vinti della guerra dell’oppio ribaltano in maniera violenta e non violenta il modello che li ha conculcati e candida una parte ma è anche già a Dien Bien Fu il Ben Bella nella battaglia di Algeri.
Il confronto è vitale; si fondono insieme gli esiti della IV Internazionale e gli strumenti avanzati del modello capitalistico, gli echi della fusione da altiforno si odono nel rumore delle pallottole che uccidono Lumumba e nel segretario generale delle N.U.. Il metodo, però, viene tracciato: sulla scia di Gandhi la grande impostura della superiorità razziale viene dimostrata inconsistente da Desmond Tutu e da Nelson Mandela: a questo punto il confronto metodologico fra programmazione dall’alto, centralismo democratico e democrazia diretta non serve più. La democrazia diretta porterebbe alla forza sindacale del miliardo di disoccupati fra le genti; si cessa di parlare di programmazione dall’alto e si passa alle leggi pure e semplici di mercato.
L’uomo perde la sua oggettività mentre la genetica pone in essa i presupposti perché i vecchi continuino a interpretare i bisogni del mondo senza più bisogno dei giovani. Abramo non è più il padre di molti popoli, tende a diventare il padre di se stesso, quotato in borsa perché tutti possano godere del suo modo di essere, una supervalutazione puramente finanziaria non più fondata su valori reali.
Dall’essere al dover essere, la customer satisfaction (la soddisfazione del consumatore), l’antologia che diviene deontologia del nuovo modo di produrre: l’appagamento, l’avere e non più essere attraversato dalla nuova medialità, la fantasia sostituita dal parco giochi dove milioni di uguali fondano se stessi in un processo di partecipazione democratica a Topolino e qualora non volessi essere giocato da Topolino non ti resta che una scatola di lotta per andare da un luogo all’altro alla ricerca di percorsi istruiti dal marketing territoriale o giacere seduto davanti a una scatola di plastica che, più o meno interattivamente, è capace di produrre i modelli di luce che desideri.
Non più il tema della produzione e dei mezzi di produzione o della fruizione dei prodotti in funzione del soddisfacimento dei bisogni bensì il tema di un’officina nella quale il sentire è diventato il modo per non sentirsi, per allontanarsi dall’altro da sé. Il falasterio che sostituisce Reich, privato ormai di qualsiasi attribuzione liberatoria; il laboratorio di Raich non è diretto a liberare le due parti uguali e complementari dell’essere sociale ma è diretto a evitare che le due parti si possano incontrare per dar luogo a una ulteriore fusione non partogenetica. Ma tale cammino non tiene conto della volontà di partecipazione; vi è una teoria, quella propria della conoscenza di Gemmellaro, che fa dire a qualcuno: “ Se dovessi muovere i tuoi carri armati non mi limiterò a pregare”. E certamente questo fatto rispondeva, alla lontana, alla domanda di che cosa sarebbe avvenuto se i cavalli dei cosacchi del Don si fossero abbeverati alla fontana dell’acqua pia. Probabilmente nulla. Infatti, il problema non è quello di conquistare un territorio, bensì quello successivo e ben più forte di presidiarlo divenendone parte. Qualsiasi potenza occupante sa benissimo che il giorno dopo la conquista occorre mantenere dignitosamente la gente conquistata e sopravvissuta. Così come nel pensiero di Gemmellaro era ben presente la considerazione che per sconfiggere le dittature nazifasciste il GHA aveva dovuto far ricorso alla collaborazione fattiva e determinante delle truppe coloniali (mongoli e kirghisi inclusi), la cui collaborazione avrebbe avuto un prezzo non solo mercenario (i gurkha) ma anche e soprattutto politico: prima richiesta di partecipazione attiva e passiva alla gestione della cosa pubblica e poi essendo stata negata tale prima richiesta, la presentazione della più sostanziale richiesta di indipendenza complessivamente raggiunta nel 1960 dopo anni di lotta, nella gran parte dei casi, violenta.
La raggiunta indipendenza, tuttavia, non ha necessariamente significato la gestione significativa dei mezzi di produzione e di distribuzione delle materie prime, anzi di norma ha rappresentato il modo per trasformare un colonialismo vetero-paternalistico in un razionale sfruttamento unilaterale di risorse vuoi umane che naturali.
Tale procedimento, perfettamente riuscito, nonostante l’affrancamento del concetto di sottosviluppo endemico di Cina e India, che anzi hanno raggiunto tassi di crescita in termini di P.I.L. estremamente importanti così come il Brasile da altro punto di vista e continente, gli altri paesi invece hanno compromesso il loro futuro vendendo irrimediabilmente le loro risorse o impestando il loro ambiente delle scorie prodotte in occidente e abilmente regalate in contropartita di buone materie prime. L’istanza sociale che aveva attraversato il secolo XIX nelle sue forme socialiste e comuniste, diviene fabianesimo e dottrina sociale della chiesa, con Leone XIII la cattedra di San Pietro interviene sul concetto di proprietà e in particolare di proprietà dei mezzi di produzione, da una parte. Dall’altra parte San Giovanni Bosco a Torino, fondando l’ordine salesiano maschile e femminile affronta il problema del disagio urbano vuoi dei certi deboli giovanili vuoi il problema degli ex braccianti agricoli che venivano chiamati a lavorare nelle giovani industrie. Le città non sono preparate a ospitare i nuovi ceti urbanizzati, non esistono centri di accoglienza così come non esiste un alloggio dignitoso, al salario ha il solo compito di consentire la mera sopravvivenza destinata alle attività produttive mentre quella gente che, per eccesso di natalità, non riesce a trovare un reddito di sopravvivenza sufficiente nelle campagne viene invitata emigrare. Mentre si vanno nazionalizando le grandi compagnie di navigazione italiane, lo Stato usa i suoi vettori per trasportare immani quantità di genti, nei loro viaggi verso un nuovo mondo.
L’industria nascente, rafforzata dai protezionismi nazionalistici, dal momento che non riesce ancora ad essere competitiva sul piano nazionale, trova sbocco sui mercati avviando le campagne di guerra, è la crisi italo-turca dell’11 ed è la partecipazione alla prima guerra mondiale con il rovesciamento delle alleanze. Il clamore della prima guerra mondiale serve anche per eliminare le radici di quel concetto proprio della classe operaia di gestione diretta dei mezzi di produzione e quindi del potere politico. La democrazia diretta della Comune di Parigi diventa il principio guida del III Congresso del PC bolscevico come modello di democrazia diretta fondata sull’Assemblea ma le potenze occidentali e centrali vogliono il combattimento diretto per eliminare quella parte della classe operaia ideologizzata , contestatrice del sistema produttivo e del suo modo di essere gestito. L'indomani alla prima guerra mondiale evidenzia la crisi del sistema capitalistico italiano, viene evitata la rivoluzione spartakista a Torino ma rimane la domanda: “In che termini stemperare il conflitto sociale facendo partecipare alla gestione della cosa pubblica le masse operaie e i contadini lazzaroni del Sud che sono state la carne da macello della prima guerra mondiale?". Non è la soluzione sturziana della partecipazione dei cattolici a un sistema elettorale censuario, maschilista ed elitario. La risposta è “dare dignità, non in funzione dell’appartenenza a una parte della specie umana ma in funzione dell’essere membro di un ecosistema di cui la specie umana è componente coessenziale al contesto delle cose. Specie che non è di lingua italiana o di religioni cattoliche, specie che è ugualmente dignitosa in ogni parte del pianeta e che, nel contesto di una industrializzazione forzata e uguale in ciascun paese, depreda le risorse senza rinnovarle inquinando il pianeta con le sue scorie e ponendo i presupposti per la sua stessa negazione.
Non esiste un valore reale delle cose, esiste un valore finanziario dello stesso di cui il ceto intermedio è portatore colto ma non innovativo. La sfida passa attraverso il controllo gerontocratico e borsistico dei sistemi di produzione che, nella buona sostanza, nella chiave di lettura dell’universalismo fascista o di quello comunista finisce per servire obiettivi, schemi e procedure comuni, con la materiale eccezione della Cina. Ambedue gli universalismi fanno a meno di tutto ciò che sta aldilà del fisico e il fisico è ciò che è quantizzabile; si prepara al diritto di voto universale in quanto, per poter assicurare il collocamento della produzione, occorre il consenso del consumatore, ma il consenso del consumatore non si può limitare all’uso di strumenti puramente economico-finanziari; il consumatore deve potere esprimere il suo grado di apprezzamento sociale e quindi di appagamento riconosciuto nell’uso del diritto di voto universale. La persona umana non è portatrice simbolica di valori comuni alla natura, la persona umana non è portatrice di un infinito numero di dimensioni possibili, la persona umana non è capace di giocare così come non è più capace di costruire, la persona umana non è più capace di progettare; in una parola non è in grado di vivere ma è solo vissuta identificandosi la persona umana in quel certo mondo occidentale di cultura greca e protestante in cui non v’è spazio per i perdenti. Quella cultura greca e occidentale tuttavia ha chiesto al resto del mondo cento e più milioni di morti per continuare a esistere utilizzando ogni mezzo possibile per la sua sopravvivenza, dalla guerra dell’oppio alla creazione degli Stati postcoloniali indipendenti ma privi di quegli strumenti fondamentalmente educazionali che dessero la possibilità di costruire un modello originale, di utilizzazione delle proprie risorse naturali, umane e finanziarie secondo un modello di partecipazione e dando vita a un colonialismo fondato sul semplice sfruttamento. Gemmellaro e i suoi salesiani rifiutano la prospettiva di fondo circoscritta quasi deterministicamente dei fatti socioeconomci. Egli crede e sollecita ad una visione dell’uomo e del mondo, dei fatti e dei rapporti internazionali, in un quadro di valori ben più ampi, interesistenti, interdipendenti e interagenti e di cui le grandi organizzazioni finanziarie internazionali e interregionali non sono altro che un modesto capitolo di un confronto che non deve essere scontro ma interazione fra Nord e Sud e fra Est e Ovest, così come oggi la globalizzazione della comunicazione e della tecnologia dimostra e impone, tenuto conto che la produzione e l’innovazione del pensiero matematico e fisico proviene da India, Pakistan e Brasile e non certo dai paesi usualmente detentori del potere. Gemmellaro evidenzia la crisi di un’ideologia nel mondo occidentale, nella NATO, nella gerarchia delle organizzazioni internazionali e crea le ragioni perché nasca un concetto di solidarismo fondato sulla dignità e sulla compartecipazione. La crisi di cui si parla è la crisi del metodo nei vari settori della produzione e produce una crisi internazionale sulla politica monetaria di paesi occidentali.
La solidarietà pone al centro del processo di revisione la cancellazione dell’identità fra feudalismo storico e neocapitalismo avanzato. Il confronto avviene su basi istituzionali, non a caso la solidarietà stermina l’universalismo comunista salvaguardando tuttavia l’universalismo cinese che, attraverso il pensiero di Mao, risolve innanzitutto la questione di far uscire la gente dal bisogno facendo di Mao non solo un grande ideologo ma il più grande stratega della storia dell’umanità.
La grande marcia come Pasqua del mondo cinese - quattrocentomila persona che attraversano un intero continente.
Il pensiero di Gemmellaro comprende benissimo che è utopistico aspettarsi miracoli o palingenesi che possano guarire in breve termine i difficili ed oscuri mali dell’inflazione, della stagnazione, della recessione e della disoccupazione che affliggono in misura ogni giorno più rilevante quasi tutte le genti (90% della popolazione mondiale). La proposta di Don Gemmellaro, aldilà di uno spontaneismo quasi meccanicistico o di un volontarismo ideologico e programmatore entro le strette barriere di unioni regionali, afferma che, se si vuole costruire un nuovo modello di sviluppo sappia valorizzare, coordinandole e armonizzandole, le enormi capacità tecnologiche dei paesi industrializzati e di alcuni dragoni, le pressoché illimitate risorse umane di grandissima qualità intellettuale e le materie prime dei paesi emergenti, le disponibilità finanziarie e residualmente energetiche dei paesi petroliferi; se si vuole realmente migliorare la qualità e i valori della vita, occorrerà procedere con un approccio globale e ricreare quelle condizioni di solidarietà e di cooperazione internazionale che furono viste nel modello giuridico di compartecipazione di gestione alla cosa pubblica dell’Impero Romano che consentirono l’avvento di uno dei periodi relativamente fecondi e creativi. Da qui l’istanza di Gemmellaro di un nuovo sistema di regolamenti e norme internazionali atti a soddisfare la domanda sempre nascente dei mezzi di pagamento destinata a consentire un commercio equo e solidale capace di portare gli esclusi del mondo a una compartecipazione dell’attività del mondo. In effetti, come in altro contesto affermato da Claudio Picozza e da Franco Tutino, si è passati da un’economia reale a una finanziaria dove il prezzo non è più il valore di sostituzione bensì il valore d’uso delle stesse. E in un mercato globale, mentre i valori reali sono surclassati dalle risorse che gli OGN possono fornire, l’economica finanziaria consente agli strumenti atti e necessari a soddisfare i bisogni, di rapportarsi a quel valore congruo che è quello teoricamente esistente nei mercati più competitivi. In questo senso, esclusa ogni possibilità di dare vita a forme di damping commerciale, stante le norme sulla competitività internazionale, (scherman act, clayton act, articoli 85 e sg. del Trattato di Roma) una lametta di rasoio non può non costare a New York tanto quanto costa a Kiev o a Vladimir o a Ouagadougou. Naturalmente, dal momento che i salari reali rimangono ancorati al principio del damping sociale, il potere d’acquisto degli stessi non può che rimanere falcidiato delle regole stesse della competizione globale.
Da qui l’impoverimento, in termini di potere monetario d’acquisto, del 30% dei paesi del mondo nella misura pari ad almeno al 70% del potere d’acquisto corrente nel 1990. La posizione di Gemmellaro ha costituito un richiamo esterno a quanti operano a livelli internazionali e nazionali, ad una volontà innovatrice solidaristica più adeguata all’urgenza dell’ora; offre a quanti - e chi potrebbe sottrarsi? - si occupano di problemi sociali, un esemplare modello di rilevazione e di studio, di analisi e di proposta creatrice, di superamento d’un dottrinarismo disimpegnato e in pari tempo di una prassi empirica e fluttuante; di un riferimento ad un quadro di urgenza e di valori che trascende da un lato un piatto economicismo meccanicistico, un istituzionalismo formale e retorico, messaggi ideologici di un umanesimo populista lontano e persino rescisso dalla ineludibile, ma flessibile realtà economica e sociale. Da ciò il compito concreto che Gemmellaro affida all’istituzione salesiana. L’argomento proposto non poteva, sia come analisi della crisi dell’Occidente sia come fondazione della cultura, che proporsi verso orientamenti differenziati quali:

1)    l’appello a una perenne riproblematizzazione della dimensione conoscitiva e della cultura e di conseguenza ad un perenne riproblematizzare ideologie strutture e istituzioni in funzione della loro origine e del loro fine ultimo: servire l’uomo nel contesto antropologico e ecosistemico nel quale temporalmente opera;
2)    il superamento di ogni nichilismo gnoseologico e ontologico per una relatività, anche se imperfetta e processuale, di valori permanenti e cogenti alla cui base sta l'assioma amore;
3)    la mediazione antropologica, ma né totalmente fattuale, né totalmente costitutiva in un momento di esaltazione della soggettività;
4)    l’appello pertanto all’uomo e alla storia, ma altresì alla metastoria e alla metafisica rinascente da una dialettica globale storico-esistenziale e non solo noetica;
5)    il superamento di una morale pietrificata, puramente deltivista e chiusa al nuovo e al divenire scientifico, economico, sociale, politico, artistico, religioso, senza tuttavia ricadere in un relativismo nichilista e anarchico-radicale (i trattati multilaterali coesivi della realtà globale costituiscono una reale piattaforma giuridica su cui costruire e non negare un modello di amministrazione dei prodotti e dei servizi afferenti il mercato globale in una chiave etica, rispettosa dei diritti umani, funzionale al “dover essere” che le parti sociali esistenti al mondo devono darsi;
6)    la riconsiderazione anche delle totalità dei valori che sono l’essere umano nella sua complessità e correlazionalità: sono in quanto dono non in quanto schiavo, sono in quanto costruisco non in quanto distruggo, sono in quanto innovo non in quanto conservo per me l’accumulazione;
7)    l’appello vibrante ad un umanesimo universale e cosmopolita, senza frontiere egoarchiche o mitologie e apoteosi particolari pur nella diversità degli accenti che comporta la rimessa in discussione del potere di controllo e di amministrazione delle grandi organizzazioni internazionali fondate sul principio della non pari dignità bensì della ripartizione dei poteri in funzione del numero di quote sociali sottoscritte e pagate;
8)    il rapporto fra cultura, civiltà e metafisica, pur nella salvaguardia gelosa di una laicità della cultura, che è settoriale perché razionale fino in fondo, non può non svettare al divino.

Dall’immane proposta di Gemmerallo al confronto con i promotori del dibattito sulla nascita del centro-sinistra, all’inizio degli anni ’60, durante il periodo di esilio palermitano di Giuseppe Gemmellaro, propugnatore di una laicità della cultura capace di creare una dialogo fra le diverse componenti dell’umanità esistente, si confronta con quanti in Italia nel ’60 parlavano di dialogo, ma poi senza grossi drammi né ideologici né religiosi né politici, che anzi in nome di una convergenza fra azione politica rivoluzionaria e animazione di forza e di umanità si erano sentiti in dovere di fare il passo “arrivando perfino quasi all’affermazione non già di una sinistra e tanto meno di un’opposizione, sebbene quasi di una convergenza e confluenza polarizzatrice verso l’orizzonte marxista ridotto ai grossi motivi anticapitalistico e liberatorio. E’ impressione di Gemmellaro che in realtà si tratti in genere di interventi sommari, sintetici, troppo ristretti ad appena deliberare i grossi problemi storici, filosofi, religiosi, politici cui ci si va riferendo.
Negli anni ’60 la nota omogeneizzante e corale era quella dell’anticapitalismo industriale e della liberazione dell’uomo.
Quanto però a fede politica filosofia e prassi, prospettive e disillusioni, le posizioni erano diverse, polivalenti, riduttive spesso anche in funzione del fatto che si andava annunciando, come oggi è, la nascita di una società della conoscenza fondata sull’alchimia dei numeri e della genetica cui l’essere umano partecipa per sentito dire subendone però l’espropriazione del diritto ad essere e l’espropriazione del diritto a volere prima che la perdita del diritto a vivere.
C’era chi confondeva e identificava in nome della globalità totalizzante (o di fede, o di mercato o di civiltà); c’era invece chi distingueva e diversificava o per lo meno problematizzava tra fede religiosa e polivalenza delle scelte politiche; c’erano altri che arrivavano ad affermare con tranquilla acriticità l'indifferenza della fede nei confronti della politica, almeno nel mondo occidentale considerato peraltro che fede è anche credere in qualsiasi universalismo, quasi che autonomia sia lo stesso che anomia; quasi che analogicità nel concetto di civiltà cristiana, di civiltà musulmana e di civiltà ebraica possa portare ad un tranquillo quietismo od attivismo intellettuale e poetico praticamente qualunquista; quasi che fede, teologia, filosofia, spiritualità cristiana, ebraica, musulmana, marxista circa il quadro axiologico di fondo (l’essere umano, la socialità, la solidarietà, la libertà, la giustizia, i mezzi e i metodi della promozione economica, le forme e i metodi dell’organizzazione dello stato, le attese ed intese internazionali e sovranazionali, etc.), non abbiano quasi nulla di positivo storicamente realizzato o nei cui confronti oggi non si presentino o confusive o riduttive o indifferenti o manipolatrici.
Nel pensiero di Gemmellaro risultano poco scientifici storicamente e teologicamente, e politicamente poco innovativi e costruttivi, i grandi silenzi sulle grandi svolte storiche e l’impegno e l’incisività cristiana; il dogmatico rifiuto di una ispirazione e aspirazione cristiana sia come convalida di valori connaturali e razionali, sia come arricchimento e sublimazione di livelli e di promozione; il persistente riporto e rapporto dei grandi valori che ricordavamo, la loro concreta incarnazione quasi esclusivamente ad un socialiso di cui non si è stati capaci di configurare radicazione filosofica e teologica, promozione concreta e ben specifica come modelli, come soggetti portanti e come mezzi di un nuovo modo di fare economia organizzata in relazione a momenti sociali, formare e partecipare i poteri a tutti i livelli; rilevazione congruamente emergente del comunismo “nella molteplicità, diversità, contrapposizione, degenerazione, desumanaazione dei suoi modelli perfino più potenti e prepotenti”. Si è tanto parlato di socialismo e di comunismo del volto umano, ma insufficientemente, senza il coraggio di analizzare e rifiutare di fatto il centralismo autoritario, burocratico, totalitario connesso non solo a concezioni ed errori di uomini ma al sistema. Nel pensiero di Gemmellaro il dibattito aperto culturalmente impegnato che lo portò a essere il padre fondatore del comunismo in Sicilia quale modello di una forma di gestione della produzione agricola fondata sulla qualità e sul prodotto di nicchia riscattante i lazzaroni senza per questo essere necessaria una nuova repressione di Bronte o dei Fasci dei lavoratori in piena concordanza di un disegno mediterraneo di crescita comune. Il dibattito impegnato, di cui Gemmellaro parlava, deve essere anche aperto severamente alla  completezza  e  complessità  storica  e  più che silenzi, condanne o esaltazioni deve contribuire - uscendo da una cittadella chiusa e indifesa - alla nascita di un mondo universale aperto e in attesa di prospettive che, mentre superano l’individualismo capitalista e la compartecipazione alla gestione attraverso l’azionariato popolare e i fondi pensione, le forze e il tenue riformismo di ceti cattolici trascendono quell'equivoco radicalismo libertario e riformista, ateo, immanentista, totalitario, neocapitalistico e ufficialmente partecipativo che oggi pur esso emerge nel mondo ma non certo nei PVS, ivi inclusa la Cina che già dal 1949 aveva assunto a suo modello di sviluppo un comunismo confuciano piuttosto che laico marxiano.

 

 

Vincenzo Porcasi: commercialista, anni 63. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, specializzato in questioni di internazionalizzazione di impresa, organizzazione aziendale, Marketing globale e territoriale. Autore di numerosi saggi monografici e articoli, commissionati, fra l’altro dal C.N.R.-Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero del Lavoro. Incarichi di docenza con l’Università “LUISS”, con l’Università di Cassino, con l’Università di Urbino, con l’Università di Bologna, con la Sapienza di Roma, con l’Università di Trieste, e con quella di Palermo nonché dell’UNISU di Roma. E’ ispettore per il Ministero dello Sviluppo economico. Già GOA presso il Tribunale di Gorizia, nonché già Giudice Tributario presso la Commissione Regionale dell’Emilia Romagna.