La gestione della società all’esterno dell’organizzazione

L’organizzazione dipinge il proprio scenario, lo osserva con il binocolo e cerca di trovare un sentiero nel paesaggio”.

KARL E. WEICK

Siamo arrivati al nono e penultimo contributo sulle “scienze dell’organizzazione”, esplorando le teorie organizzative, divise, come anticipato, in due parti: in questo numero le teorie dell’ambiente, strategia e modelli di organizzazione, mentre nel precedente abbiamo esaminato i soggetti e l’azione organizzativa (Caos Management N. 160).

Ma ricapitolando, nel primo abbiamo esaminato la nascita del problema organizzativo a partire dal mercato (Caos Management N.153); nel secondo si è vista la doppia ricerca nelle organizzazioni di certezza e di flessibilità (Caos Management N. 154); mentre nel terzo è emersa la crisi della forma burocratica (Caos Management N. 155) e infine nel quarto contributo le decisioni a razionalità limitata (Caos Management N. 156). Mentre nel quinto articolo la nostra attenzione si è rivolta alla struttura organizzativa e i parametri di progettazione (Caos Management N.157). A sua volta questa tematica è stata distinta in tre punti: struttura e parametri di progettazione, già affrontata nella prima articolazione pubblicata, i meccanismi di coordinamento successivamente descritti (Caos Management N.158) e l’analisi delle microstrutture affrontata nello scorso numero de il (Caos Management N. 159).

Riprendiamo il filo, ancora una volta.

La teoria dell’organizzazione, per la sua complessità, è stata, dunque, divisa in due parti.

La prima, nello scorso numero, incentrata sugli attori e comportamenti organizzativi, le prime variabili a smarcarsi dall’impianto strutturale e meccanico dell’organizzazione, appunto, la “società all’interno delle organizzazioni”.

La seconda, che ora andiamo ad esaminare, vede emergere l’ambiente organizzativo, ossia il Task Environment, come linsieme degli attori e delle forze esterne con cui unorganizzazione interagisce direttamente e da cui dipende per il raggiungimento dei propri obiettivi. Questo ambiente non è unentità autonoma, ma il risultato delle scelte strategiche dellorganizzazione e della definizione del suo campo d’azione (dominio).

Arrivati a questo punto il riferimento sono le teorie dell’ambiente e il primo approccio è quella delle contingenze organizzative (anni ’60 e ’70)1. Il senso ultimo di questo approccio teorico è che le caratteristiche dell’am­biente, semplicità o complessità, stabilità o dinamismo ed eventualmente turbolenze ambientali influiranno sugli assetti strutturali dell’organizzazio­ne, distinguendo, come sempre, principalmente due essenziali metafore organizzative: la macchina versus l’organismo. Ma dal punto di vista manageriale le contingenze organizzative non implicano solo la scelta di un modello di organizzazione ma anche il compito di diversificare, all’interno dell’impresa, diverse funzio­ni, differenti parti della macrostruttura, disparati modelli di OL (secondo i più evoluti principi e strumenti della progettazione organizzativa), mettendosi a specchio con il contesto ambientale.

On best fit

In generale la parola chiave delle teorie contingenti è one better fit (una mi­gliore adattabilità) per cui al cambiamento delle variabili contingenti (ester­ne) deve corrispondere un cambiamento dell’organizzazione (interno). Se il cambiamento risulta efficiente diremo che la struttura organizzativa è “fit” altrimenti si dirà “misfit”.

Ciò modifica profondamente la regola della scuola classica della one best way, l’unica soluzione tecnica ottimale per qualsiasi contingenza organizza­tiva, modificando, conseguentemente, anche i relativi modelli di management.

Task environment

In primo luogo, secondo P. Lawrence J. W. Lorsch, nel libro Organization end Environment (1967)2, l’ambiente di riferimento dell’impresa, ossia il “dominio” dell’orga­nizzazione, quindi, il contesto ristretto delle sue relazioni economiche e tec­niche, opposto al general environment, ambiente molto più vasto (e compren­sivo delle istituzioni), impone alle organizzazioni una pluralità di strutture interne (funzioni) in relazione alla diversificazione degli ambienti, secondo una “legge di pari complessità”. Mentre in secondo luogo, T. Burns e G. M. Stalker in The Ma­nagement of Innovation, (1961)3, in base ai mutamenti di mercato e tecnologici e in rapporto al dinamismo o tranquillità dell’ambiente, definiscono le con­figurazioni lavorative di due sistemi organizzativi, quello organico o meccanico.

Sulla base di questi schemi teorici contingentisti, il management dovrà, nel primo caso, strutturare le funzioni organizzative della produzione, della ricerca & sviluppo e della promozione e vendita, come speculari a determinati ambiti ambientali, considerando il settore tecnologico, quello scientifico e il settore di mercato. Il problema, in definitiva, per i manager, è il presidio organizzativo interno di ambiti significativi dell’ambiente esterno (e del loro mutamento).

Mentre, nel secondo caso, sulla base della differenziazione dei model­li d’impresa, rispetto all’ambiente, cambiano le logiche di progettazione e gestione del lavoro umano e delle unità organizzative. In ambiente stabile il management potrà utilizzare differenziazione e specializzazione dei compi­ti, gerarchia, responsabilità legata alla posizione organizzativa. In ambiente complesso vi sarà ricorso, viceversa, all’esperienza, orientamento diffuso alla soluzione dei problemi, prevalenza di competenze professionali e responsa­bilità legata al raggiungimento degli obiettivi.

Le configurazioni organizzative

Variano secondo H. Mintzberg, nel suo fondamentale testo Structure in Five. Designing effective organization (1983)4, anche i parametri della progetta­zione organizzativa sia al livello della macrostruttura che sul piano delle mi­crostrutture. Diverse le regole della progettazione delle posizioni, differenti i livelli di accentramento o decentramento, dissimili i meccanismi di coordinamento e le logiche di raggruppamento delle posizioni organizzative, utilizzo o meno delle relazioni orizzontali (comitati, gruppi di lavoro, task force e manager integrato­ri) che completano il quadro del coordinamento aziendale.

A questo proposito, Mintzberg distingue cinque configurazioni organiz­zative (struttura semplice, burocrazia meccanica, burocrazia professionale, organizzazione divisionale e adhocrazie), sempre in relazione alle (diverse) contingenze ambientali, semplicità e complessità, stabilità e dinamicità o di­versificazione, che alternano differenti parti della macrostruttura relativa­mente alle strutture indicate: vertice strategico e nucleo operativo (forma semplice); eventuale implementazione di linea intermedia e organi di staff (funzioni di servizio) con tecnostruttura (forma burocratica); decentramento del nucleo operativo ed eliminazione della tecnostruttura, con mantenimento dello staff di supporto (organizzazione professionale); prevalenza della linea intermedia col­legata a singole divisioni di prodotto (soluzione divisionale); relazioni trasversali tra vertice strategico, nucleo operativo e staff tecnico (forme innovative o adhocratiche).

Di fatto, uno sterminato bagaglio di strumenti a disposizione del manage­ment per raggiungere il fit aziendale.

Presenza o assenza della tecnostruttura organizzativa a seconda che ci siano regole e procedure o meno (burocrazia meccanica o altro). Nucleo operativo professionaliz­zato nel caso di burocrazie professionali. Riduzione dello staff di supporto in presenza di rilevanti processi di esternalizzazione delle attività organizza­tive. Formalizzazione o formazione delle posizioni organizzative (nel passaggio dalle forme meccaniche a quelle organiche). Sul piano del coordinamento, reciproco adattamento e supervisione diretta o molteplici forme di standardizza­zione (processi, input e output) a seconda dell’ampiezza di controllo possibile o necessario (span of control5); o semplicità e complessità del lavoro, in rapporto a forme organizzative standardizzate o dedicate (ad hoc). Differenti livelli verticali o orizzontali di decentramento in rapporto alle (possibili) configurazioni organiz­zative. Ad esempio, la struttura semplice risulterà accentrata (nel vertice strategi­co), la burocrazia meccanica limitatamente decentrata in senso orizzontale (alla tecnostruttura), la burocrazia professionale assolutamente decentrata (nel nucleo operativo), la soluzione divisionale limitatamente decentrata verticalmente (alla linea intermedia), mentre le adhocrazie (soluzioni innovative) saranno decentrate orizzontalmente (staff di supporto) e verticalmente (linea intermedia e nucleo ope­rativo). Infine, il raggruppamento delle risorse (umane e tecnologiche) avverrà tramite mercato (cliente o utente) o sulla base dei processi (attraverso le funzioni), con re­ciproci vantaggi (privilegiando interdipendenze flusso o di processo tecnico) o svantaggi (minore specializzazione o difficoltà di coordinamento)6. Men­tre i collegamenti orizzontali utilizzeranno diverse strutture o attori (comitati, gruppi di lavoro, manager integratori o task force) in relazione alle esigenze sup­plementari o complementari di coordinamento e integrazione dei processi organizzativi (rispettivamente, coordinamento interfunzionale, innovazione, responsabilità di prodotto o processo o emergenze organizzative).

In definitiva il modello delle contingenze organizzative metterà a confronto la forma unica di organizzazione versus la plurima differenziazione struttura­le e operativa di natura contingentista.

Modello organico e meccanico, una sintesi

Ma la svolta sul piano della progettazione e gestione dei differenti mo­delli di organizzazione razionali e naturali avviene con Thompson (autore già esaminato nelle teorie dell’azione) che ha anche una valenza contingentista (oltre che soggettivista). In sostanza l’autore propone una sintesi dei due modelli, una ricongiunzione di ciò che le teorie precedenti avevano separato, ossia la coincidenza del sistema chiuso con il sistema aperto. Il management (livello intermedio) deve assicurare al nucleo tecnico (produttivo) regolarità e preve­dibilità mentre il livello istituzionale è il luogo privilegiato dove l’organizza­zione si confronta con le sfide esterne, determinando una contrapposizione “regolata” tra il modello unico di organizzazione versus il modello a tre livelli (tecnico, manageriale e istituzionale), precedentemente citato, da parte del livello manageriale.

Le conseguenze, per i manager, di questa impostazione strutturale a più velocità (e diversi livelli di impermeabilizzazione o permeabilità del siste­ma) sono evidenti e trasferiscono la funzione manageriale ad un elevato livello di complessità e integrazione della propria azione, necessariamente diversificata, relativamente al nucleo tecnico-produttivo (la “macchina”) e all’“organismo” per le naturali funzioni di adattamento dell’organizzazione alle molteplici dimensioni dell’ambiente (interno o esterno, general environment e “dominio” in senso stretto).

L’ambiente, la complessità e il dinamismo

Chiude l’approccio contingente il modello del “tessuto causale” (Emery e Trist, 1965)7, uno schema strategico studiato proprio per le decisioni ma­nageriali. Le variabili messe a confronto sono il “tasso di cambiamento” (scarso o considerevole) e la “forza delle connessioni ambientali” (scarse o considerevoli), che determinano differenti configurazioni ambientali, con corrispondenti strategie aziendali (e manageriali). Incrociando le due variabili, infatti, ai differenti livelli di stabilità o dinamicità, abbiamo quat­tro “contingenze ambientali”: ambiente placido e casuale cui corrisponde una azione manageriale basata sull’apprendimento per tentativi ed errori; oppure, un ambiente placido e connesso, con necessità di pianificazione stra­tegica; mentre, se l’ambiente è agitato e reattivo sono necessarie le decisioni manageriali; e in caso di contesto turbolento a dominare sono le strategie collaborative, ossia accordi tra manager e alleanze tra imprese.

Ci siamo per ora soffermati sulla nozione di ambiente e configurazioni organizzative ma ritorniamo alle teorie in senso stretto esaminando di seguito: istituzionalismo e neoistituzionalismo, la molteplicità della cultura organizzativa e l’apparentemente complessa teoria dei costi di transazione.

Istituzionalismo versus neoistituzionalismo

Come abbiamo accennato nei circoli viziosi della burocrazia (vedi 3. La crisi della forma burocratica, il Caos management N.155), la traspo­sizione dei fini delle organizzazioni è una svolta sempre possibile, come dimostra la citata ricerca di P. Selznick sulle pressioni istituzionali esercitate sulla TVA (negli anni ’30). Qui, il problema è cogliere la contrapposizione tra assetti strutturali e retroazioni dei processi, con il compito primario della leadership di re-istituzionalizzare l’organizzazione, ribadendone fini e valori in una visione di “funzionalismo debole”.

Network istituzionale e risorse di legittimità

Mentre il neoistituzionalismo volge la sua attenzione all’ambiente non in termini distorsivi ma di legittimazione sociale, tramite i processi di isti­tuzionalizzazione studiati da J. Meyer (1948-vivente) e R. Brian (1950-vi­vente). L’ambiente diventa a riguardo “campo organizzativo” o “template di riferimento”, secondo i contributi di W. Powell (1949- vivente) e P. Di Maggio (1951-vivente). Finora l’ambiente è stato considerato come mer­cato degli input, del lavoro, di sbocco; da ora in poi sarà un insieme di relazioni tra imprese ma anche e soprattutto tra enti, istituzioni, sindaca­ti, agenzie regolative istituzionali, interessi speciali o stakeholder coinvolti. L’ambiente organizzativo, dunque, anche come network generale (cultura, politica, società, dimensione legale oltre che fisica nonché economico e tecnologico). Sul piano della progettazione e della gestione il management deve cogliere l’atmosfera emessa dal “campo organizzativo” e individuare, di conseguenza, il design organizzativo espresso (e richiesto) dal “template di riferimento” (modello predefinito che consente di creare o inserire con­tenuti di diverso tipo).

Alla fine, si contrappongono (in maniera creativa), come leve manage­riali, le tradizionali risorse dell’ambiente (tecniche ed economiche) versus le nuove risorse di legittimazione del contesto organizzativo (istituzioni locali e centrali, cultura e valori dominanti nella società).

I tre tipi di isomorfismo

I vincoli e le opportunità del “campo organizzativo” esprimono an­che la nozione di “isomorfismo” organizzativo, ossia il fatto che tutte le organizzazioni di quel segmento ambientale tendono ad assomigliarsi, in termini di rapporto strategia-struttura. Si afferma, dunque, e si diffonde, la somiglianza delle forme organizzative, tramite le influenze politiche e il potere, le competenze e i processi formativi comuni, i valori e la cultura (condivisa) del tessuto organizzativo (inserito in quel contesto ambientale).

I manager hanno, dunque, in mano un’arma in più per competere, tra­mite opzioni mimetiche (normative), altre volte subiscono le pratiche di “isomorfismo” coercitivo, ossia si conformano ai vincoli dell’ambiente, in certi momenti, ancora, le strategie mimetiche non hanno una reale rica­duta economica e tecnologica, avvitandosi nei cosiddetti “miti razionali” (racconti razionalizzati). In ogni caso gli sviluppi della teoria organizzativa apriranno una contraddizione tra “isomorfismo” istituzionale e “isomor­fismo” competitivo, appartenente ad altro paradigma teorico, quello delle specie di organizzazioni, qui non riportate ma largamente esplorate nei libri citati come origine di questi dieci articoli programmati su questa rivista, che in qualche caso si integra­no e (tendono) a coincidere.

La cultura organizzativa

Ma nel corso dello sviluppo organizzativo il paradigma culturale si impone, progressivamente, sulla tecnologia, l’organizzazione sociale e l’approccio strutturale (leve manageriali dell’approccio classico).

In particolare, E. Schein in Organizational culture and leadership (2010)8, propone una visione oggettiva della cultura d’azienda, fatta di artefatti, valori espliciti e assunti di base. Il management promuove rituali e apparati simbolici, favorisce la sedimentazione di esperienze organizzative, impara a gestire, con la propria cultura aziendale, le situazioni critiche o esplo­rative. Così la nuova vision dell’impresa è il telaio organizzativo (fatto di regole e procedure) versus la pluralità e imprevedibilità del comportamento degli attori. Ma, proprio per questo, la cultura delle organizzazioni ben presto si rivelerà meno coesa e compatta di quanto si credesse, favoren­do nuovi approcci soggettivi (caratterizzati a volte anche da ambiguità e contrapposizione).

Il lato oscuro della cultura organizzativa

Come nel caso della “cultura aziendale”; quando una nuova tecnologia dell’organizzazione può di­ventare ideologia volta al mero controllo dei dipendenti, modificando pro­fondamente la relazione soggetto-organizzazione, e in senso peggiorativo. È un merito della ricerca di G. Kunda (1952-vivente)9, su di un azienda hi-tech, scoprire gli effetti perversi della cultura trasposta come ideologia aziendale, come motore per l’investimento emotivo degli attori, con la filo­sofia d’impresa eretta a tecnologia sociale di produzione, rivoluzionando, di fatto, i sistemi storici di “controllo organizzativo”, e portandoli così al terzo livello (dottrina aziendale), dopo il primo (la gerarchia) e il secondo (la tecnologia), già sperimentati nell’analisi organizzativa, e storicamente se­dimentata nonché largamente utilizzata dai manager.

Se è lecito per il management promuovere una cultura della partecipazio­ne organizzativa, meno accettabile è la nozione di “colonizzazione” delle coscienze, determinando profondi squilibri nella relazione azienda –di­pendenti, e nel loro sviluppo personale, ridotto a confluire, per esprimersi, negli interstizi sociali creatisi versus le forme evolute di capitalismo, che omologano l’intero sistema di riferimenti materiali e simbolici dell’impre­sa, così come del sistema sociale di riferimento delle persone.

Non è solo un problema etico ma anche una carenza strategica del ma­nagement chiudere i soggetti nel mondo aziendale, che poi coincide e si conforma ai valori e credenze di un sistema globale, orientato dai soli fattori economicistici e competitivi. Si rischia di perdere l’altra metà del mondo; le idee, le percezioni, le sensibilità che provengono da altre sfere della personalità individuale e della società, passibili di essere messe a va­lore lecitamente dall’impresa (secondo gli sperimentati canoni del capitale sociale, delle conoscenze individuali e degli stakeholder istituzionali).

Il processo mentale dell’organizzare

Eppure la cultura organizzativa può essere anche liberatoria e creativa. Per gli stessi manager, quando si comprende e accetta senza riserve il contri­buto conoscitivo di K. Weick (1936-vivente)10. Nella sua analisi non ci sono più, unicamente, i segni della cultura, i significati simbolici, le stesse differenze culturali, perché la sua è una impostazione totalmente cognitiva. Sulla nozione di “ambiente” ci siamo già soffermati; qui (nello schema di Weick) il problema, per il manager (o imprenditore), è passare dalla caotica differenziazione o complessità del contesto al nuovo ordine della possibile creazione (mentale). È il management (e l’impresa) che attivano l’ambiente di riferimento (tramite l’enactment), gli attribuiscono senso (tramite il sensema­king) e lo organizzano (attraverso l’organizing), secondo mappe cognitive, continuamente disegnate e ridisegnate dal management (e dagli stessi attori organizzativi). Il compito dei manager o dei leader diviene l’identificazione di un percorso ambientale reale e virtuoso (passando dall’”indifferenziato” al senso attribuito); in questa nuova sensibilità l’ambiente diventa una co­struzione intellettiva dei soggetti, anche tramite il linguaggio organizzativo (etichette simboliche), con i vincoli (materiali e culturali) del contesto am­bientale versus la creatività e (nuove) costruzione dei significati; attraverso le cosid­dette connessioni lasche (loose coupling) che diventano i nuovi, e più evoluti, strumenti del coordinamento organizzativo, intermediando in modalità flessibile significati at­tribuiti e condivisi.

Se questa è la nuova logica organizzativa della progettazione (estrazione e costruzione di senso), in tale schema trova posto anche il cambia­mento organizzativo, perché se l’organizzazione è “pensata” dai soggetti e dai manager, può essere, da questi, “ripensata”, anche tramite il linguaggio organizzativo (attribuendo nuove etichette simboliche al mondo reale), lottando, ancora, contro i vincoli ambientali, e utilizzando il lessico come nuova leva strategica della progettazione e del mutamento organizzativo, sempre guidato dal sensemaking manageriale.

Sembra che il discorso di Weick si avvicini di più alla cultura dell’im­prenditoria (fatta di idee) che a quella dei manager (basata sui controlli), facendo largo alle intuizioni e alla capacità attrattiva dei leader, come più avanzato punto di sintesi della guida e controllo organizzativo.

La teoria dei costi di transazione

A partire da O. Williamson (1932-vivente) l’unità di analisi organizza­tiva sarà la “transazione” (in senso lato), perché siamo in pieno declino del modello di produzione fordista, che apre la strada alle dinamiche del postfordismo (crisi della grande impresa nel corso degli anni ’70), da cui derivano due rivoluzioni organizzative (una esterna e l’altra interna); la prima è l’impatto avuto da questa teoria sul design organizzativo (esternalizzazioni), mentre la seconda è il nuovo modello della “produzione snella”, che pos­siamo già definire attraverso un concetto tutto orientale come quello dell’essenzialità (o muda), il risparmio di risorse, spazi, scorte, tempo; una “intensificazione” dell’intero sistema azienda, votata alla produttività e qualità dei processi e dei prodotti, secondo la nuova logica del just in time (che sostituisce il tradizionale principio del just in case)11.

Make or buy?

Guardando ancora l’esterno dell’organizzazione, il dilemma cui si trova di fronte, in questo approccio, il management è: comprare o produrre? Ossia gerarchia versus mercato, l’integrazione verticale versus la deverticalizza­zione, l’internalizzazione versus l’outsourcing, i costi di produzione versus i costi di transazione; in effetti, non solo il recupero di un passato remoto (il mercato) ma anche di un passato prossimo (la gerarchia) nell’ambito dei variegati strumenti del coordinamento organizzativo.

La decisione manageriale diventa, allora, il confronto tra i costi d’uso del mercato (incertezze e complessità) e i costi d’uso dell’impresa (strut­turali o distorsivi), tramite l’analisi della tecnologia (semplice o comples­sa), la rilevazione della frequenza delle transazioni (alte o basse), e l’in­dividuazione delle eventuali salvaguardie necessarie ai contratti (esterni). Considerando come presupposti della teoria i consolidati concetti della razionalità limitata e l’opportunismo dei soggetti (che si riferiscono alle più recenti teorie dell’“azzardo morale” e della “selezione avversa”12). D’altronde, come sappiamo, il mercato ha storicamente preceduto la gerarchia, che si è sviluppata a partire dalla prima e durante la seconda rivoluzione indu­striale, invertendo, nel corso della terza, il percorso dalla (stessa) gerar­chia al mercato (esternalizzazioni). Il che significa, allora come oggi, che esiste un fallimento del mercato (basato sulle sue potenziali distorsio­ni) e un fallimento della gerarchia (per conflittualità sociale e ipertrofia burocratica).

Le opzioni progettuali e gestionali (dei manager) fra mercato e gerar­chia seguono le seguenti regole. In prima approssimazione le transa­zioni organizzative (operazioni) di routine vengono trasferite al mercato facilmente mentre le transazioni organizzative ad elevata intensità tec­nologica (o idiosincratiche) vengono trattenute in azienda. Ma le cose non sono così semplici. Il management dovrà tenere sempre conto dei due presupposti già sottolineati: la razionalità limitata (dei contratti) e il potenziale di opportunismo insito nella natura umana. Dovrà poi con­siderare la frequenza delle transazioni (organizzative) che, se alta spinge le operations verso l’integrazione nella struttura organizzativa, il contrario se bassa (ossia, in prima approssimazione è inutile fare un investimento strutturale per operazioni organizzative una-tantum). La seconda con­siderazione riguarderà la specificità delle operazioni, la loro complessità tecnologica, ed eventuali caratteristiche idiosincratiche13, che, se elevata indirizzerà la loro collocazione all’interno della gerarchia, al contrario il mercato sarà la soluzione ideale per tutti gli investimenti non speci­fici. Ciò è determinato dal fatto che la complessità della transazione di mercato determina sempre incertezza e relativi costi di transazione (o di protezione dei contratti). Il problema, per il management, alla fine sarà sempre un confronto tra i costi di produzione (della gerarchia) versus i costi di transazione (del mercato)14.

L’ultimo mio contributo (il decimo) programmato per il prossimo numero de Il Caos Management sarà dedicato al titolo concettuale della presente rivista, fondata con lungimirante preveggenza dall’Ingegnere Giuseppe Monti e diretta insieme a lui da Marisol Barbara Herreros, che ringrazio per la disponibilità ad ospitare il mio percorso teorico, perché come affermato da Edgar Morin il caos o “la complessità è una parola problema e non una parola soluzione”.

1 G. Costa, R. C. Nacamulli (a cura di), Le teorie dell’organizzazione, UTET Università, 1997.

2 P. R. Lawrence, J. W. Lorsch. Organization end Environment, Boston, MA, Har­vard Business School, Division of Research, 1967. https://journals.sagepub.com/doi/ abs/10.1177/002218566801000314

3 T. Burns, G. M. Stalker, Direzione aziendale e innovazione, Franco Angeli, 1974.

4 H. Mintzberg, La progettazione dell’organizzazione aziendale, il Mulino, 1996.

5 Span of Control significa il numero di subordinati che possono essere gestiti in modo efficiente ed efficace da un superiore in un’organizzazione, verticalizzando o ren­dendo orizzontale una struttura organizzativa a seconda della sua ampiezza. La tendenza odierna è quella di aumentare lo spazio di controllo, per economizzare i costi della gerar­chia, ma aumentando così il lavoro dei manager.

6 È ovvio che il raggruppamento delle persone per “processo” specializza le unità operative o funzioni, mentre il raggruppamento per “mercato” avvicina l’organizzazione ai clienti –utenti, focalizza sul prodotto finito e dedica spazialmente le risorse ai differenti mercati.

7 F. E. Emery, E. L. Trist, The Causal Texture of Organizational Environments, Human Relations vol.18, pp. 21-32. Reprinted with Permission, 1965. https://journals. sagepub.com/doi/10.1177/001872676501800103

8 E. H. Schein, Cultura d’azienda e leadership, Raffaello Cortina Editore, 2018.

9 G. Kunda, L’ ingegneria della cultura. Controllo, appartenenza e impegno in un’impresa ad alta tecnologia, Einaudi, 2000.

10 K. E. Weick, Sensemaking in Organizations, Sage Publications, 1995.

11 Principi di OL antitetici, in sintesi si tratta di passare dal “casomai” o “all’occor­renza” all’“appena in tempo”, secondo una logica e comunicazione visiva. Spesso descritto come produzione di prodotti finiti per il magazzino in attesa di essere venduti (detto logica push) passando alla logica pull secondo cui occorre produrre solo ciò che è stato già venduto o che si prevede di vendere in tempi brevi.

12 In economia, il rischio morale (moral hazard) di opportunismo post-contrattuale, che può portare gli individui a perseguire i propri interessi a spese della controparte, con­fidando nella impossibilità, per quest’ultima, di verificare la presenza di dolo o negligenza. Così come la selezione avversa è una situazione in cui una variazione delle condizioni di un contratto provoca una selezione nella platea dei contraenti che risulta sfavorevole per la parte che ha modificato le condizioni a proprio vantaggio.

13 Unico venditore e unico acquirente. In questo caso le pratiche di outsourcing sono bloccate nei numeri e nella struttura della relazione, per cui il ricorso al mercato non risulta più conveniente.

14 O. Williamson, Markets and hierarchies, analysis and antitrust implications: a study in the economics of internal organization. file:///C:/Users/Antonio/Downloads/Williamson%20Markets%20and%20Hierarchies%20Ch1_2_12_13%20(1975).pdf, Id. The economic institu­tions of capitalism: firms, markets, relational contracting