“… i meccanismi della Costituzione democratica sono costruiti infatti per essere adoprati non dal gregge dei sudditi inerti, ma dal popolo dei cittadini responsabili: e trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere.”

P. Calamandrei

Purtroppo, le parole di Calamandrei si sono rivelate profetiche, la scuola oggi non produce più cittadini consapevoli della loro appartenenza alla comunità, in grado di padroneggiare le conoscenze e le competenze fondamentali della formazione scolastica con uno adeguato spirito critico e con la capacità di pensare con la propria testa.

Il disegno costituzionale di “elevazione spirituale e morale dell’individuo” e di formazione dei giovani come futuri cittadini è stato completamente disatteso; Moro alla Costituente parlava di “educazione come sviluppo progressivo della personalità mediante una adeguata cognizione del proprio io e del mondo”; alla luce delle vicende politiche degli ultimi decenni, attraverso varie riforme, dall’idea di autonomia (Bassanini/Berlinguer), fino alla legge sulla “Buona Scuola” (Renzi) e da ultima la minacciata regionalizzazione dell’istruzione si è ormai affermato un modello sostanzialmente neoliberista dell’Istruzione, fondato sui “paradigmi della concorrenza, delle privatizzazioni, in definitiva del mercato” (Calvano, p. 47).

“Lo sviluppo della curiosità, di un approccio critico al sapere e alla conoscenza, l’educazione al confronto con l’altro anche tramite il gioco e l’accettazione delle differenze regrediscono sullo sfondo, in un panorama nel quale la scuola finisce col diventare meramente sede per una anticipata ed inadeguata formazione professionale” (Calvano, 2018).

Noi oggi viviamo in “nazioni abitate da persone addestrate tecnicamente, che non hanno imparato ad essere critiche nei confronti dell’autorità. Gente capace di produrre e di generare profitti, ma priva di fantasia. Un suicidio dell’anima” (Marta Nussbaum, filosofa americana).

Il profondo nesso che c’è tra istruzione e cittadinanza è testimoniato purtroppo dalla difficoltà che molti nostri concittadini hanno a leggere il reale; le statistiche OCSE sull’analfabetismo funzionale, sulle capacità di lettura e comprensione di un testo nelle democrazie contemporanee sono implacabili.

Queste riflessioni sono mirabilmente descritte e analizzate in “Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato”, un preziosissimo libro in cui la costituzionalista Roberta Calvano affronta il nesso istruzione-costituzione-cittadinanza, con cognizione di causa ed una estrema padronanza del diritto.

Impossibile in questa sede esporre una completa disanima di tutte le problematiche affrontate nel libro, di cui ne consiglio vivamente la lettura, proverò soltanto a riassumere alcuni concetti acquisiti in varie letture (rif. bibliografia) che mi hanno colpito maggiormente.

Diritto all’istruzione sempre affiancato dal concetto di bene comune.

Il protagonista principale del libro di Calvano è il diritto all’istruzione, disegnato nella Costituzione, attraverso un insieme di principi che si intrecciano e si integrano diventando una coerente architettura di valori, tutti legati insieme dal “concetto-chiave di bene comune, supremo principio ordinatore della Carta, dove esso è definito da espressioni non coincidenti ma convergenti: «interesse della collettività» (art. 32), «interesse generale» (artt. 35, 42, 43 e 118), «utilità sociale» e «fini sociali» (art. 41), «funzione sociale» (artt. 42, 45), «utilità generale» (art. 43), «pubblico interesse» (art. 82). Mirata al bene comune è anche la centralità della cultura scolpita nell’art. 9, «il più originale della nostra Costituzione» (Ciampi). Cultura, ricerca, tutela contribuiscono al «progresso spirituale della società» (art. 4) e allo sviluppo della personalità individuale (art. 3), legandosi strettamente alla libertà di pensiero (art. 21) e di insegnamento ed esercizio delle arti (art. 33), all’autonomia delle università, alla centralità della scuola pubblica statale, al diritto allo studio (art. 34)”. (Settis, 2019)

Di conseguenza, ogni forma di differenziazione regionale è nettamente difforme dalla lettera e dallo spirito della Costituzione, così come lo è ogni forma di addestramento esclusivamente tecnico alle professioni o nel linguaggio dei pedagogisti una scuola puntata solo sulle “competenze”. Per una “adeguata cognizione del proprio io e del mondo” non bastano le competenze, non serve un’istruzione vista solo come “trasferimento di nozioni preconfezionate, ma condivisione di idee tramite pratiche pedagogiche aperte, connotate da interscambio e dal rispetto dello sviluppo dell’individuo, mantenendo un rapporto tra scuola e vita e tra insegnamento teorico e quotidianità, coniugando intelligenza pratica ed astratta” (Calvano, 2019; si vedano anche Dewey, 1916 e Gramsci, 1949).

La scuola della Costituzione parla il linguaggio dei diritti, non quello meritocratico.

Nell’epoca in cui viviamo attualmente il merito è elevato a criterio assoluto di giustizia sociale, esso è visto come un requisito riconducibile all’individuo, una sorta di virtù con rilevanti connotazioni morali; in un bellissimo articolo, “Dalla critica della meritocrazia al diritto all’istruzione”, Massimo Baldacci, ci fa notare rilevanti aporie di cui soffre questa interpretazione. Cercherò di riassumere.

La prima: le capacità che determinano il merito di un individuo o sono innate (doti naturali, lotteria genetica) o sono dovute alla stimolazione ambientale, sia nel primo che nel secondo caso non vi è alcun merito ad essere stato privilegiato dalla fortuna genetica o dall’essere nato in un contesto socio-famigliare avvantaggiato. “Anzi, appare ingiusto che altri soggetti debbano patire ambienti sfavoriti”.

La seconda: il merito può essere determinato dalle prestazioni fornite dall’individuo nel quadro della competizione con gli altri; ma una gara è equa soltanto se tutti i concorrenti partono dalle stesse condizioni; il vantaggio di condizioni genetiche o famigliari migliori trucca la gara. Anche in questo caso niente merito.

La terza: si può stimare il merito in base all’impegno fornito, allo sforzo personale; ma la buona volontà, la kantiana “autonomia della volontà” è l’esito di un processo educativo che dipende anche in questo caso dall’ambiente socio-famigliare, non vi è alcun merito nell’essere nato in un ambiente sensibile verso la scuola e prodigo di incoraggiamenti. E nemmeno demerito in caso contrario.

Da queste tre aporie si capisce subito come la meritocrazia consiste in un uso ideologico del merito che tende a mascherare le diseguaglianze iniziali, ciascuno è responsabile di ciò che ottiene, se si risulta tra i perdenti, si deve incolpare solo se stessi; in poche parole, gli svantaggi sono trasformati in demeriti.

Questo è il linguaggio del neoliberismo non quello della Costituzione, che invece ci insegna: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

Le conseguenze sociali della meritocrazia sono devastanti, “essa produce l’esaltazione e l’arroganza dei vincenti e l’umiliazione e il risentimento dei perdenti.” Fenomeni che corrodono la coesione sociale e disgregano le comunità, facendo crescere populismo e disordine sociale. “Nel nostro Paese i danni della meritocrazia sono “aggravati” dalla presenza di privilegi e nepotismi, le carriere continuano a essere basate sulle reti di conoscenze familiari, anziché sul talento; allora, l’esito è quello del disinganno e del cinismo, che già Leopardi nel “Discorso sullo stato presente dei costumi italiani” (1824), vedeva come una tara del carattere nazionale” (Baldacci, 2024).

La Postdemocrazia e i dispositivi di valutazione standardizzata

Nel suo libro, Calvano analizza lungamente ed in dettaglio i dispositivi introdotti nella recente legislazione come i Test INVALSI e iniziative come l’alternanza scuola lavoro; proposte sostanzialmente viziate da una visione esclusivamente mercatistica dell’istruzione (p.101), “operazioni politiche di modifica profonda delle condizioni di lavoro e giuridiche degli insegnanti … senza confronto con le organizzazioni sindacali e della docenza” (p.87).

Dal 2008 in poi con la proposta Checchi-Ichino-Vittadini (ministro Gelmini) e successivamente con la “Buona scuola” (Renzi), la linea di tendenza che si è voluto far emergere è che la scuola non avrebbe in sé gli strumenti per valutare il livello di istruzione dei suoi discenti (p. 78), onde per cui si è imposta la necessità di un ricorso sempre più pervasivo dell’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema di Istruzione), discussa rielaborazione italiana dei test elaborati nell’ambito del PISA (Programme for International Student Assessment) che da tempo l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) promuove, un tipo di valutazione standardizzato che appiattisce la diversità delle condizioni iniziali e le preziose diversità di discenti e docenti in barba alle differenze dei “contesti di realtà” di partenza (p.36).

Sarà difficile con i test INVALSI misurare le “adeguate cognizione del proprio io e del mondo” di cui parlava Moro alla Costituente o in che misura un discente possa “concorrere al progresso materiale e spirituale della società” (art. 4); come può un test standardizzato misurare la capacità di fare un ragionamento critico, la fantasia, le attitudini artistiche degli individui.

“La valutazione di tipo standardizzato è diventata una vera e propria “cultura”, un approccio alle cose, una deformazione dello sguardo con cui si osserva la scuola e del linguaggio con cui si parla di scuola”. L’INVALSI misura oggi i livelli di competenza dei discenti, il divario tra Nord e Sud, la qualità dei singoli Istituti scolastici, dei Dirigenti e dei Docenti, sovrapponendo ormai “alle valutazioni soggettive e ai giudizi professionali dei docenti, quelle pseudo-oggettive dell’Istituto di valutazione” (Latempa, De Nicolao, Roars 2019). Come si potrà conciliare l’obbligatorietà dei test INVALSI con il profilo costituzionale di diritto-dovere dell’istruzione; “l’introduzione del test codifica e influenza scelte, modalità e contenuti del percorso scolastico svolto da insegnanti e studenti, comprimendo gradualmente ma inesorabilmente la libertà di chi apprende e di chi insegna” (Latempa/De Nicolao).

Per maggiori dettagli circa queste e altre criticità sollevate da tali test, rimando alla traduzione riportata per intero da Calvano nel suo libro (p. 39) della importante lettera (OECD and Pisa tests are damaging education worldwide) inviata nel 2014 al direttore del programma PISA dell’OCSE (Andreas Schleicher) da un gruppo di oltre cento accademici, tra cui i più autorevoli pedagogisti di tutto il mondo; nella lettera gli studiosi contestano la validità pedagogica e conoscitiva dei test, esprimono preoccupazione per la crescente ingerenza del settore privato in ambito educativo e invocano una moratoria.

Alla luce delle complesse trasformazioni avvenute nella società della Postdemocrazia (C. Crouch), dove i Sistemi politici, seppur democratici, sono governati e pilotati dalle grandi lobby e dai mass media e dove il regime neoliberista sta trasformando le scuole in aziende “in concorrenza tra loro entro una sorta di mercato della formazione” il concetto stesso di istruzione dovrebbe essere quanto meno rimeditato; ad oggi, “lo Stato di cultura della Costituzione italiana pare lontano secoli rispetto alla drammatica situazione odierna”.

La migliore conclusione è ancora nelle parole di Calvano: “Non c’è bisogno di citare Calamandrei per ricordare che cittadini non consapevoli si trasformano facilmente in sudditi … la Costituzione repubblicana preferirebbe sicuramente si torni a rendere possibile che i capaci e meritevoli anche se privi di mezzi raggiungano i gradi più alti degli studi. L’abdicazione dello Stato dal compito dell’istruzione tramite la sua trasformazione in servizio-merce, offerto sempre più tramite forme privatistiche, da parte di soggetti in competizione tra loro, in concorrenza per risorse sempre più scarse, si disvela allora nella sua essenza: un’incredibile miopia, un gesto autolesionistico di un padre che, avendo affamato i suoi figli viene da questi ucciso, uno scenario da Inferno dantesco cui non vorremmo certo dover assistere” (p. 176).

Bibliografia

  1. M. J. Sandel; 2021. “La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”.

  2. R. Calvano; 2019. “Scuola e Costituzione, tra autonomie e mercato”.

  3. G. Benedetti, D. Coccoli; 2019. “Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere”.

  4. M. Boarelli; 2019. “Contro l’ideologia del merito”.

  5. C. Crouch; 2015. “Postdemocrazia”.

  6. P. Calamandrei; Sellerio editore Palermo 2008. “Per la scuola”.

  7. V. Crisafulli; 1956. “La scuola nella Costituzione”.

  8. A. Gramsci, 1949. “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”.

  9. J. Dewey; 1916. “Democrazia e educazione”.

  10. M. Baldacci; in Proteo Fare Sapere, 2024. “Dalla critica della meritocrazia al diritto all’istruzione”.

  11. Jacobin Italia n° 9, 2020. “La scuola non serve”.

  12. Carla Acocella; in Rivista AIC, fasc.2, 2020. “La Scuola nella Costituzione italiana: diritti, funzioni e servizi”.

  13. Left n° 11, 2019. “W la scuola. Pubblica, laica e democratica”.

  14. S. Settis, 2019. “Audizione VII Commissione Senato”.

  15. R. Latempa, G. De Nicolao; in Roars 2019. “Scuola e cittadinanza sotto i colpi di autonomia e mercato”.

  16. F. Marone (a cura di); Associazione GRUPPOdiPISA, Napoli 2018: “La doverosità dei diritti: analisi di un ossimoro costituzionale”.

  17. M. Ghergo, 2017. “Lacerata, svuotata, residuale. La “Postdemocrazia” di Colin Crouch”.

  18. M. Baldacci, 2017. “Democrazia ed educazione: una prospettiva per i nostri tempi”. In G. Lopez, M. Fiorucci; RomaTre-Press: “John Dewey e la pedagogia democratica del ‘900”.